di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Qualche giorno fa, il «Washington Post» ha rivelato che, a partire dallo scatenamento dell’Operazione Spade di Ferro, Israele ha lanciato contro la Striscia di Gaza oltre 22.000 bombe messe a disposizione dagli Stati Uniti, come si evince dai dati di intelligence di cui il Congresso ha recentemente autorizzato la divulgazione. Entro l’arco temporale in oggetto, Washington avrebbe fornito a Israele circa 15.000 ordigni (comprese le bombe anti-bunker da 2.000 libbre) e più di 50.000 proiettili di artiglieria. Un tipo di munizionamento smaccatamente incompatibile le cosiddette “operazioni chirurgiche”, ma perfettamente coerente con una campagna di bombardamenti a tappeto come quella che le forze israeliane stanno conducendo contro la Striscia di Gaza.
All’11 dicembre, il Ministero della Sanità di Gaza quantificava in oltre 18.200 morti e circa 47.000 feriti il numero delle vittime palestinesi mietute dagli attacchi israeliani, senza distinguere tra civili ed effettivi di Hamas. All’interno di un rapporto stilato dall’Israeli Defense Force, invece, si giudica “verosimile” un ammontare complessivo pari a circa 15.000 morti, tra cui “oltre 5.000” membri di Hamas. Un rapporto di due vittime civili per ogni miliziano di Hamas assassinato, che secondo il portavoce dell’esercito israeliano Jonathan Conricus certificherebbe il successo delle operazioni militari. A suo avviso, «qualora, come credo, i nostri numeri verranno confermati, si tratterebbe di un bilancio straordinariamente positivo e forse unico al mondo, se si confrontano questi dati con quelli afferenti a qualsiasi altro conflitto combattuto in territorio urbano tra un esercito e un’organizzazione terroristica incorporata nella popolazioni locale che utilizza i civili come scudi umani».
Anche prendendo per oro colato le valutazioni israeliane, sebbene in ogni contesto bellico la cortina fumogena della propaganda sparsa dai vari contendenti pregiudichi sistematicamente la formulazione di stime realistiche circa il reale numero delle vittime, resta da chiedersi quale costo abbia sostenuto Tel Aviv per conseguire un risultato così “straordinariamente positivo”, stando alle esternazioni pronunciate dal portavoce dell’Israeli Defense Force. Il 10 dicembre, il Ministero della Difesa israeliano informava che, a partire dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avevano registrato in 425 morti e 1.593 feriti. Nello specifico, 255 soldati avevano riportato lesioni gravi, 446 ferite moderate e 892 escoriazioni o poco più. Attualmente ospedalizzati risulterebbero 40 feriti gravi, 211 feriti non gravi e 165 feriti lievi.
Un prezzo tutto sommato “contenuto”, ma che i vertici dell’esercito israeliano avevano inizialmente rifiutato di divulgare nonostante le pressanti richieste formulate in proposito dal quotidiano «Haaretz», il quale aveva sottolineato come questa irrituale questa “politica del silenzio” si ponesse in sostanziale discontinuità rispetto alla linea tenuta dalle forze armate israeliane nel corso delle guerre e delle operazioni militari del passato, caratterizzata dalla regolare pubblicazione di dati attestanti il numero dei feriti e di rapporti in merito alle attività di combattimento svolte e ai programmi di riabilitazione dei soldati.
