La "zavorra" Israele sulle fragili spalle degli Usa di oggi

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Lo scorso 30 novembre, il «New York Times» ha pubblicato un’inchiesta che sviscera i contenuti di un dossier composto da una quarantina di pagine, redatto dall’intelligence israeliana e intitolato Muro di Gerico. Si tratta di un documento sconcertante, in quanto ricostruiva con larghissimo anticipo e dovizia di particolari le mosse che i miliziani delle brigate al-Qassam avrebbero posto concretamente in essere nell’ambito dell’Operazione al-Aqsa Flood, costata la vita a circa 1.200 israeliani. In altri termini, scrive l’autorevole quotidiano statunitense, «i funzionari israeliani erano a conoscenza del piano di battaglia predisposto da Hamas per l’attacco terroristico sferrato il 7 ottobre più di un anno prima che avesse luogo […], ma i vertici dell’esercito e dell’intelligence israeliani hanno liquidato il piano come “velleitario”, giudicandolo troppo difficile da realizzare alla luce delle scarse risorse di cui dispone Hamas». Più specificamente, «il documento descriveva in maniera dettagliata i progetti elaborati da Hamas per violare le fortificazioni che sorgono attorno alla Striscia di Gaza, assumere il controllo delle vicine città israeliane e assaltare le principali basi militari, compresa una divisione nella sede centrale […]. Hamas ha seguito il piano con meticolosa precisione».

Il documento evidenziava che la fase iniziale dell’operazione prevedeva il lancio di una raffica di razzi e il sabotaggio tramite droni sia delle telecamere di sicurezza che delle mitragliatrici automatiche installate lungo il confine, così da consentire a miliziani armati di penetrare in territorio israeliano, o a piedi e in motocicletta dopo essersi aperti un varco nella “barriera protettiva”, o scavalcando quest’ultima grazie ad appositi parapendii a motore. Una ricostruzione, insomma, perfettamente coincidente con le dinamiche che hanno caratterizzato l’Operazione al-Aqsa Flood.

Il rapporto Muro di Gerico non indicava una data certa in cui avrebbe preso corpo l’attacco di Hamas, ma segnali circa la sua imminenza erano stati puntualmente raccolti e trasmessi alle autorità competenti da una pluralità di soggetti. A partire dai membri dell’Israeli Defense Force di stanza presso la base di Nahal Oz, i quali già dal luglio di quest’anno avevano richiamato l’attenzione dei loro superiori sull’inusuale, frenetico attivismo dei miliziani di Hamas, coinvolti in sessioni di addestramento sempre più intense e frequenti e in operazioni di scavo e collocamento di esplosivi in prossimità della “barriera protettiva”. Gli autori della segnalazione sostengono che i dati attestanti l’intensificazione delle operazioni all’interno della Striscia di Gaza furono liquidati dagli ufficiali preposti come sostanzialmente irrilevanti, sebbene le informazioni fornite dai soldati acquartierati presso la base di Nahal Oz risultassero sostanzialmente convergenti con quelle trasmesse da un nucleo di cittadini residenti presso alcuni kibbutz limitrofi alla Striscia di Gaza. Attraverso un’attività di monitoraggio delle comunicazioni wireless non protette provenienti dall’esigua lingua di terra erano riusciti, questi privati cittadini israeliani avevano appreso che al di là del muro di separazione si stavano conducendo esercitazioni mirate a penetrare in territorio israeliano, catturare ostaggi e assaltare i kibbutz, documentate dettagliatamente in un’inchiesta della «Cnn» pubblicata pochi giorni dopo i fatti del 7 ottobre. L’entità della mobilitazione che si registrava all’interno della Striscia di Gaza risultava talmente imponente da spingere Abbas Kamel, ministro dell’Intelligence egiziano, a segnalare all’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che Hamas stava preparando “qualcosa di grosso”. Lo stesso Kamel ha dichiarato di esser rimasto sbalordito dalla freddezza e dalla sostanziale indifferenza manifestata dalle controparti israeliane, i cui maldestri tentativi di smentita della ricostruzione dei fatti formulata dal ministro dell’Intelligence del Cairo sono stati vanificati nientemeno che dal presidente della Commissione affari esteri della Camera, il repubblicano Michael McCaul, secondo cui gli egiziano avevano messo al corrente anche gli Stati Uniti della “soffiata” trasmessa agli israeliani. «Un ammonimento era stato dato», ha dichiarato McCaul.

Il fallimento dell’intelligence di Tel Aviv fa il paio con quello conseguito dagli apparati militari e di polizia in materia di contrasto all’Operazione al-Aqsa Flood, come emerso da una serie di inchieste giornalistiche in cui si evidenzia che un numero alquanto consistente di caduti israeliani sarebbero vittime di “fuoco amico”. Una delle pubblicazioni più attive in proposito si è rivelata «Haaretz», i cui impietosi reportage circa la condotta seguita dalle forze di sicurezza quel fatidico 7 ottobre hanno suscitato forte irritazione presso l’esecutivo guidato da Netanyahu, al punto da indurre il ministro della Comunicazione Schlomo Karhi a presentare al segretario di gabinetto Yossi Fuchs un disegno di legge volto a vietare la pubblicazione di “note del governo” su «Haaretz», in quanto il giornale «sabota Israele in tempo di guerra», «induce la sfiducia nei soldati e civili israeliani che stanno affrontando il nemico», «diffonde menzogne e pubblica propaganda disfattista».

