di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
A dispetto delle previsioni secondo cui l’imminenza del Ramadan incrementava le possibilità che rappresentanti israeliani e leader di Hamas concordassero quantomeno una tregua, i combattimenti nella Striscia di Gaza proseguono regolarmente. Simultaneamente, il tentativo dell’amministrazione Biden di indebolire la posizione di Netanyahu attraverso l’“incoronazione” di Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore dell’Israeli Defense Force e membro d’opposizione del gabinetto di guerra israeliano, si è risolto in un colossale fallimento. Individuato da Washington come una figura “moderata” da appoggiare per scalzare l’attuale primo ministro israeliano dal suo ruolo, Ganz si è rivelato perfettamente allineato a Netanyahu riguardo alla linea d’azione da portare avanti nella Striscia di Gaza.
Segno che Israele intende proseguire per la sua strada, nonostante il prezzo sempre più elevato che il Paese è chiamato a sostenere. Le inchieste condotte dai quotidiani «Haaretz», «Yedioth Ahronoth» e «The Times of Israel» hanno messo in luce l’entità assai ragguardevole – di molto superiore a quella ricavabile dai dati forniti dal governo – delle perdite, in termini di morti e feriti gravi, riportate dall’Israeli Defense Force. Di converso, stando a quanto riportato dall’analista Yitzhak Brik sulla base di informazioni ricevute da soldati e ufficiali di Tsahal impegnati nei combattimenti nella Striscia di Gaza, «il numero effettivo di miliziani di Hamas eliminati dalle nostre forze sul campo di battaglia è di molto inferiore rispetto ai dati ufficiali comunicati dal governo […]. L’Israeli Defense Force non dispone attualmente di soluzioni rapide per condurre una lotta efficace contro Hamas […]. La distruzione dei tunnel richiederà molti anni e un prezzo molto elevato in termini di vite israeliane». Secondo le stime formulate da fonti interne all’intelligence statunitense raggiunte dal «Wall Street Journal», alla fine del gennaio 2024 le forze di Tsahal erano riuscite ad eliminare una quota di personale combattente di Hamas compresa tra il 20 e il 30% del totale e l’apparato militare dell’organizzazione non era stato intaccato in maniera significativa. Alcuni alti ufficiali dell’Israeli Defense Force riconoscevano tuttavia che simili valutazioni potessero sovrastimare l’entità del danno arrecato al movimento, che stando alle confidenze rese da anonimi ufficiali di Tsahal al «New York Times» dispone di «un’infrastruttura molto più sofisticata di quanto precedentemente valutato dagli ufficiali dell’intelligence israeliana».
Per lo storico militare Robert Pape, questa capacità di contenere le perdite è dovuta al fatto che «Hamas beneficia di un vantaggio rispetto alle forze israeliane: può facilmente abbandonare in via provvisoria la lotta, confondersi tra la popolazione civile e sopravvivere, in vista di imbracciare nuovamente le armi e tornare a combattere in condizioni maggiormente favorevoli. Ecco perché un’operazione di terra su larga scala come quella posta in essere da Israele è destinata al fallimento». Ed espone per di più il Paese al pericolosissimo rischio della sovraestensione militare, dal momento che, non appena è scattata l’Operazione Iron Swords, Hezbollah ha iniziato a “punzecchiare” senza sosta l’Israeli Defense Force, creando una zona cuscinetto all’interno di Israele profonda una decina di km ed estesa lungo l’intero confine comune. Gli attacchi intermittenti hanno costretto il governo di Tel Aviv per un verso a mantenere costantemente presidiato il confine settentrionale, per l’altro a evacuare i centri abitati maggiormente esposti ai missili del Partito di Dio.
