di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Lo scorso 12 dicembre, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant assicurava che Hamas si trovava ormai sull’orlo del collasso. «Abbiamo – dichiarò trionfalmente Gallant – circondato le ultime roccaforti di Hamas a Jabaliya e Shejaiya. Le stese forze considerate invincibili, preparatesi per anni a combatterci, sono sul punto di essere smantellate».
A un mese di distanza, sembra che il conflitto abbia preso una piega ben diversa da quella ricavabile dalle dichiarazioni del ministro della Difesa di Tel Aviv. Non soltanto perché l’Israeli Defense Force è ancora lontano dall’acquisire il completo controllo dei territori della Striscia di Gaza, ma anche in virtù delle fughe di notizie dal contenuto tutt’altro che rassicurante che giungono dal fronte. Anzitutto per quanto concerne il numero reale dei caduti tra le fila israeliane.
Il 10 dicembre, il Ministero della Difesa israeliano informava che, a partire dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avevano registrato in 425 morti e 1.593 feriti. Nello specifico, 255 soldati avevano riportato lesioni gravi, 446 ferite moderate e 892 escoriazioni o poco più. Cifre tutto sommato “contenute”, divenute tuttavia oggetti di pesanti contestazioni da parte di «Haaretz», che in una sua inchiesta ha sottolineato una macroscopica discrepanza tra i dati forniti dal Ministero della Difesa di Tel Aviv e quanto si ricava dall’analisi dei registri ospedalieri. Secondo cui le strutture israeliane avrebbero ricevuto ben 4.591 feriti, e non 1.593 come annunciato dall’esercito. Indicazioni ancor più allarmanti sono state fornite dal «Yedioth Ahronot», secondo cui, a partire dal 7 ottobre, gli ospedali israeliani avevano accolto oltre 5.000 soldati, di cui più di 2.000 ufficialmente riconosciuti come disabili dal Ministero della Difesa.
Nei giorni scorsi, inoltre, l’analista Yitzhak Brik ha riferito, sulla base di informazioni ricevute da soldati e ufficiali dell’Israeli Defense Force impegnati nei combattimenti nella Striscia di Gaza, che «il numero effettivo di miliziani di Hamas eliminati dalle nostre forze sul campo di battaglia è di molto inferiore rispetto ai dati ufficiali comunicati dal governo. A differenza di quanto sostenuto da portavoce dell’esecutivo e analisti ammanicati, inoltre, la guerra non si combatte faccia a faccia, dal momento che la maggior parte delle nostre perdite sono imputabili a bombe e missili anticarro […]. I guerriglieri di Hamas emergono dagli imbocchi dei tunnel per piazzare ordigni, collocare trappole esplosive e sferrare attacchi missilistici contro i nostri veicoli blindati, per poi scomparire di nuovo nei cunicoli sotterranei. E l’Israeli Defense Force non dispone attualmente di soluzioni rapide per condurre una lotta efficace contro Hamas […]. La distruzione dei tunnel richiederà molti anni e un prezzo molto elevato in termini di vite israeliane. Anche l’esercito è giunto a riconoscere che Hamas ha scavato, grazie alla consulenza dei massimi esperti del settore, centinaia di chilometri di tunnel, situati in profondità, dotati di molteplici diramazioni […] e in grado sia di interconnettere le aree di cui si compone la Striscia di Gaza, sia di collegare quest’ultima alla penisola del Sinai al di sotto del valico di Rafah».
Il principale obiettivo dichiarato dell’Operazione Spade di Ferro, consistente della “eradicazione di Hamas”, è quindi ancora molto lontano dall’essere conseguito, a dispetto delle perdite subite e dell’imponente sforzo militare ed economico sostenuto.
Stesso discorso vale per l’altra finalità, più o meno esplicitamente perseguita, consistente nella rimozione della presenza palestinese dalla Striscia di Gaza. La prospettiva di una “seconda Nakba”, invocata apertamente dal ministro dell’Agricoltura Likud Avi Dichter e indicata come obiettivo da perseguire ora all’interno di un documento strategico riconducibile al Ministero dell’Intelligence israeliano, sconta l’ostilità perfino dei principali alleati di Israele, e si è sinora infranta sulla incrollabile indisponibilità dell’Egitto a farsi carico di centinaia di migliaia di profughi palestinesi nonostante le forti pressioni esercitate in proposito dal governo Netanyahu.