Senonché, la cifre fornite infine dell’esercito israeliano al fine di evitare che la “politica del silenzio” continuasse a sollevare inquietanti interrogativi in tutto il Paese sono state contestate alla radice da «Haaretz», che ha sottolineato una macroscopica discrepanza tra i dati forniti dal Ministero della Difesa di Tel Aviv e quanto si ricava dall’analisi dei registri ospedalieri. Secondo cui le strutture israeliane avrebbero ricevuto ben 4.591 feriti, e non 1.593 come annunciato dall’esercito. Per esempio, si legge nell’inchiesta realizzata dal quotidiano, «il solo centro medico Barzilai di Ashkelon riferisce di aver curato 1.949 soldati feriti a decorrere dal 7 ottobre (su un ammontare di 3.117 pazienti curati durante la guerra), mentre l’esercito riferisce un totale di 1.593 soldati feriti. Altri 178 soldati sarebbero stati curati presso l’Assuta di Ashdod, 148 presso l’Ichilov di Tel Aviv 148, 181 presso il Rambam di Haifa, 348 presso le strutture di Hadassah e Sha’arei Tzedek di Gerusalemme. Inoltre, circa 1.000 soldati addizionali sono stati curati presso il centro medico Soroka di Beer Sheva, mentre altri 650 sono stati curati presso l’ospedale Sheba a Tel-Hashomer. Si tratta di un elenco parziale, poiché i dati non includono i soldati attualmente in riabilitazione che erano già stati conteggiati come feriti all’arrivo nei reparti di emergenza e di degenza». Nel computo, evidenzia ancora «Haaretz», non rientrano inoltre i feriti riportati nel corso del conflitto dai corpi istituzionali preposti alla sicurezza non inquadrati nelle forze armate, quali i gruppi speciali da ricognizione, i nuclei Swat, la polizia, la polizia di frontiera, lo Shin Bet e le quadre di emergenza e salvataggio come Magen David Adom.
L’Israeli Defense Force, dal canto suo, ha precisato che i numeri forniti in precedenza facevano riferimento soltanto ai soldati classificati come inabili a tornare in servizio, nell’ambito di un disperato tentativo di ridimensionare l’impatto dirompente delle rivelazioni di «Haaretz» che è risultato tuttavia vanificato dalle cifre ancor più allarmanti indicate dal quotidiano «Yedioth Ahronot». Secondo cui, a partire dal 7 ottobre, gli ospedali israeliani avevano accolto oltre 5.000 soldati, di cui più di 2.000 ufficialmente riconosciuti come disabili dal Ministero della Difesa. «Non abbiamo mai sperimentato nulla di simile. Oltre il 58% dei feriti che riceviamo è afflitto da gravi lesioni alle mani e ai piedi, in alcuni casi talmente ampie da richiedere amputazioni», ha dichiarato al giornale Limor Luria, a capo del dipartimento di riabilitazione del Ministero della Difesa israeliano. La quale ha aggiunto che «il 12% delle lesioni è di natura interna e consiste in danni alla milza, ai reni e alla lesione più o meno irreparabile degli organi interni. Il 7% circa soffre dei disagi psicologici causati dal disturbo post-traumatico da stress; una percentuale che è inesorabilmente destinata ad aumentare in maniera notevole». Nella sommatoria vanno ricomprese anche le centinaia di soldati israeliani che hanno subito gravi ferite oftalmologiche, culminate nel 15% circa dei casi con la perdita della vista da uno o da entrambi gli occhi.
La situazione sul campo potrebbe rivelarsi addirittura peggiore, come si evince dalla inquietante ma eloquente vicenda relativa all’allontanamento dalla redazione di «Yediot Ahronot» di Ariel Shimon. Vale a dire il giornalista le cui rivelazioni esplosive avevano gettato un’ulteriore ombra sulla trasparenza comunicativa del governo israeliano. Secondo il suo rapporto esclusivo, i dati diramati dall’esecutivo di Tel Aviv sottostimerebbero enormemente il reale bilancio del conflitto, che a suo dire avrebbe prodotto un numero di perdite di almeno tre volte superiore rispetto a quello ufficialmente riconosciuto.
Shimon sostiene che, dall’inizio del conflitto, oltre 250 tra soldati e ufficiali avrebbero riportato una perdita totale della vista, e più di 500 mezzi militari, inclusi carri armati, veicoli blindati, bulldozer e Hummer, sarebbero stati completamente distrutti. Ma soprattutto, il giornalista afferma con forza che il numero reale dei caduti, tra ufficiali e sottoposti di vario grado, ammonterebbe a 3.850 unità; quello dei soldati feriti, addirittura a 7.000, di cui ben 3.700 ridotti in stato di disabilità permanente.