Un provvedimento, quello relativo alla risistemazione dei cittadini israeliani residente in zone a rischio, che è andato ad accrescere il fardello economico a carico di Israele. Nel novembre 2023, la Bank of Israel ha formulato una previsione secondo cui la guerra sarebbe costata a Israele circa 53 miliardi di dollari fino al 2025. «La spesa pubblica – ha dichiarato il governatore Amir Yaron – aumenterà a causa di un incremento strutturale dell’esborso legato alla difesa, oltre che dell’appesantimento degli oneri debitori». Zvi Eckstein, ex vicegovernatore della Bank of Israel, ha quantificato in 220 milioni di dollari al giorno il costo che la guerra ha per Israele. Secondo i suoi calcoli, l’impatto del conflitto sul bilancio pubblico – compresa la contrazione delle entrate fiscali – è quantificabile in 19 miliardi di dollari per il quarto trimestre del 2023, in cui si è registrata una contrazione del Pil del 20%. Uno shock pesantissimo, imputabile ai mancati introiti turistici e alla chiusura di molte attività agricole a causa della fuga di coloni e lavoratori, soprattutto nel nord, vicino al Libano. Nonché, sostiene Goldman Sachs in una nota, «al crollo degli investimenti e dei consumi privati», di entità tale da compensare l’incremento della spesa pubblica e il saldo commerciale netto positivo. I comparti dell’edilizia e dell’alta tecnologica, in particolare, hanno subito i maggiori contraccolpi: il primo a causa della carenza di lavoratori palestinesi, a cui è stato vietato l’ingresso in Israele in seguito al 7 ottobre; il secondo, per effetto della chiamata alle armi di numerosissimi impiegati nell’ambito della mobilitazione generale (360.000 riservisti, pari al 10% circa della forza lavoro).
Anche le operazioni condotte dagli Houthi hanno inciso, come confermato dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato del porto di Eilat secondo cui gli attacchi portati dal gruppo sciita-zaydita ai mercantili che salpano da o si dirigono verso Israele hanno comportato la chiusura della principale arteria di navigazione della struttura, con conseguente crollo (85%) delle sue attività complessive e esplosione delle tariffe di trasporto marittimo. Per un Paese che copre tramite importazioni parte assai ragguardevole (70-80%) dei consumi interni, si tratta di un problema di indubbia rilevanza. Di conseguenza, le previsioni di crescita formulate per il 2024 dalla Bank of Israel sono state ridimensionate, con alcuni economisti spintisi a intravedere la prospettiva della recessione. Dal canto suo, Moody’s ha declassato il debito israeliano da A1 ad A2 con outlook negativo, in quanto «il conflitto in corso con Hamas, le sue conseguenze e le implicazioni di medio periodo aumentano considerevolmente il rischio politico per Israele, oltre a indebolire le sue istituzioni esecutive e legislative e la sua forza fiscale».
Il problema cruciale, assai difficilmente risolvibile per Israele, è che la resistenza palestinese nel suo complesso può contare su quello che l’acutissimo storico militare israeliano Martin Van Creveld definisce in un suo fondamentale lavoro “forza della debolezza”. Vale a dire quell’asimmetria delle forze in campo che nelle guerre di quarta generazione analizzate dal colonnello John Boyd (il principale teorico militare statunitense) premia il contendente più attrezzato dal punto di vista militare soltanto tatticamente, penalizzandolo in maniera decisiva sotto il profilo strategico. In questo genere di conflitti, «gli Stati normalmente vincono a livello fisico/tattico a costo di sconfiggere se stessi sul piano morale/strategico. È molto difficile per gli Stati sfuggire alla trappola perché la loro superiorità nel primo ambito è la causa della loro sconfitta nel secondo». Ne discende che, quanto più ampia e diffusa si rivelerà la distruzione materiale della Striscia di Gaza, tanto più grave e profonda si determinerà la sconfitta strategica di Israele. Come osserva Van Creveld: «una forza piccola e debole che si confronta con una forza grande e potente necessita di uno spirito combattivo molto elevato per compensare alle proprie carenze. Tuttavia, poiché la sopravvivenza stessa non è un’impresa da poco, quello spirito combattivo si alimenta di ogni vittoria, per quanto minore».
