di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Nel 2019, Pechino e Caracas hanno gettato le basi per l’esportazione verso la Cina di petrolio venezuelano scontato, in quanto sottoposto alle sanzioni statunitensi, in cambio di yuan-renminbi. Mesi prima, il governo bolivariano aveva inserito il rublo nel paniere delle valute accettabili all’interno del Paese e intavolato trattative con la Russia mirate a regolare il commercio bilaterale in rubli e in petro, la valuta digitale istituita dalle autorità venezuelane.
Nel gennaio 2021, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il suo omologo iraniano Javad Zarif hanno firmato un accordo che impegna Pechino a profondere investimenti per 400 miliardi di dollari nell’economia persiana nell’arco dei successivi venticinque anni in cambio di ingenti forniture di petrolio a prezzo agevolato. Buona parte delle consegne di greggio, così come dell’export non petrolifero, sono state pagate in yuan-renminbi, come affermato successivamente dal ministro dell’Economia iraniano Ehsan Khandouzi. L’intesa prevede di indirizzare il flusso di capitali cinesi principalmente verso i settori cruciali del trasporto, del credito, delle telecomunicazioni e della sanità, ma contempla anche un netto approfondimento della collaborazione militare, da estendere ai campi sensibili della ricerca e dell’intelligence.
Le relative implicazioni strategiche non sono sfuggite al «New York Times», prontissimo a evidenziare che «l’accordo potrebbe minare gli sforzi profusi dagli Stati Uniti per mantenere l’Iran in una condizione di isolamento internazionale e rafforzare l’influenza della Cina in Medio Oriente». Anche perché la Sino-Iranian Comprehensive Strategic Partnership rappresenta non un singolo episodio isolato, ma una componente essenziale della cosiddetta “diplomazia dei partenariati” sviluppata da Pechino con la catena di intese bilaterali raggiunte con diversi Paesi del Vicino Oriente e del Golfo Persico, tramite cui la Cina intende ricavarsi una profondità strategica all’interno di un’area geografica a forte influenza statunitense.
Lo si è visto nel dicembre 2022, quando Xi Jinping si è recato in visita di Stato presso una serie di Paesi del Medio Oriente nell’ambito del vertice Cina-Gulf Cooperation Council (Gcc). Mentre il tour diplomatico era in pieno svolgimento, il leader cinese dichiarava apertamente che: «nel corso dei prossimi tre-cinque anni, la Cina lavorerà di concerto con i Paesi del Gcc per la creazione di un nuovo paradigma di cooperazione energetica multidimensionale, nel cui ambito la Repubblica popolare cinese continuerà a importare grandi quantità di petrolio a lungo termine dai membri del Gcc e si impegnerà ad acquistare maggiori volumi di Gnl. Il rafforzamento della nostra cooperazione coinvolgerà tutta la filiera energetica, dai servizi di ingegneria allo stoccaggio, dal trasporto alla raffinazione. La piattaforma Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange diverrà il punto di riferimento per quanto riguarda la regolazione del commercio di petrolio e gas in yuan-renminbi».
Gli incontri tra il leader di Pechino e le controparti del Gcc sono passati relativamente sotto silenzio, a dispetto della portata potenzialmente rivoluzionaria del loro contenuto. Anzitutto perché ponevano palesemente le basi per la vanificazione dell’accordo siglato il 14 febbraio 1945 (ad appena quattro giorni di distanza dalla conclusione della Conferenza di Jalta), a bordo dell’incrociatore Uss Quincy in navigazione nel Grande Lago Amaro del Canale di Suez, tra Franklin D. Roosevelt e re Abdulaziz “Ibn” al-Saud che conferiva alle compagnie energetiche statunitensi gravitanti attorno all’orbita della Standard Oil – che già controllavano la totalità dei pozzi in Venezuela – i diritti esclusivi per lo sfruttamento delle risorse petrolifere saudite in cambio della protezione militare del regno e dell’appoggio politico alla famiglia al-Saud da parte degli Usa. Scrive William Engdahl: «Roosevelt aveva vissuto abbastanza a lungo da assicurare ai Rockefeller un vantaggio inestimabile – diritti esclusivi su tutto il petrolio saudita per i loro partner dell’Aramco. Tale mossa avrebbe fortemente condizionato la politica estera statunitense per i decenni a venire […]. La decisione di incorporare ufficialmente le ricchezze petrolifere saudite nello spettro degli interessi nazionali statunitensi appariva tanto più stupefacente se si considera che, negli anni Quaranta’40, il Paese era autosufficiente dal punto di vista energetico. Quando, nel 1948, fu scoperto il più grande giacimento petrolifero al mondo presso la località saudita di Ghawar, gli Stati Uniti ebbero modo di consolidare la propria supremazia petrolifera ed esercitarla per controllare l’economia mondiale. Il petrolio stava infatti diventando la risorsa energetica essenziale per la crescita economica, e le compagnie energetiche statunitensi di proprietà dei Rockefeller avrebbero rafforzato così la propria presa sul nuovo ordine postbellico».
