La cannibalizzazione dell’Europa

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Il gas naturale estratto tramite fracking potrebbe produrre effetti ambientali peggiori rispetto a quelli imputabili al carbone, ma a differenza di quest’ultimo beneficia di un enorme vantaggio competitivo dato sostanzialmente da due fattori: l’aggettivo “naturale” e il sostegno apparentemente incondizionato del governo degli Stati Uniti. Una ricerca preliminare di Robert Howarth della Cornell University, riportata di recente dal «New Yorker», rileva nello specifico che l’impatto ambientale determinato dal metano ricavato da fratturazioni idrauliche risulta peggiore nella misura del 24% rispetto al carbone, anzitutto a causa delle cospicue perdite che tendono a verificarsi in pressoché ogni fase della produzione, dalla perforazione al trasporto.

Si tratta tuttavia dell’ipotesi migliore, caratterizzata dall’impiego di navi moderne e da rotte di percorrenza verso i mercati di sbocco significativamente più brevi. L’impatto del metano risulterebbe infatti maggiormente negativo rispetto a quello del carbone addirittura del 274% nello scenario peggiore, in cui il gas naturale viene estratto tramite fracking, liquefatto, caricato su gigantesche navi-cisterna ultra-inquinanti e rigassificato in appositi impianti collocati a lunga o lunghissima distanza. Lo scenario peggiore coincide perfettamente con quello in cui si trova attualmente l’Europa, che dopo la recisione dell’arteria energetica che la collegava alla Russia, emblemizzata dal sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, è diventata enormemente dipendente dagli Stati Uniti per quanto concerne l’approvvigionamento di gas naturale.

Come ha specificato il segretario di Stato Antony Blinken, nel corso del 2022 gli Stati Uniti hanno for­nito 56 miliardi di metri cubi di Gnl all’Unione Euro­pea. Si tratta di un incremento del 140 per cento ri­spetto al 2021, ma comunque insufficiente a sostituire completamente le forniture russe. Il conseguimento dell’obiettivo richiede forti investimenti per l’allesti­mento di adeguate infrastrutture, non solo in Europa (rigassificatori) ma anche negli stessi Stati Uniti (pro­spezione, perforazione, costruzione di nuovi impianti di liquefazione, eccetera), e quindi la definizione di vincoli giuridici che formalizzino l’ancoraggio strate­gico degli acquirenti europei ai fornitori statunitensi.

Lo ha evidenziato durante una conferenza tenuta­si ad Abu Dhabi lo scorso gennaio Toby Rice, che in veste di amministratore delegato della società Eqt (principale produttrice di gas degli Stati Uniti) ha an­nunciato la disponibilità degli Usa a fornire maggiori volumi di Gnl, ma soltanto previa sottoscrizione di contratti a lungo termine – gli stessi che gli Usa ave­vano persuaso l’Europa ad abbandonare per allenta­re il vincolo energetico con la Russia – al prezzo di 380 dollari per 1.000 metri cubi di gas, in confronto ai 200-220 applicati da Mosca.

Contratti che, peraltro, non sempre vengono rispettati, come testimoniato dalla causa sollevata tra gli altri da Shell, British Petroleum, Repsol ed Edison nei confronti di Venture Global, azienda statunitense del Gas Naturale Liquefatto accusata dalle società in oggetto di aver rivenduto sull’assai redditizio mercato spot svariati carichi di Gnl destinati all’Europa ai sensi di contratti di fornitura a lungo termine già definiti. Shell sostiene che l’iniziativa “opportunistica” avrebbe assicurato a Venture Global entrate per 18 miliardi di dollari, ed ha quindi invocato di concerto con British Petroleum un intervento delle autorità di Washington e Bruxelles, in quanto il mancato rispetto dei contratti di fornitura di gas naturale liquefatto da parte di Venture Global minaccia la sicurezza energetica dell’Europa. A sua volta, Venture Global ha definito “oltraggiosa” la “richiesta di interferenza” avanzata dalle società europee al fine di costringere la compagnia statunitense a consegnare i carichi già concordati o a pagare congrue sanzioni pecuniarie, nell’ambito di un processo che potrebbe protrarsi per anni. Secondo il «Financial Times», «la richiesta di intervento da parte della task-force congiunta tra Unione Europea Stati Uniti sulla sicurezza energetica – istituita dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia per stimolare le esportazioni di gas statunitense verso l’Europa – segna una significativa escalation della controversia. La Shell ha dichiarato in una lettera alla task-force che “un comportamento così miope e senza precedenti costituisce un precedente preoccupante che potrebbe erodere la fiducia del mercato e ritardare gli investimenti nelle infrastrutture di esportazione del GNL statunitense che sono ancora estremamente necessarie per sostenere la sicurezza energetica dell’Europa”».