Al contrario, «una forza potente che combatte contro una debole per un certo periodo di tempo è quasi certa di soffrire di un calo del morale, poiché nulla è più inutile di conseguire una serie di vittorie ripetute a tempo indeterminato […]. Combattere i deboli sminuisce coloro che si impegnano nello sforzo e mina di conseguenza il loro obiettivo politico. Sia chi perde che chi vince contro i deboli viene sconfitto». Dal momento che «la necessità non conosce limiti, chi è debole può permettersi di fare di tutto, di ricorrere ai mezzi più subdoli e di commettere ogni tipo di atrocità senza compromettere il suo sostegno politico e, cosa ancora più importante, i propri principi morali». Viceversa, «quasi tutto ciò che il forte fa o non fa è, in un certo senso, non necessario e quindi crudele. Per lui l’unica strada che conduce alla salvezza consiste nel vincere velocemente, così da sfuggire alle peggiori conseguenze della sua stessa crudeltà; una brutalità rapida e spietata può rivelarsi più accettabile di una repressione prolungata». Il prolungamento del conflitto asimmetrico accelera pericolosamente il logoramento del contendente più forte: «una spada, immersa nell’acqua salata, arrugginisce. Quanto tempo ci vorrà perché accada dipende dalle circostanze. Una forza professionale, isolata dal resto della società, debitamente addestrata e abituata a combattere, probabilmente resisterà meglio di una composta da coscritti. La disciplina, di per sé un attributo della professionalità, conta molto». In assenza di un «ferreo autocontrollo, una forza creata per affrontare una controparte debole finirà nel corso del tempo per violare le sue stesse regole e commettere crimini. Costretta a mentire per nasconderli, troverà il sistema di giustizia militare indebolito, il processo di comando distorto e un vuoto di credibilità aprirsi sotto i suoi piedi […]. I processi appena descritti sono così difficili da contrastare che coloro che ne sono coinvolti potrebbero non riprendersi mai». Anche il controllo sulle fonti di informazione, «sia interne che esterne, può essere utile soltanto fino a un certo punto. Gestendo attentamente le notizie ed esercitando una censura selettiva è possibile evitare che le peggiori atrocità – quasi tutto ciò che viene commesso dai forti contro i deboli viene inquadrato come un’atrocità – raggiungano il pubblico a casa. Il momento in cui l’opinione pubblica si rivolterà contro la guerra e i suoi responsabili può essere posticipato, anche se non indefinitamente. A lungo termine tali controlli si riveleranno controproducenti poiché le truppe, i civili e i neutrali smetteranno di credere a ciò che viene loro detto. A quel punto o cercheranno informazioni alternative oppure inizieranno a inventarle».
Per cui, «la stessa questione di giusto e sbagliato dipende in gran parte dall’equilibrio delle forze […]. Una buona guerra, come un buon gioco, quasi per definizione si combatte contro soggetti che sono forti almeno quanto, o preferibilmente più forti, di noi stessi […]. Lungi dall’essere separata dalla guerra, l’etica ne costituisce il nucleo centrale».
Nel complesso, «il rapporto tra forza e debolezza e i dilemmi morali che ne derivano rappresentano probabilmente la migliore spiegazione disponibile del motivo per cui, negli ultimi decenni, gli eserciti moderni […] sono stati così inefficaci nel combattere conflitti a bassa intensità […]. Rifiutandosi di giocare secondo le regole che i Paesi “civilizzati” hanno stabilito in base alla propria convenienza, hanno sviluppato la propria forma di guerra e iniziato ad esportarla».
Per Israele potrebbe profilarsi un destino analogo a quello in cui si sono imbattuti gli Stati Uniti in Vietnam, quando l’insurrezione guidata da H? Chí Minh e Võ Nguyên Giáp conseguì, a un prezzo elevatissimo in termini di vittime, il triplice risultato di isolare il nemico dai suoi alleati, dividerlo sul fronte interno e dissolverne infine la volontà di continuare a combattere. Come annotava nel 1968 il sociologo Göran Therborn, «combattendo con successo e ben diretta, l’armata dei guerriglieri riesce ad erodere e infine a disintegrare la posizione sociale, politica e militare del meno agile nemico convenzionale che – prima di essere definitivamente sconfitto – scaglia contro la popolazione tutta la sua furia tecnologica». Riflettendo sulla sconfitta che andava profilandosi in quel conflitto, Henry Kissinger rilevò già agli albori del 1969 – quando ricopriva il ruolo di consigliere per la Sicurezza Nazionale di Nixon – che mentre gli Usa avevano portato avanti una campagna militare, i vietnamiti conducevano una guerra politica. «Abbiamo perseguito – scrisse Kissinger – il logoramento fisico del nemico; i nostri avversari miravano al nostro esaurimento psicologico. In questo modo abbiamo perso di vista una delle massime fondamentali della guerra partigiana: la guerriglia vince se non perde, l’esercito convenzionale perde se non vince. I nordvietnamiti si avvalevano della loro forza combattente allo stesso modo in cui un torero agita il suo mantello: la impiegavano per farci avanzare in aree di marginale importanza politica».
Il ragionamento si attaglia perfettamente alla tipologia di conflitto combattuto nella Striscia di Gaza.