Fatta eccezione per la Guerra dello Yom Kippur (comunque combattuta contro eserciti regolari di ben due Paesi), si tratterebbe di un massacro senza precedenti nella storia di Israele, che secondo Shimon solleva cruciali interrogativi in merito alla riluttanza del governo guidato da Benjamin Netanyahu a rivelare la reale portata delle perdite e alle chance concrete che l’esercito israeliano ha attualmente di conseguire gli obiettivi dichiarati dell’Operazione Spade di Ferro.
A partire da quello consistente nella “eradicazione” di Hamas dalla Striscia di Gaza. Nonostante i proclami ultra-ottimistici formulati dal ministro della Difesa Yoav Gallant, secondo cui «le ultime roccaforti di Hamas a Jabaliya e Shejaiya sono state circondate; battaglioni considerati invincibili, preparatisi per anni a combatterci, sono sul punto di essere smantellati», l’infrastruttura militare dell’organizzazione islamista non sarebbe stata intaccata in maniera significativa dalle operazioni israeliane, come osservato da numerosi osservatori. Tra i quali spicca una fonte “al di sopra di ogni sospetto” del calibro di «Foreign Affairs», che in una lunga analisi a firma di Robert A. Pape, politologo statunitense specializzato in questioni geopolitiche e militari, sostiene che «Israele ha preso il controllo e/o distrutto gli ingressi di molti tunnel di Hamas, che potranno tuttavia essere riparati […]. Ma soprattutto, i leader e i combattenti di Hamas sembrano aver abbandonato i cunicoli sotterranei prima dell’irruzione delle forze israeliane, il che significa che lo strumento più importante di cui l’organizzazione dispone – i suoi combattenti – rimane integro. Hamas beneficia di un vantaggio rispetto alle forze israeliane: può facilmente abbandonare in via provvisoria la lotta, confondersi tra la popolazione civile e sopravvivere, in vista di imbracciare nuovamente le armi e tornare a combattere in condizioni maggiormente favorevoli. Ecco perché un’operazione di terra su larga scala come quella posta in essere da Israele è destinata al fallimento».
Inoltre, recita la disamina fornita da Pape, le perdite inflitte ad Hamas «non ridurranno in maniera apprezzabile la minaccia per i civili israeliani, poiché, come hanno dimostrato gli attacchi del 7 ottobre, occorrono poche centinaia di combattenti per seminare il caos nelle comunità israeliane». Allo stesso tempo, ammettendo che la campagna militare sta producendo vittime tra i civili in misura doppia rispetto a quelle prodotte tra le fila di Hamas, Israele sta alimentando, con una sete di vendetta deliberatamente indotta presso la popolazione residente nella Striscia di Gaza, i semi da cui germinerà inesorabilmente un numero di futuri guerriglieri di gran lunga superiore rispetto a quanti Tsahal ne sta – asseritamente – eliminando. Pape menziona in proposito un sondaggio realizzato recentissimamente presso Striscia di Gaza e Cisgiordania, da cui emerge che la popolarità di Hamas tra i palestinesi abbia attualmente raggiunto quota 76%, a fronte del 27% registrato prima della guerra. Il tutto grazie anche a un efficacissimo uso dei moderni sistemi di comunicazione, poiché «a dispetto della carenza di energia e della devastazione che si registrano lungo l’intera Striscia di Gaza, Hamas continua a sfornare filmati di propaganda che mostrano le atrocità commesse dalle forze israeliane contro i civili palestinesi e le intense battaglie tra i combattenti di Hamas e le truppe israeliane. La propaganda del gruppo è capillarmente trasmessa via Telegram; il canale di riferimento dell’organizzazione conta più di 620.000 utenti».