A un epilogo parimenti fallimentare sembra essere approdata l’iniziativa, di cui ha parlato il «Times of Israel» sulla base di confidenze rese da anonimi funzionari israeliani, mirante a “ricollocare” i palestinesi sfollati presso alcuni Paesi del Terzo Mondo. «La Repubblica Democratica del Congo sarà disposta ad accogliere un certo numero di profughi, mentre procedono trattative analoghi con altri Paesi», ha dichiarato al quotidiano una fonte di alto livello del gabinetto di guerra israeliano. Ad appena ventiquattr’ore di distanza, lo stesso «Times of Israel» ha pubblicato la secca smentita da parte di Patrick Muyaya, che in veste di portavoce del governo di Kinshasa ha assicurato in un comunicato stampa che «non c’è mai stata alcuna forma di negoziato, discussione o iniziativa in merito all’accoglienza dei rifugiati palestinesi sul suolo congolese». Un altro alto – e anonimo – funzionario israeliano che ha dichiarato al quotidiano che l’dea stessa di ricollocare la popolazione residente nella Striscia di Gaza rappresenta a suo avviso «un’illusione infondata. Nessun Paese accetterà di assorbire 2 milioni di persone, o un milione, o 100.000, o 5.000».
Il risultato è stato delineato da «Haaretz», che in un editoriale a firma di Jim B. Michel ha rilevato che «siamo bloccati tra le montagne di macerie che abbiamo creato. Inzuppati di fiumi di sangue e morte. Responsabili […] della sorte di 2 milioni di senzatetto rimasti ormai senza nulla, molti dei quali discendenti dei profughi della Nakba […]. Come ne usciremo non lo sa nessuno».
Vi sono, tuttavia, alcuni indizi piuttosto indicativi circa il “riorientamento” che la classe dirigente israeliana sta mettendo in cantiere per uscire dal vicolo cieco in cui ha infilato il Paese. Nell’arco di una manciata di giorni, tre eventi politicamente rilevantissimi hanno scompaginato ulteriormente lo scenario: un raid israeliano in Siria ha portato all’assassinio dell’alto ufficiale dei Pasdaran Razi Mousavi; un’altra incursione aerea a Beirut è culminata con l’eliminazione dell’esponente verticistico di Hamas Saleh al-Arouri; un devastante attentato terroristico perpetrato in occasione del terzo anniversario dell’assassinio del generale Qasem Soleimani ha mietuto oltre 100 vittime civili in Iran. L’Isis avrebbe rivendicato la paternità dell’azione terroristica, ma le autorità di Teheran hanno accusato Washington e – soprattutto – Tel Aviv di esser dietro l’operazione, inquadrandola assieme alle altre due in un più ampio progetto di escalation consistente nel compensare alla mancanza di risultati sul campo di battaglia di Gaza con un allargamento del conflitto.
Si tratta di uno scenario pericolosissimo, non solo per le sue ovvie implicazioni di carattere economico-commerciale connesse alla centralità che la regione mediorientale riveste per il mercato energetico mondiale, ma anche e soprattutto perché chiamerebbe inesorabilmente in causa la Russia, presente con proprie forze in Siria e alleato strategico della Repubblica Islamica dell’Iran al pari della Cina, collocata in una posizione più defilata ma altrettanto interessata a preservare la stabilità della regione mediorientale.
Allo stesso tempo, tuttavia, il coinvolgimento degli Stati Uniti in un grande conflitto mediorientale creerebbe automaticamente le condizioni per una resa dei conti con l’Asse della Resistenza da cui potrebbero scaturire il “disinnesco” di Hezbollah e il decisivo ridimensionamento dell’influenza iraniana in Medio Oriente. In tali condizioni, le forze armate israeliane ripristinerebbero la propria capacità di deterrenza, incrinata dagli eventi del 7 ottobre e dalle grosse difficoltà oggettive riscontrate durante l’Operazione Spade di Ferro. Il governo di Tel Aviv, quantomai traballante sotto il profilo del consenso interno, recupererebbe invece la fiducia dell’opinione pubblica cementandola in merito al “traguardo finale” definito urbi et orbi da ministri di primissimo piano quali Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir: la pulizia etica della Palestina.
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