Il provvedimento punitivo che il governo di Tel Aviv ha pianificato di adottare nei confronti di «Haaretz» sembra, in realtà, nascere dall’esigenza di mantenere i fatti del 7 ottobre celati all’interno di un impenetrabile cono d’ombra. Anche perché l’entità della débâcle in materia di intelligence e sicurezza registrata da Israele quel giorno appare talmente imponente da risultare perfino sospetta, specie se letta attraverso le chiavi interpretative ricavabili dalle dichiarazioni formulate da un alto ufficiale israeliano, secondo cui, alla luce di quanto accaduto, «l’unica soluzione è non affidarsi più all’intelligence», in quanto «la deterrenza non è più sufficiente […]. Ci troviamo di fronte a un nuovo paradigma». Un paradigma che sta concretamente prendendo forma attraverso le operazioni politiche e militari che Israele sta portando avanti, mirate al “ridimensionamento” della Striscia di Gaza e all’annessione formale della Cisgiordania e del Golan. Lo si evince chiaramente sia dalle dichiarazioni rilasciate apertis verbis dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen, secondo cui il territorio della Striscia di Gaza risulterà “ridotto” una volta completate le operazioni militari, sia dal contenuto di un documento del Ministero dell’Intelligence israeliano reperito e reso di pubblico dominio dal quotidiano israeliano «Mekomit», in cui si afferma che il miglior risultato possibile a cui Israele può puntare una volta concluso il conflitto consiste nel trasferimento della popolazione palestinese residente nella Striscia di Gaza presso il Sinai. Secondo il giudizio degli autori del rapporto, questa opzione «produrrà risultati strategici positivi e a lungo termine», a differenza di quelle implicanti l’instaurazione della sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla Striscia di Gaza – che sembra scontare l’approvazione degli Stati Uniti – o in alternativa la creazione di una compagine di governo alternativa ad Hamas.

Entrambe le possibilità, si sostiene all’interno del rapporto, non fornirebbero adeguate garanzie di deterrenza. Il documento suggerisce quindi di attuare il progetto di deportazione in tre fasi distinte: la prima prevede lo spostamento della popolazione palestinese verso le aree meridionali della Striscia di Gaza, mentre l’aeronautica militare avrebbe bombardato la parte settentrionale della Striscia; nella seconda, dovrebbe scattare l’invasione terrestre, volta alla «pulizia dei bunker sotterranei dai combattenti di Hamas» in vista della successiva occupazione dell’intera Striscia; la terza contempla la creazione di un corridoio umanitario che garantisca l’esodo dei palestinesi verso una serie di tendopoli da allestire appositamente nella penisola egiziana e la successiva costruzione di insediamenti destinati ad ospitare la popolazione oggetto di trasferimento. L’ultimo passaggio verte sulla creazione di una “terra di nessuno”, una sorta di “fascia di sicurezza” profonda svariati chilometri nel territorio del Sinai per prevenire un possibile controesodo dei palestinesi sfollati.

Significativamente, il documento evidenzia in maniera esplicita la necessità di agevolare l’attuazione del programma attraverso il coinvolgimento dei Paesi arabi, della Turchia, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, sui quali far leva da un lato per esercitare con successo pressioni sull’Egitto affinché accolga gran parte profughi, e dall’altro in un’ottica di condivisione degli sforzi per l’accoglimento e il ricollocamento dei palestinesi.

In riferimento a Cisgiordania e Golan, le intenzioni del governo israeliano trapelano da iniziative quali la manovra burocratica che ha sancito il trasferimento del controllo sui territori occupati dall’amministrazione militare a quella civile, e nello specifico ai dipartimenti facenti capo al Ministero delle Finanze, diretto da un referente indiscusso del movimento dei coloni come Bezalel Smotrich. La misura ha comportato l’eliminazione di gran parte delle preesistenti procedure diplomatiche e di sicurezza necessarie all’applicazione dei programmi di espansione degli insediamenti, che d’ora in poi verranno inoltrati direttamente ai comitati di pianificazione in Cisgiordania e nel Golan. Come ha osservato Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in questioni di diritto internazionale, il passaggio delle questioni afferenti la gestione degli insediamenti dall’autorità militare all’amministrazione civile rappresenta una conclamata violazione del diritto internazionale, perché sancisce l’incorporazione de facto dei territori occupati nello Stato israeliano. Un obiettivo, quest’ultimo, perfettamente riscontrabile nelle linee programmatiche definite dal governo Netanyahu all’atto dell’insediamento, in cui si afferma che «il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile sull’intera Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà gli insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele: Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria».

