di Maurizio Brignoli*
Dietro alle vicende siriane, e non ci riferiamo solo alla recente e repentina caduta di Assad bensì alle origini della guerra nel 2011, vi sono importanti elementi strutturali che meritano di essere presi in considerazione.
Gasdotti e oleodotti
La Siria non occupa una posizione strategica solo per l’Asse della resistenza, che ha infatti subito un duro colpo dato che la caduta del (legittimo) governo siriano aumenta le difficoltà di Teheran nel rifornire di armi Hizballah, ma ha una rilevanza per i diversi progetti, prioritario su tutti quello dell’imperialismo statunitense (con collaborazione dell’imperialismo regionale israeliano) di ridisegnare il Medioriente, che hanno contribuito prima allo scoppio del conflitto nel 2011 e poi all’abbattimento della Repubblica araba siriana tredici anni dopo.
A cavallo fra il 2009 e il 2010 sono stati scoperti nel Mediterraneo orientale giacimenti di gas e petrolio in grado di garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. La conseguente strategia delineata dall’imperialismo occidentale è stata quella di pensare a come sfruttare questi giacimenti in modo da eliminare la dipendenza energetica europea dai rifornimenti provenienti dalla Russia[1], mentre il capitale russo correva ai ripari stipulando una serie di accordi con i paesi rivieraschi (Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro) per costruire nuove infrastrutture con lo scopo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici puntando al duplice obiettivo di conquistare nuovi clienti e mantenere la posizione egemonica nel rifornire l’Europa. Gli altri paesi interessati alla realizzazione di nuovi corridoi energetici non restavano con le mani in mano, nello specifico per quanto riguarda la Siria nel 2009 il Qatar (potendo anche contare sulla messa fuorigioco dei rifornimenti iraniani all’Europa grazie alle sanzioni) aveva progettato un gasdotto di 5.000 chilometri lungo la direttrice Qatar-Arabia Saudita-Giordania-Siria-Turchia-Ue che avrebbe permesso a Doha di raggiungere più economicamente e rapidamente il mercato europeo al posto del trasporto via nave evitando al contempo le pericolose strozzature dello stretto di Hormuz (facilmente bloccabile dagli iraniani in caso di conflitto), all’Ue di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e alla Turchia di intascare le tasse di transito.
Il progetto veniva però vanificato dal governo siriano che accettava la proposta di Teheran per la realizzazione di un gasdotto di 1.500 chilometri lungo la direttrice Iraq-Siria-Libano-Europa che avrebbe favorito Iran e Russia (Gazprom era in parte coinvolta nel progetto insieme gli iraniani) e danneggiato, oltre al Qatar, l’Arabia Saudita (che progettava almeno dalla metà del XX secolo un oleodotto transarabico verso il remunerativo mercato europeo anche questo attraverso il territorio siriano), la Turchia che vedeva ridotta la sua aspirazione a trasformarsi in uno snodo per i rifornimenti energetici destinati all’Europa e Israele che non poteva tollerare un gasdotto che avrebbe rafforzato l’economia iraniana (e quindi i suoi alleati in Libano e a Gaza). Anche peggio per gli interessi statunitensi il fatto che il gas iraniano non sarebbe stato valutato in dollari – una potenziale occasione per il capitale a base Ue, che prima delle sanzioni importava il 20% del suo fabbisogno petrolifero dall’Iran, di dar vita a una sorta di petroeuro, occasione che l’imperialismo europeo non ha avuto la forza di sfruttare sottomettendosi alle direttive sanzionatorie statunitensi – e che si venisse a formare un polo energetico costituito da Russia-Iran-Iraq-Siria concorrenziale a quello degli alleati di Washington, Qatar in testa che ospita le due principali basi statunitensi in Medioriente e il quartier generale dello United States Central Command (Centcom) [2].
Israele avrebbe infine voluto il controllo del bacino del Mediterraneo non solo per raggiungere l’autosufficienza energetica, ma anche per esportare gas verso l’Ue, ma ciò avrebbe richiesto un gasdotto che attraversasse la Siria fino all’alleato turco rendendo così necessario eliminare il governo di Assad. Oltre alle necessità strategiche di difendere l’accesso nel Mediterraneo garantito dalla base militare navale siriana di Tartus, a determinare l’intervento di Mosca in aiuto dell’alleato siriano hanno influito gli interessi del capitale russo così riassunti dal quotidiano russo Kommersant nel 2013: «L’esito della guerra in Siria potrebbe influenzare significativamente il mercato europeo del gas naturale. Le parti coinvolte nel conflitto sono sostenute da due potenze rivali, che vogliono costruire nuovi gasdotti verso l’Ue, che attraverseranno il territorio siriano: Iran e Qatar. In questa luce, le conseguenze per Gazprom e per il bilancio delle entrate russe saranno determinate in gran parte dalle battaglie per Aleppo e Damasco»[3].