I sondaggi indicano che la maggioranza della società israeliana – di cui l’esercito è lo specchio – appoggia l’Operazione Iron Sword, ma questo robusto sostegno popolare è andato rapidamente e ampiamente erodendosi nel corso dei mesi. A due settimane dal lancio della campagna militare, un interessante studio condotto dalla Hebrew University riscontrava tendenze molto promettenti: «circa il 48,6% della popolazione israeliana si è impegnata nel volontariato durante questo periodo critico […] con iniziative mirate riguardanti svariati ambiti: sostegno a soldati e civili evacuati, invio di attrezzature, cure psicologiche per persone che hanno subito traumi, ecc. Ogni campo si possa immaginare è coperto da un’attività, in cui sono coinvolti anche gli arabi e gli ultraortodossi». Dall’analisi è emerso che «i tassi di volontariato erano quasi uguali sia per gli uomini che per le donne, così come per gli individui con affiliazioni religiose e i secolari […]. Le divisioni sociali preesistenti sono state messe da parte poiché molti individui sono stati esortati a prendere parte a questi sforzi di mobilitazione».
Una rilevazione condotta dall’autorevole Jewish People Policy Institute nel febbraio 2024 ha delineato un quadro molto differente, da cui è emerso che la fiducia del pubblico israeliano nella vittoria era diminuita di venti punti percentuali rispetto a ottobre, attestandosi a poco più del 50%. Un calo notevolissimo, presumibilmente influenzato dalla pubblicazione dei dati attestanti il fatto che, nei primi due mesi di guerra, «il numero degli israeliani che ha lasciato il Paese e non ha fatto ritorno ammonta a circa 470.000 unità». Allo stesso tempo, la popolarità sia di Netanyahu che del gabinetto di guerra costituito all’indomani del 7 ottobre era scesa molto vicino alla soglia critica del 30%. Lo si evinceva chiaramente dall’imponenza delle manifestazioni organizzate dai parenti degli ostaggi catturati da Hamas, resisi addirittura protagonisti di una irruzione all’interno della Commissione Finanze della Knesset per contestare alle autorità di Tel Aviv lo scarso impegno profuso per la liberazione dei loro congiunti. Il sondaggio ha evidenziato anche una crescente “disaffezione” nei confronti di vertici di Tsahal, imputabile all’aumento dei caduti tra le fila dell’Israeli Defense Force e al prolungamento dello sforzo bellico, che contraddice le dichiarazioni formulate da Gallant il 12 dicembre 2023 secondo cui Hamas era già allora «sull’orlo del collasso».
Nel corso di una intervista rilasciata a una popolare emittente televisiva israeliana, per di più, Gadi Eizenkot, ex generale e membro del gabinetto di guerra israeliano collocato su posizioni molto critiche nei confronti del governo, ha dichiarato che «chi parla di sconfitta totale di Hamas non dice la verità». Ed ha anche rivelato che, appena quattro giorno dopo lo scatenamento dell’Operazione al-Aqsa Flood, si era dovuto attivare di concerto con il suo alleato Benny Gantz per dissuadere Netanyahu dallo sferrare un attacco preventivo a Hezbollah, presentandoglielo come un «grave errore strategico». La decisione di Eizenkot di uscire allo scoperto, con rivelazioni così pesanti nei confronti del capo del governo, palesa la profondità delle fratture interne all’establishment israeliano, lacerato da scontri durissimi in merito alla linea politica e operativa da adottare.