Sono molti, in altri termini, i segnali che concorrono ad avvalorare una precisa spiegazione – tra le tante che sono state formulate – della stupefacente inadeguatezza manifestata dagli apparati militari e spionistici israeliani dinnanzi all’Operazione al-Aqsa Flood: «l’eventualitàscrive lo specialista Roberto Iannuzzi – che dietro questi incredibili errori dei servizi di sicurezza vi fosse l’intenzione di dimostrare che Israele non può più affidarsi all’intelligence […], ma deve scongiurare potenziali minacce eliminandole preventivamente».

Si tratta di una “soluzione” che presenta tuttavia enormi controindicazioni, specialmente per gli Stati Uniti, che in qualità di principali sponsor di Israele stanno inimicandosi – come lamentato dalla fronda interna al Dipartimento di Stato resasi protagonista di una sorta di ammutinamento nei confronti della leadership del dicastero – il favore di gran parte del cosiddetto “Sud del mondo” attraverso il fiancheggiamento della linea dello scontro totale sposata dal governo Netanyahu.

Lo stesso primo ministro israeliano ha recentemente dichiarato alla presenza del segretario di Stato Antony Blinken che il Paese proseguirà le operazioni militari finché non considererà conseguiti tre obiettivi fondamentali: il rilascio di tutti gli ostaggi, la distruzione di Hamas e la garanzia che la Striscia di Gaza non rappresenterà mai più una minaccia. La stessa integrità dell’attuale esecutivo dipende dal prolungamento del conflitto, come evidenziato senza mezzi termini da Itamar Ben-Gvir; esprimendosi a nome del partito Otzama Yehudit di cui è leader indiscusso, l’attuale ministro per la Sicurezza Nazionale ha dichiarato in un emblematico post su Twitter/X («fermare la guerra = scioglimento del governo») che un ulteriore accordo di cessate il fuoco con Hamas comporterà la caduta del governo. E, una volta scaduto l’accordo di cessate il fuoco, ha poi rincarato: «dobbiamo tornare a martellare Gaza con tutta la forza, distruggere Hamas e ritornare stabilmente a Gaza. Senza compromessi. Senza “intese”. Con tutta la nostra potenza possibile»

In tale contesto, le rivelazioni “scandalose” del «New York Times» e le tempistiche che ne hanno caratterizzato la diffusione acquisiscono una valenza politica cristallina, perché vanno automaticamente a intensificare le pressioni sulla classe dirigente israeliana affinché apporti sostanziali modifiche alla propria linea d’azione, e ponga le condizioni per una tregua di lunga durata. Pena, si legge in controluce nel messaggio non esattamente cifrato inviato da Washington, la pubblicazione di nuove e più sconcertanti rivelazioni circa la condotta del governo e degli apparati di sicurezza di Tel Aviv quel fatidico 7 ottobre. L’uscita del «New York Times» fa del resto seguito a una serie di pronunciamenti del presidente Joe Biden, che dopo aver inizialmente definito l’accordo di cessate il fuoco raggiunto tra Hamas e Israele «sbagliato, ripugnante e vergognoso», ha innestato una repentina retromarcia, avvisando Netanyahu che il genere di operazione militare portata avanti nel nord della Striscia di Gaza non potrà essere replicato nelle aree meridionali della stessa.

Sulla questione è tornato anche Blinken: stando a una fonte raggiunta dal sempre ben informato «Axios», durante un incontro con il capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane, generale Herzi Halevi, il segretario di Stato «ha espresso preoccupazione e ha dichiarato che quanto più si protrarrà la campagna militare ad alta intensità, tanto maggiore si rivelerà la pressione internazionale sia sugli Stati Uniti che su Israele per bloccarla». Esternazioni difficilmente equivocabili, pronunciate in risposta alle delucidazioni fornite da Halevi circa il fatto che la campagna militare avrebbe richiesto non settimane, ma mesi. Il prezzo che gli Stati Uniti stanno pagando per il loro appoggio a Israele sta in altre parole divenendo insostenibile, anzitutto dal punto di vista politico, con specifico riferimento al gigantesco danno arrecato alla reputazione internazionale del Paese, alla sempre viva possibilità di un allargamento del conflitto e al rischio di frammentazione della già precaria coesione interna alla Nato, reso concreto dalla postura fortemente disallineata adottata dalla Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Aspetti parimenti critici si registrano sul versante economico: con una spesa pubblica fuori controllo, trainata dall’esborso sempre più ingente per il pagamento degli interessi sul debito, le capacità degli Stati Uniti di soddisfare le necessità israeliane vanno riducendosi, come testimoniato dagli irrituali ritardi, dovuti a divergenze interne, che si stanno accumulando per l’approvazione da parte del Congresso del piano di sostegno da 106 miliardi di dollari predisposto dall’amministrazione Biden.

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