Insomma gli schieramenti per il conflitto erano già delineati e altrettanto evidenti quali sarebbero stati i principali finanziatori dell’Isis e chi avrebbe difeso la Siria. L’Isis nella sua avanzata in territorio siriano ha avuto mano libera dall’imperialismo occidentale fino a quando ha seguito la rotta delle riserve energetiche siriane, mentre è stato ostacolato tutte le volte che ha tentato di sconfinare nei territori già destinati dagli Usa ai curdi iracheni che riforniscono di petrolio Turchia e Israele, oltre alla fornitura garantita dall’Isis stesso che si è per un certo periodo garantito un autofinanziamento tramite la vendita del petrolio iracheno. Quando nel luglio 2016 l’esercito siriano è stato bombardato “per errore” dall’aeronautica statunitense mentre fronteggiava l’Isis nella zona di Homs, i jihadisti hanno potuto distruggere il tratto di oleodotto destinato a collegare Siria, Iran e Iraq, portando così a compimento un’operazione già perseguita dall’aviazione statunitense che, con la scusa di colpire l’Isis, in realtà distruggeva buona parte della rete petrolifera e di gasdotti siriana.
Un altro grande progetto caratterizza lo scontro interimperialistico: il corridoio energetico, i cui piani risalgono al biennio 2010-2011, che avrebbe collegato con due oleodotti e un gasdotto i giacimenti petroliferi di Akkas e Kirkuk in Iraq e il giacimento di gas iraniano di South Pars con il porto siriano di Baniyas (vicino alla base militare russa di Tartus), progetto appoggiato da Cina, ma anche da Iran, che aspirava a creare un corridoio terrestre verso il Mediterraneo per aumentare la sua presenza in Libano e nel Golan siriano, e Russia che avrebbe partecipato direttamente alla costruzione. Vale la pena ricordare come il gasdotto Kirkuk-Baniyas fosse già stato realizzato, ma venne bombardato nel 2003 dagli Usa quando attaccarono l’Iraq nella seconda guerra del Golfo. I progetti dell’imperialismo occidentale permangono gli stessi: isolare l’Iran e colpire i corridoi potenzialmente concorrenti. I progetti iraniano-siriani, appoggiati da Cina e Russia, con terminale nel porto di Baniyas erano concorrenziali al progetto turco, appoggiato dagli Usa, di fare del porto di Ceyhan un grande hub energetico.
Vi sono poi da considerare gli accordi venticinquennali che Pechino ha firmato con Iran e Iraq che prevedono importanti realizzazioni infrastrutturali a opera dei cinesi non limitate a un singolo gasdotto ma alla realizzazione di quelli che si potrebbero definire veri e propri poli energetici. La Cina ha investito molto nei porti siriani di Tartus e Latakia, di rilevanza strategica perché vicini ai grandi snodi navali della Bri come il Pireo in Grecia, Haifa in Israele e la Tripoli libanese.