Nel giugno del 1974, sulla scia dello shock petrolifero scatenato dalla Guerra dello Yom Kippur, Richard Nixon impose a re Faysal un ritocco all’intesa originaria, vincolando le garanzie di difesa statunitensi all’impegno saudita a commercializzare il proprio petrolio solo ed esclusivamente in dollari americani e a riciclare parte ragguardevole dei proventi in investimenti in armi e Treasury Bond.
Per gli Stati Uniti, si trattò delle vera e propria quadratura del cerchio; ancorando il mercato petrolifero mondiale al dollaro, l’intesa ricementò la dimensione globale della valuta statunitense messa a repentaglio dal ripudio degli Accordi di Bretton Woods – implicante lo sganciamento del dollaro dall’oro – disposto da Nixon il 15 agosto del 1971. Il risultato fu un incremento forsennato, sospinto dalla drastica rivalutazione del petrolio (400% circa) verificatasi nell’ambito della Guerra dello Yom Kippur, della domanda internazionale di dollari, con conseguente rafforzamento della valuta statunitense e crescita del potere d’acquisto dei salari interni rispetto alle importazioni. L’altro effetto, parimenti rilevante, consistette nella canalizzazione di capitali esteri verso il mercato obbligazionario statunitense, ponendo la Federal Reserve nelle condizioni di mantenere relativamente bassi i tassi di interesse.
Nel corso dei decenni, la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio mediorientale è andata gradualmente attenuandosi, fino a ridursi drasticamente con la messa a regime dei giacimenti scistosi. Simultaneamente, la Cina assurgeva a principale importatore di petrolio su scala mondiale, affermandosi come principale partner commerciale dell’Arabia Saudita nel 2021, con scambi bilaterali per un ammontare di oltre 81 miliardi di dollari. L’anno successivo, il regno è emerso come il principale fornitore di greggio della Cina, con 1,76 milioni di barili al giorno. Le esportazioni saudite negli Stati Uniti, di contro, si erano fermate ad appena 435.000 barili giornalieri. D’altro canto, l’ascesa di fonti energetiche alternative, come le rinnovabili e il gas naturale, ha attenuato la dipendenza globale dal petrolio, e l’affermazione di nuovi Paesi produttori di petrolio – come il Brasile, il Canada e gli stessi Stati Uniti – ha ridimensionato la posizione egemonica occupata tradizionalmente del Medio Oriente.
Lo scorso 9 giugno, per di più. l’intesa raggiunta tra Nixon e Faysal cinquant’anni prima è ufficialmente scaduta e la famiglia regnante dell’Arabia Saudita ha annunciato che il suo rinnovo non rientrava nei piani. Significativamente, sul sito del Nasdaq è un’analisi sul tema in cui si sottolinea che «la scadenza dell’accordo sul petrodollaro rappresenta un cambiamento significativo nelle dinamiche di potere globali. Evidenzia la crescente influenza delle economie emergenti e il mutevole panorama energetico. Sebbene le implicazioni di questo cambiamento non si siano ancora manifestate, gli investitori dovrebbero almeno essere consapevoli che, a livello generale, l’ordine finanziario globale sta entrando in una nuova era. Il predominio del dollaro statunitense non è più garantito».
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