La conclusione di Pape non lascia scampo: «il fallimento dell’approccio adottato attualmente da Israele sta diventando ogni giorno più evidente. Un dibattito pubblico focalizzato su questa evidenza, combinato ad un rigoroso esame di alternative praticabili, rappresenta la via più agevolmente percorribile per convincere Israele ad assumere una linea d’azione che, in fine dei conti, risulta rispondente al suo interesse nazionale». Specialmente in virtù della totale, conclamata dipendenza di Israele dal sostegno militare e politico degli Stati Uniti, che, combinandosi con la “sospetta” débâcle in materia di intelligence rimediata il 7 ottobre, incrina giocoforza la deterrenza del Paese sul doppio versante interno ed esterno. E produce questo effetto proprio mentre l’efferatezza dell’Operazione Spade di Ferro, dietro alla quale perfino uno storico israeliano specializzato nella Shoah come Omer Bartov ha avanzato il sospetto che si annidino “intenti genocidi”, concorre – di concerto con la riapertura dei canali diplomatici tra Iran e Arabia Saudita, raggiunta grazie alla mediazione cinese – a ricomporre in funzione anti-israeliana la fitna che divide storicamente sciiti e sunniti e inimica allo Stato ebraico il favore sia del cosiddetto “Sud globale”, sia di gran parte dell’opinione pubblica mondiale, compresa quella occidentale.
Sul versante domestico, l’incertezza che aleggia sul destino degli ostaggi in balia di Hamas e le rivelazioni circa l’elevato numero di perdite subite da Tsahal durante l’invasione della Striscia di Gaza potrebbero amplificare oltre la soglia critica l’effetto destabilizzante prodotto sulla società israeliana dall’Operazione Diluvio al-Aqsa sferrata dalle brigate al-Qassam lo scorso 7 ottobre.
Il rischio è che si inneschi una sinergia negativa in grado di esacerbare le divisioni in seno a una società già ampiamente frammentata come quella israeliana e allargare la (preesistente e profonda) frattura tra popolazione e classe dirigente, pregiudicando a quest’ultima la capacità di estorcere alla cittadinanza un tributo di sangue sufficiente a garantire il conseguimento degli obiettivi perseguiti dal governo. Un esito che si è già manifestato nell’estate del 2006, quando l’invasione del Libano attuata dalle forze armate israeliane per “disinnescare” Hezbollah si è evoluta in una guerra casa per casa risoltasi, nonostante il centinaio abbondante di caduti tra le forze israeliane, con il ritiro di Tsahal e il rafforzamento militare e politico del Partito di Dio, abilissimo a convertire l’ecatombe di civili e la devastazione delle aree meridionali del “Paese dei cedri” provocate dall’attacco israeliano in incremento assai considerevole della popolarità. A tutt’oggi, Hezbollah dispone di migliaia di missili e razzi puntati contro lo Stato ebraico e “punzecchia” sesta sosta Tsahal costringendo Tel Aviv a mantenere costantemente presidiato il confine settentrionale, sottraendo risorse preziose che potrebbero essere impiegate nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, anch’essa in preda a forti turbolenze.
Episodi recenti quali l’uccisione di 8 soldati israeliani, compreso il comandante del 13° battaglione della Brigata Golani, nell’ambito di un’imboscata tesa nel quartiere di Shujaiya dai miliziani di Hamas, e la morte di altri 7 membri di Tsahal nel corso dei pesanti combattimenti interno a Khan Younis, non contribuiscono certo a mantenere alto il morale sia tra le fila dell’esercito israeliano che della popolazione civile in una fase estremamente critica come quella che il Paese sta attraversando.
Per Israele potrebbe insomma profilarsi un destino analogo a quello in cui si sono imbattuti gli Stati Uniti in Vietnam, quando l’insurrezione guidata da H? Chí Minh e Võ Nguyên Giáp riuscì, pur pagando un prezzo elevatissimo in termini di vittime, a isolare il nemico dai suoi alleati, dividerlo sul fronte interno e dissolverne infine la volontà di continuare a combattere. Come annotava nel 1968 il sociologo Göran Therborn, «combattendo con successo e ben diretta, l’armata dei guerriglieri riesce ad erodere e infine a disintegrare la posizione sociale, politica e militare del meno agile nemico convenzionale che – prima di essere definitivamente sconfitto – scaglia contro la popolazione tutta la sua furia tecnologica».
Che dinnanzi a Israele si stagli uno scenario di questo tipo resta da vedere. Di certo, la classe dirigente di Tel Aviv e la società israeliana sono chiamate ad affrontare sfide di natura esistenziale, come non se ne presentavano da decenni.
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