Ora sono venuti meno gli ostacoli politici costituiti da Assad e dalla sua alleanza con Russia e Iran alla realizzazione del gasdotto Qatar-Turchia-Europa lungo la direttrice siriana. Restano però altri problemi: le rivalità fra Qatar da un lato e Arabia Saudita ed Eau dall’altro (ricordiamo che nel 2017 Egitto, Arabia Saudita, Eau, Bahrain, Yemen sospendevano i rapporti diplomatici col Qatar accusato di “sostegno al terrorismo”) non garantiscono la disponibilità di Riad, di fronte a un progetto di primario interesse per Doha, a far passare le condutture sul proprio territorio. Anche se resta pur sempre vero che gli interessi del capitale nel momento in cui non sono direttamente concorrenziali possono facilitare le soluzioni diplomatiche, pertanto non si può escludere a priori che anche l’Arabia Saudita e gli Eau tornino a considerare con favore un’opzione che permetterebbe di diversificare le loro esportazioni energetiche riducendo al contempo i rischi collegati a rotte marittime che, in caso di conflitto che coinvolga l’Iran, possono essere facilmente bloccate nel Golfo Persico. La Turchia resta sempre interessata alla sua funzione di snodo energetico (con relative tariffe di transito) tra Medioriente, Europa e Asia, che verrebbe ulteriormente valorizzata dalla realizzazione del gasdotto qatariota, essendo potenzialmente in grado di costituire il terminale per il gas proveniente da Iran, Asia centrale e Russia; dalla possibilità di diventare un hub per le principali scoperte di gas nel Mediterraneo orientale e per il gas importato dal Kurdistan iracheno. Non va poi dimenticato come per gli Usa il controllo della Siria e delle rotte energetiche che potrebbero qui transitare (per tramite degli ascari jihadisti e degli alleati israeliani ma anche la Turchia, al di là dell’operare puntualmente per il proprio tornaconto in un difficile equilibrismo fra occidente e Oriente, è pur sempre membro della Nato) offrono la possibilità di danneggiare la concorrenza russa nei rifornimenti energetici e di mantenere l’Ue in una condizione di dipendenza dai rifornimenti in via diretta o indiretta controllati da Washington; d’altro canto però il nuovo gasdotto siriano porterebbe via agli Usa almeno una parte degli onerosi contratti per le forniture di gnl (gli Usa forniscono ora all’Ue il 40% del suo fabbisogno di gas) cui gli europei si sono condannati nel momento in cui hanno supinamente accettato i diktat statunitensi relativi al boicottaggio di gas e petrolio russi[4].
La riproposizione del vecchio progetto di gasdotto qatariota rischia di entrare in contraddizione con i progetti di Tel Aviv, connessi sul piano politico col Patto di Abramo, di trasformare Israele, sfruttando i giacimenti da sottrarre ai palestinesi, in un hub per i rifornimenti europei. A questo punto non sarebbe da scartarsi una cointeressanza qatariota-iraniana – i due paesi condividono il più grande giacimento mondiale di gas, il South Pars/North Dome, e hanno da tempo buoni rapporti, al di là degli schieramenti contrapposti in Siria, ricordiamo che quando nel 2017 i paesi del Golfo interruppero i rapporti diplomatici con Doha fra le condizioni che si volevano imporre all’emirato vi era anche l’interruzione delle relazioni diplomatiche ed economiche con l’Iran e la chiusura della base militare turca –, considerato anche il fatto che l’influenza di Teheran è ancora forte su Baghdad e potrebbe ostacolare il transito del gasdotto in territorio iracheno, ricordiamo poi che Turchia e Iran collaborano con la Russia nel cosiddetto “formato di Astana” e che Ankara si oppone ai progetti infrastrutturali di Washington per il Medioriente (India-Middle East-Europe Economic Corridor, Imec) che la escludono vanificando il suo progetto di snodo strategico; infine i rapporti non sempre idilliaci fra Qatar e Arabia Saudita, con i sauditi che se dovessero rafforzare i rapporti con Tel Aviv potrebbero sviluppare progetti autonomi con terminale israeliano, potenzierebbero l’opzione irachena con necessaria partecipazione iraniana[5].
Resta sempre il problema di un territorio non pacificato – situazione che è anche diretta conseguenza dei progetti neocon di “caos organizzato” statunitensi che puntano a ridisegnare il Medioriente o almeno a renderlo inservibile per russi, cinesi e iraniani – in cui la stesura e il mantenimento di nuove condutture potrebbe non essere semplice da realizzare.
I grandi corridoi infrastrutturali
La caduta della Siria va inserita anche nel contesto del confronto interimperialistico fra i grandi progetti di corridoi infrastrutturali della Bri (Via della seta) e dell’Imec (Via del cotone) rispettivamente a matrice cinese e statunitense (o in prospettiva più ampia fra i Brics a guida sino-russa e, dall’altra parte, statunitensi e rispettivi alleati/vassalli). La Siria ricopre una posizione chiave per diversi corridoi terrestri che interessano il blocco Brics (Assad fra il 2004 e il 2011 aveva messo in cantiere la “Strategia dei cinque mari” che prevedeva la realizzazione di ferrovie, strade, reti energetiche in grado di collegare Mediterraneo, Golfo Persico, Mar Nero, Mar Rosso e Caspio alla Siria) e in particolare costituisce una via di transito fondamentale per permettere all’Iran e alla Russia di affacciarsi sul Mediterraneo, uno dei motivi per cui Washington e Tel Aviv hanno perseguito con accanimento l’abbattimento della Repubblica araba siriana.