A tale scopo, l’amministrazione Biden si era mobilitata la scorsa primavera concedendo il via libera a un progetto da 39 miliardi di dollari volto alla messa a regime di alcuni giacimenti dall’Alaska, mentre a ottobre la Federal Energy Regulatory Commission ha approvato sia la realizzazione di una conduttura destinata a trasportare gas estratto tramite fracking verso il Pacifico nord-occidentale, sia l’espansione di una struttura nota come Calcasieu Pass di proprietà di Venture Global. La quale, a dispetto delle accuse mossele contro dalle compagnie del “vecchio continente”, si è associata al governo di Washington sostenendo che questi progetti sono stati messi in cantiere proprio per fornire sicurezza energetica ai “nostri alleati europei”, che continuano imperterriti a stanziare fondi crescenti per la costruzione di nuovi impianti di rigassificazione nonostante l’appiattimento delle importazioni e la revisione al ribasso delle previsioni sulla domanda di gas, come segnalato dall’Institute for Energy Economics and Financial Analysis.

D’altro canto, il potenziamento delle capacità di esportazione di gas di scisto da parte degli Stati Uniti appare, alla luce delle conclusioni a cui approda lo studio pubblicato da Robert Howarth della Cornell University, quantomeno incongruo rispetto agli obiettivi perseguiti dall’amministrazione Biden in materia di lotta al cambiamento climatico, quali quello di prevenire un riscaldamento del pianeta superiore a 1,5 gradi Celsius. Il più recente tentativo di conciliare queste due finalità così palesemente incompatibili è stato avanzato nientemeno che da Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza Nazionale. In uno strano saggio a sua firma pubblicato su «Foreign Affairs» e recante l’altisonante titolo di “Le fonti del potere americano. Una politica estera per un mondo in cambiamento”, Sullivan dipinge un quadro desolante di un Paese, gli Stati uniti, letteralmente assediato da un’aspra competizione ingaggiata anzitutto dai principali rivali geopolitici. In tale contesto, evidenzia Sullivan, adattarsi alle «nuove realtà del potere» significa riconoscere che «l’esercizio del potere su scala internazionale dipende dalla capacità di un Paese di sviluppare una forte economia interna». Il disegno di legge bipartisan sulle infrastrutture, il Chips and Science Act e l’Inflation Reduction Act – volti a rafforzare le industrie di esportazione strategiche a spese dell’Europa e a ridurre le “dipendenze pericolose” attraverso il cosiddetto friendshoring, cioè la costruzione di catene di approvvigionamento centrate su Paesi alleati – servono a porre gli Stati Uniti nelle condizioni di «contrastare al meglio i tentativi da parte di potenze esterne di limitare l’accesso americano a input critici».

Nel suo articolo, Sullivan attribuisce grande importanza alla lotta al cambiamento climatico, ma attraverso una serie di impervie contorsioni argomentative si spinge ad avanzare la tesi secondo cui la soluzione del problema dipenda dalla capacità degli Stati Uniti di modellare l’ordine mondiale a propria immagine e somiglianza. O meglio, in funzione dei propri interessi, e necessariamente a detrimento di quella difesa dell’ambiente e del clima asseritamente collocata in cima alla gerarchia delle finalità da perseguire.