La situazione in cui Israele è piombato sembra insomma alquanto critica, al punto da indurre Netanyahu a continui rilanci senza alcun riguardo a invocazioni – più o meno ipocrite – relative a tregue, trattative e scrupoli umanitari di sorta. Anche perché, hanno confidato fonti dell’intelligence statunitense al «Washington Post», «se la guerra di Gaza cessasse domani, la carriera politica di Netanyahu finirebbe di conseguenza, e questo lo incentiva ad ampliare il conflitto». Di qui la decisione di respingere l’accordo con Hamas mediato dal Qatar e altri Paesi arabi, implicante il rilascio di tutti i prigionieri da entrambe le parti e garanzie di sicurezza reciproche, e di intensificare i raid aerei in Siria e Libano contro personale inquadrato in Hamas, Hezbollah e Pasdaran. La traiettoria operativa seguita dal governo Netanyahu sembra indicare che la pianificazione strategica israeliana contempli la “soluzione definitiva” al “problema palestinese” nel quadro di una più ampia riconfigurazione del Medio Oriente. Resta valido, a questo proposito, l’indirizzo strategico tratteggiato dall’influente analista militare israeliano Oded Yinon nel 1982: frammentare il Medio Oriente su basi etniche o confessionali. L’ex primo ministro Ehud Olmert è convinto che le forze estremiste che manipolano Benjamin Netanyahu ambiscano proprio a questo risultato. In un lungo editoriale pubblicato su «Haaretz», Olmert ha scritto che «l’insediamento nella Striscia di Gaza devastata dalla guerra non è l’obiettivo finale del gruppo di messianici allucinati che ha preso il potere nello Stato di Israele. Gaza è solo il capitolo introduttivo […]. Lo scopo finale di questa banda è “epurare” la Cisgiordania dai suoi abitanti palestinesi, ripulire il Monte del Tempio dai fedeli musulmani e annettere i territori allo Stato di Israele. La strada per raggiungere questo obiettivo è intrisa di sangue. Sangue israeliano, nello Stato e nei territori che controlla ormai da 57 anni, così come sangue ebraico in altre parti del mondo. Oltre a molto sangue palestinese, ovviamente, nei territori, a Gerusalemme e, se non c’è alternativa, anche tra i cittadini arabi di Israele. Questo obiettivo non sarà raggiunto senza un ampio conflitto violento. Armageddon. Guerra totale. Nel sud, a Gerusalemme, nei territori della Cisgiordania e nella misura necessaria anche al confine settentrionale. Una guerra del genere rafforzerà l’impressione che stiamo combattendo per le nostre vite, per la nostra stessa esistenza. In una guerra per la sopravvivenza è consentito fare cose insopportabili, e i “giovani delle colline” [gli estremisti appartenenti al gruppo No’ar HaGhev’aot, nda] dimostrano ogni giorno che ce ne sono molti disponibili tra le loro fila».
Per l’ex premier, «è chiaro che siamo lontani dalla “vittoria totale”», in quanto «una simile vittoria non è conseguibile». In un futuro tutt’altro che remoto, «ci troveremo di fronte a diversi Paesi arabi che avranno perso quel che restava della fiducia nella possibilità di creare un rapporto collaborativo con Israele». Anche gli Stati Uniti, «l’alleato che si è lanciato in soccorso di Israele nel suo momento di crisi senza precedenti, quando il governo era sotto shock e il suo leader aveva perso gli ultimi brandelli di buon senso e responsabilità, adotteranno misure destinate a intaccare la capacità di Israele di condurre la battaglia militare e diplomatica, e a danneggiarne la stabilità economica».
Ben-Gvir e Smotrich «non vogliono la tranquillità sul fronte settentrionale. Una guerra anche lì non farà altro che rafforzare l’affermazione secondo cui non c’è altra scelta se non quella di distruggere tutti i nostri nemici, su tutti i fronti, in tutti i settori – qualunque sia il prezzo da pagare».
Obiettivo assai difficile da conseguire. Dalla guerra del 2006, le forze di cui si compone l’Asse della Resistenza hanno dedotto che i conflitti del futuro si sarebbero basati sull’attrito, e impostato quindi una dottrina operativa intesa a logorare Israele attraverso una serie di operazioni ben calibrate. L’Iran e i suoi alleati intendono in altri termini sfiancare lo Stato ebraico, misurando l’intensità del conflitto nel tentativo di preservare il dominio dell’escalation. In qualità di leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah ha annunciato che le operazioni dell’ala militare del Partito di Dio lungo il confine con Israele sarebbero proseguite fintantoché Israele avesse portato avanti il massacro di Gaza. Ed ha aggiunto che, qualora pianifichi un’aggressione contro il Libano, Tel Aviv dovrebbe occuparsi di predisporre «rifugi, scantinati, alberghi e scuole sufficienti a ospitare i due milioni di coloni che dovranno necessariamente essere evacuati dal nord della Palestina». Il messaggio è chiaro: «siamo impegnati a combattere Israele fino a quando non sarà cancellato dalla carta geografica. Un Israele forte è pericoloso per il Libano; ma un Israele scoraggiato, sconfitto ed esausto, rappresenta un pericolo minore. L’interesse nazionale del Libano, dei palestinesi e del mondo arabo è che Israele lasci sconfitto questa battaglia».
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