Da tener d’occhio in modo particolare sono i molteplici fronti di guerra israeliani (Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Yemen, Iraq e Iran) che sono collegati, oltre che alla realizzazione del progetto colonialistico del Grande Israele, anche a ben precisi progetti economici come appunto l’Imec e il Canale Ben Gurion destinato nelle intenzioni a soppiantare il canale di Suez. L’Imec, nato al vertice del G20 a Nuova Delhi (settembre 2023) con un memorandum d’intesa firmato da India, Eau, Arabia Saudita, Francia, Germania, Italia e Ue[6], ha lo scopo di dar vita a un’alternativa alla Bri cinese e all’International North-South Transport Corridor (Instc) indo-iraniano-russo con un esplicito ruolo per Israele con Gaza che avrebbe la potenzialità di diventare uno snodo importante per i grandi corridoi di trasporto.
Il piano energetico israeliano, fondato sul furto delle risorse palestinesi, si collega con il progetto del Canale Ben Gurion che prevede di congiungere Gaza e Ashkelon al golfo di Aqaba nel Mar Rosso creando un nuovo corridoio, alternativo al Canale di Suez, per il commercio mondiale e l’energia. Il canale permetterebbe di creare un corridoio attraverso la Palestina occupata garantendo a Israele un passaggio marittimo strategico che consentirebbe di modificare i rapporti di potere regionali. L’eliminazione dei palestinesi dalla Striscia aprirebbe un percorso diretto verso il Mar Rosso riducendo i tempi di transito e i relativi costi e il risparmio di miliardi di dollari anche nella costruzione del canale stesso: «Chiunque controlli il canale avrà un’enorme influenza sulle rotte di approvvigionamento globali di petrolio, grano e trasporti marittimi. Con Gaza rasa al suolo, ciò consentirebbe ai progettisti del canale di tagliare letteralmente gli angoli e ridurre i costi deviando il canale direttamente al centro del territorio»[7].
Da qui la necessità di eliminare i palestinesi e qualsivoglia interferenza iraniana. Ma importanti sono anche i corridoi terrestri che hanno nel porto di Eilat (sotto attacco degli yemeniti) il loro terminale. Israele aspira a trasformarsi nel “rubinetto energetico” dell’Europa e ha in progetto di ricostruire l’oleodotto Mosul-Haifa oltre a un nuovo gasdotto dall’Iraq al porto di Haifa, attualmente bloccato dall’influenza iraniana nella regione, motivo per cui Israele appoggia da tempo la realizzazione di un Kurdistan indipendente destinato a trasformarsi in stato vassallo dei sionisti. Ricordiamo che il Kurdistan iracheno controlla una fetta importante del petrolio del paese e che le Forze democratiche siriane (Fds), composte da Unità di difesa del popolo (Ypg) curde e fuoriusciti dell’Esercito siriano libero (“moderati” anti-Assad per l’opinione pubblica occidentale e nella realtà jihadisti collaboratori di al-Qaida nelle operazioni militari condotte nel conflitto siriano), occupano in complicità con gli Stati Uniti i pozzi petroliferi siriani. Israele vuole trasformarsi in un hub per i rifornimenti verso l’Ue, progetto alternativo e in concorrenza col medesimo progetto turco (Ankara è esclusa anche dall’Imec) dato che il progetto legato al Canale Ben Gurion andrebbe a colpire la direttrice di trasporto energetico e commerciale Bassora-Europa incentrata sulla Turchia.
Israele punta a far passare sul suo territorio tutti gli oleodotti del Caspio, del Golfo Persico e del Sudan[8]. Altrettanto importante per i piani israeliani il controllo del Mar Rosso, il che spiega l’intensificarsi dei tentativi di ampliare il conflitto con Ansarallah nello Yemen con l’appoggio sempre più intenso di statunitensi e britannici, per i progetti infrastrutturali collegati al porto di Eilat (di fatto ridotto all’inattività dagli attacchi yemeniti). Il mar Rosso costituisce un altro luogo strategico del confronto interimperialistico in un punto delicato in cui gli Usa possono contare in modo esclusivo solo su Israele.
Nel caso in cui l’Imec risultasse irrealizzabile, e sicuramente in confronto al grado di sviluppo della Bri ora come ora non pare esservi possibilità di competizione, anche creare un caos capace di danneggiare (per mezzo di Israele e dei collaudati ascari jihadisti) i corridoi della Bri e dell’Instc (che come ricordato da Pepe Escobar potrebbe essere anche più efficace di molti dei corridoi della Bri costituendo una tratta fondamentale per gran parte dell’economia globale nel caso dovesse scoppiare un conflitto diretto fra Israele/Usa e Iran con rischio di chiusura dello Stretto di Hormuz che porterebbe al collasso l’economia occidentale)[9] sarebbe comunque un utile risultato per gli Usa.