Il risultato di questo tipo di politica climatica motivata da esigenze di carattere geopolitico è che non si tratta realmente di una politica climatica, il cui obiettivo principale dovrebbe essere la riduzione delle emissioni. Cercare di rafforzare le catene di approvvigionamento nazionali di energia pulita è un obiettivo perfettamente valido. Ma se il premio finale consiste nella preservazione degli Stati Uniti come unica superpotenza, non c’è motivo per cui l’espansione dell’energia pulita debba escludersi a vicenda con le esportazioni di combustibili fossili in continua espansione. Se l’amministrazione Biden volesse davvero pianificare la decarbonizzazione, adotterebbe un approccio molto diverso, che consideri l’incremento delle capacità del Paese di esportare Gas Naturale Liquefatto estratto tramite fracking alla stregua di una catastrofe ambientale, comprovata da una miriade di studi scientifici, e non di una “fonte di forza” come Jake Sullivan pretende di qualificarla.

Il quadro transatlantico vede quindi nella sua componente occidentali gli Stati Uniti, i quali cercano di muovere i primi passi verso la reindustrializzazione ammantando l’intero progetto con una retorica pseudo-ambientalista a cui credono ormai soltanto gli apparati tecno-burocratici dell’Unione Europea. Sul lato orientale si situa invece l’Europa, resa dipendente anche sotto il profilo degli approvvigionamenti energetici, oltre a quello politico e militare, dalla potenza egemone che, dopo aver troncato il flusso di gas russo per interposta Ucraina, intende ricostruire il proprio tessuto produttivo a spese del “vecchio continente”. Dinnanzi all’Europa si staglia insomma la sempre più concreta prospettiva della desertificazione economica, anche a causa delle limitazioni sulle emissioni di anidride carbonica che sbattono automaticamente fuori mercato interi settori manifatturieri (a partire da quelli energivori), oltre che dalla disfunzionalità del cosiddetto price cap. Il «Financial Times» riporta infatti che il tetto massimo imposto dagli Stati Uniti sulle vendite di petrolio russo viene quasi completamente aggirato, come si evince dalle dichiarazioni rese al quotidiano finanziario britannico da un alto funzionario governativo europeo secondo cui “quasi nessuna” delle spedizioni di greggio trasportato via mare in ottobre è stata effettuata al di sotto del limite di 60 dollari al barile che il G-7 e i suoi alleati hanno tentato di imporre.

Vale la pena riportare, a questo proposito, le valutazioni formulate in una recente intervista da Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università Cattolica di Milano. A suo avviso, «la guerra in Ucraina ha devastato l’Unione Europea da un punto di vista economico e politico assai più del Covid, nonostante le periodiche passerelle a Kiev e le dichiarazioni di sostegno eterno di questo o quel caratterista della scena politica internazionale. Finché non si mette ordine da quelle parti non si può pensare ai prossimi anni senza essere ridicoli […]. L’Europa da un punto di vista geopolitico non è mai – dico mai – stata messa male come oggi. È riuscita ad isolarsi dal resto del mondo non avendo né fonti energetiche, né materie prime. È in crisi demografica nella sua zona core. E soprattutto ha dato mostra, con le sanzioni, di non saper garantire sicurezza ai capitali extraeuropei che la alimentavano – e in parte ancora la alimentano – investendo in questa parte del mondo, fidando nella stabilità del continente. Mi scusi, ma lei investirebbe in un posto dove, in nome dei “diritti umani”, ti congelano e ti confiscano i capitali? […]. Adesso ci troviamo russi e turchi a presidiare il distributore di benzina sotto casa. Però abbiamo l’euro, le politiche di de-industrializzazione green per un mondo migliore, lo Stato di diritto immaginario del Pnrr e i diritti umani. E quindi siamo i più bravi. Anche se la Germania è in recessione, la Francia è in squilibrio costante sulla bilancia dei pagamenti con una situazione interna incandescente, e noi vivacchiamo con un debito pubblico al 140% da cui dovremmo rientrare nella misura che dovremo contrattare con la Commissione che verrà».

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