di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Nei giorni scorsi, droni ucraini hanno preso di mira due stazioni radar di cui si compone la rete strategica di allerta precoce della Russia, colpendone una. Le strutture costituiscono parte integrante della rete strategica di allerta precoce della Russia e il loro danneggiamento, anche temporaneo, deteriora la capacità del Paese di rilevare con il dovuto tempismo minacce atomiche in arrivo. La dottrina nucleare russa identifica qualsiasi attacco al sistema essenziale di primo allarme nucleare come una ragione sufficiente per legittimare una ritorsione diretta e proporzionale. Il senatore russo Dimitrij Rogozin ha dichiarato in proposito che l’attacco ha preso di mira «un elemento chiave dell’ombrello nucleare della Russia», ed aggiunto che «il profondo coinvolgimento di Washington nel conflitto e il controllo totale esercitato dagli americani sulla pianificazione militare di Kiev significa che le affermazioni secondo cui gli Stati Uniti non sono a conoscenza dei piani ucraini per colpire il sistema di difesa missilistico russo possono essere escluse».
Parallelamente, una quota maggioritaria di Paesi membri della Nato ha autorizzato Kiev ad avvalersi dei sistemi d’arma occidentali forniti nel corso del conflitto per sferrare attacchi in profondità in territorio russo. La svolta giunge a coronamento delle pressioni esercitate dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che il 27 maggio aveva lamentato il fatto che «l’Ucraina non può attaccare obiettivi militari sul territorio russo. Ciò significa che gli ucraini hanno le mani legate. Vengono attaccati dal territorio russo e non possono rispondere perché ci sono restrizioni sull’uso delle armi. Spetta agli alleati decidere sulle restrizioni alle armi che loro forniscono all’Ucraina, e non alla Nato. Il mio messaggio è di riconsiderare queste restrizioni». I Paesi baltici e la Polonia, dal canto loro, hanno addirittura manifestato disponibilità a trasferire le proprie forze armate in Ucraina al di fuori della cornice atlantica. Lo stesso giorno in cui Stoltenberg invocava l’adozione di una postura maggiormente aggressiva da parte della Nato, il comandante in capo delle forze armate ucraine Aleksandr Syrs’kyj ufficializzava l’accordo con Parigi implicante l’invio di istruttori militari francesi.
Il presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato che i membri della Nato stanno giocando con il fuoco, creando le condizioni per l’innesco di un conflitto globale. Sorprendentemente, valutazioni dello stesso tenore sono state formulate sulle colonne del «Washington Post» da Jeremy Shapiro e Samuel Charap. Trattasi – rispettivamente – del direttore della ricerca presso l’European Council on Foreign Relations e del responsabile dell’area russa ed eurasiatica presso la Rand Corporation. I due studiosi hanno sottolineato in primo luogo che l’escalation a cui si assiste in questi giorni rappresenta la fase più recente di un processo già in atto da anni. Una spirale in base alla quale i Paesi membri della Nato sono passati dalla iniziale fornitura di giubbotti antiproiettile e kit di primo soccorso alla consegna di missili a lungo raggio e caccia F-16, passando per una serie di tappe intermedie scandite dal trasferimento di Javelin, Nlaw, Himars, Leopard, Abrams, Challenger, Patriot, Samp-T, Iris-T, bombe a grappolo, Scalp, Storm Shadow e Atacms. Ogni nuovo sistema d’arma trasferito agli ucraini è stato sconsideratamente identificato come un potenziale “game changer”, in grado di condizionare irreversibilmente la piega degli eventi bellici a favore di Kiev. La realtà, tuttavia, si è dimostrata radicalmente differente. In compenso, si è innescato un circolo vizioso in base al quale ai progressi realizzati dalle forze armate russe sul campo di battaglia corrispondeva un aumento qualitativo – oltre che quantitativo – delle armi e munizioni trasferite all’Ucraina dallo schieramento occidentale. Di conseguenza, le “linee rosse” tracciate originariamente per evitare una degenerazione incontrollata del conflitto sono gradualmente svanite, e l’approccio apparentemente prudenziale assunto in principio dalla Nato ha ceduto il passo a un atteggiamento di vera e propria sfida nei confronti della Russia.
Analogamente, osservano Shapiro e Charap, «gli attacchi all’interno della Russia con armi statunitensi [autorizzati dai Paesi Nato, nda] potrebbero rallentare le operazioni militari attorno a Kharkiv, ma non cambieranno le carte in tavola […]. Con gli attacchi alle linee di rifornimento in Russia, l’offensiva potrebbe rallentare, ma è probabile che i russi si adattino, come hanno fatto con le precedenti mosse degli Stati Uniti […]. La Russia sta vincendo la guerra al momento, quindi è improbabile che il presidente Vladimir Putin si assuma il rischio di provocare un conflitto diretto con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Mosca potrebbe benissimo rispondere, ma è probabile che lo faccia in modo indiretto o asimmetrico, piuttosto che sparare un missile su una capitale europea la prossima settimana». Il problema, rilevano i due specialisti, «è che Washington ha ancora una volta apportato un importante cambiamento di politica in modo reattivo, in risposta alle mosse militari della Russia e non nell’ambito di una strategia più ampia intesa a porre fine alla guerra. I russi continueranno a spingere e tra tre o sei mesi gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi di nuovo qui, sotto una simile campagna di pressione ucraina e alleata, tentati di violare la loro prossima soglia per cercare di invertire la traiettoria negativa».
Lo certificano le recenti dichiarazioni del segretario di Stato Antony Blinken, secondo cui «continueremo a fare ciò che abbiamo fatto finora, ovvero, se necessario, adattarci e aggiustare il tiro di volta in volta». La prassi basata sul binomio adattamento-aggiustamento non costituisce una strategia, e l’escalation reattiva svincolata da un piano strategico configura una linea politica dissennata. Al contrario, «il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti in questo conflitto dovrebbe, come in qualsiasi conflitto, essere guidato da un’idea precisa su come porre fine alla guerra. Occorrerebbe quindi dimostrare che gli attacchi ucraini portati all’interno della Russia con sistemi d’arma statunitensi rientrano in una strategia integrata finalizzata a concludere la guerra a condizioni favorevoli all’Ucraina e agli Stati Uniti».
Svariati esponenti dell’amministrazione Biden hanno ripetutamente dichiarato che il conflitto terminerà al tavolo delle trattative, ma nell’ambito di una contrattazione, le misure coercitive vanno impiegate come leva negoziale. Si impongono costi militari al nemico con l’obiettivo di allinearne le politiche alla propria volontà, non per contrastare la sua ultima manovra. Eppure, scrivono Shapiro e Charap, «l’Ucraina e l’Occidente nel suo complesso non hanno manifestato alcun segno di disponibilità ad avviare trattative con la Russia. E imporre costi in assenza di un processo di contrattazione rende inevitabile un’ulteriore escalation». La conclusione non lascia scampo: «questa spirale dinamica, caratterizzata da un’incessante aggressione russa e dal crescente sostegno militare all’Ucraina accordato dall’Occidente per contrastare lo slancio di Mosca, si sta intensificando da quasi due anni e mezzo. In assenza un processo di contrattazione, potrebbe continuare per anni a venire». Finché, un giorno, una delle due parti non arrivi a oltrepassare una “linea rossa” ritenuta inviolabile dalla controparte, con conseguente concretizzazione «di quella grande escalation che l’amministrazione Biden intendeva evitare».
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