Attenzione anche alla Turchia però che svolge un ruolo importante per la Bri e se si potesse eliminare Erodgan si farebbero saltare gli accordi sino-turchi e si potrebbero danneggiare quelle tratte come la Route de Développement Orientale, corridoio volto a collegare le petromonarchie del Golfo col Mediterraneo e il mercato europeo attraverso Iraq, Siria e Turchia lungo una direttrice infrastrutturale parallela all’Eufrate (che permetterebbe ad Ankara anche il controllo di preziose risorse idriche già oggetto di contenzioso con i paesi confinanti)[10], progetti come abbiamo detto volti a trasformare la Turchia in un grade snodo energetico e di merci ma che entrano in collisione con i concorrenti progetti israeliani. Se da un lato la realizzazione della Route de Développement Orientale in ottica occidentale sarebbe ben visto perché ridurrebbe il peso strategico dei corridoi commerciali iraniani in direzione di Iraq e Siria, dall’altro il fatto che i progetti turchi entrino in concorrenza con quelli israeliani potrebbe portare alla necessità di ridimensionare le aspirazioni turche (il “neottomanesimo” erdoganiano rischia sulla lunga distanza di entrare in conflitto con il concorrente progetto imperialistico regionale “grandeisraeliano”) e ricondurre il paese all’interno di una maggiore ortodossia filoatlantica che rispetti le gerarchie che vedono Israele destinato a svolgere un ruolo primario per i grandi progetti liberal-neocon di ridisegnare le mappe mediorientali e ripristinare un’indiscussa egemonia statunitense.
L’aver colpito la Siria è un ottimo risultato per il blocco imperialistico occidentale perché indebolisce non solo l’Asse della resistenza, ma ottiene anche il risultato di destabilizzare quei corridoi terrestri, che hanno nell’Iran uno snodo fondamentale, e che costituiscono una valida alternativa al controllo delle rotte marittime esercitato dagli Usa: «In quanto “impero intermedio” tra l’impero romano e quello cinese, i persiani hanno sempre avuto bisogno di porti sul Mediterraneo e di rotte verso l’Asia orientale per prosperare»[11]. Diventa quindi necessario bloccare i collegamenti energetici iraniani con la Cina e col Mediterraneo, il che spiega sia gli attacchi alla Siria e al Libano (che hanno grosse controversie in corso per il controllo delle riserve energetiche del Mediterraneo orientale con Israele) e i progetti di destabilizzazione dell’Iraq.
Il saccheggio statunitense-curdo-jihadista e il programma neoliberista di al-Jolani
Le risorse siriane sono state oggetto di rapina da parte delle forze collegate con l’imperialismo statunitense. L’occupazione illegale della parte orientale della Siria, con la scusa ufficiale di combattere l’Isis (per finta), ha permesso il controllo da parte degli Usa e dei suoi ascari curdi e jihadisti delle risorse energetiche siriane (il 90% del petrolio e oltre il 50% del gas) e delle infrastrutture di compagnie straniere (Gulfsands, Total, Shell), di fatto impossibilitate a operare a causa delle sanzioni che hanno colpito Damasco e affamato la popolazione siriana, che avevano siglato contratti con il governo siriano[12]. Le perdite subite dalla Siria sono state stimate in oltre 100 miliardi di dollari[13].
Con lo scopo di ostacolare la ripresa produttiva gli Usa hanno impedito a Damasco di tornare in possesso dei pozzi petroliferi nella parte orientale del paese sancendo ufficialmente il furto del petrolio siriano. Trump aveva schiettamente dichiarato: «Ci teniamo il petrolio. Abbiamo il petrolio. Il petrolio è sicuro. Abbiamo lasciato le truppe indietro solo per il petrolio»[14]. Nel 2020 Washington aveva assegnato per 25 anni i diritti di trivellazione ed esportazione del greggio nell’area di Qamishli e di Deir el-Zor alla neonata Delta Crescent Energy, una società di comodo della Cia[15]. Al contempo il senatore neocon Lindsay Graham, sosteneva la necessità di proseguire la collaborazione con i curdi al fine di favorire lo smantellamento dello stato siriano: «Continuando a mantenere il controllo dei giacimenti petroliferi in Siria, negheremo ad Assad e all’Iran un guadagno in denaro. Aumentando la produzione dei giacimenti petroliferi, aiuteremo i nostri alleati delle Fds. Possiamo anche utilizzare alcuni dei proventi delle future vendite di petrolio per pagare il nostro impegno militare in Siria. È imperativo continuare a collaborare con le forze curde»[16]. La Delta Crescent infatti collabora con le Fds che dirottano il petrolio siriano verso il Kurdistan iracheno con la collaborazione delle forze armate e dei mercenari statunitensi che scortano i convogli con la complicità della compagnia petrolifera curdo-irachena Kar Group legata al clan Barzani che poi rifornisce Turchia e Israele[17]. Non è mancata anche la collaborazione jihadista in tal senso: il greggio nelle zone occupate dai curdi iracheni è transitato senza difficoltà lungo l’oleodotto controllato dall’Isis ed è stato imbarcato nei porti turchi e dirottato verso Israele.
Un altro degli obiettivi economici perseguiti con l’abbattimento della Repubblica araba siriana è lo smantellamento e relativa privatizzazione dei beni di proprietà statale della Siria. La Siria (come anche Iraq e Libia per prendere in considerazione altri due stati distrutti dalle politiche dell’imperialismo occidentale) – nonostante Bashir Assad avesse introdotto prima della guerra quegli elementi di riforma strutturale, sostenuti dalla borghesia siriana, con relative liberalizzazioni e privatizzazioni dettate dal grande capitale transnazionale (che hanno almeno in parte contribuito a far perdere il consenso dei ceti popolari sui quali ha potuto far presa l’opzione islamista) – manteneva alcune caratteristiche del capitalismo monopolistico di stato (il cosiddetto “socialismo arabo”) peculiare del processo di indipendenza dei paesi arabi e basato su un processo di costruzione di un capitalismo nazionale in contrasto con l’imperialismo e avverso alle vecchie classi feudali. Obiettivo era quello di edificare uno stato moderno, capace di favorire uno sviluppo capitalistico in grado di competere con la concorrenza imperialistica sui mercati internazionali, nel tentativo di realizzare un’effettiva indipendenza nazionale dotandosi di una base industriale vista come condizione per la realizzazione di una sovranità economica. Fino alla metà degli anni 2000 l’economia siriana era rimasta sotto il controllo dello Stato, con due terzi della sua formazione di capitale derivante dal settore pubblico[18].
I principali dirigenti della nuova Siria qaidista di Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante, Hts) hanno prontamente annunciato che verrà adottato un modello economico liberista. Bassel Hamwi, capo della camera di commercio di Damasco, il giorno dopo aver incontrato una delegazione governativa jihadista guidata dal ministro dell’economia siriano ad interim, Bassel Abdul Aziz, ha annunciato che la nuova Siria adotterà un «modello di libero mercato basato sulla concorrenza dopo decenni di controllo statale corrotto»[19], e che l’economia siriana verrà integrata in quella mondiale. Bisogna tener presente, come ricordato bene da Kemal Okuyan, segretario generale del Partito comunista di Turchia, che: «L’ideologia jihadista è reazionaria, ma è una forza moderna in termini di capacità di adattamento al capitalismo. Il suo approccio pragmatico comprende bene gli affari e il profitto»[20].
La Repubblica araba siriana era stata in grado di garantire, prima dell’attacco portato dall’imperialismo occidentale per tramite del jihadismo sul piano militare e con le sanzioni sul piano economico, assistenza sanitaria gratuita (ancora nel 2015 l’Oms aveva definito il sistema sanitario siriano uno dei migliori del mondo arabo, addirittura arrivavano pazienti dalle petromonarchie del Golfo e non c’erano le liste d’attesa che caratterizzano la nostra sanità sempre più privatizzata), stesso discorso per quanto riguarda l’istruzione con tassi di alfabetizzazione superiori al 90% per uomini e donne e tassi di scolarità del 97% per l’istruzione elementare, la Siria era l’unico paese mediorientale capace di raggiungere l’autosufficienza alimentare – prima delle sanzioni che hanno affamato il popolo siriano (la Bm stimava che nel 2024 il 90% della popolazione vivesse al di sotto della soglia di povertà) e che i curdi si impadronissero del “granaio siriano” nell’est del paese – in grado di garantire un apporto calorico giornaliero paragonabile a quello di molti paesi occidentali e con prezzi calmierati grazie a un sistema di sussidi statali e un’economia nel complesso caratterizzata da tassi di crescita annui superiori al 4%[21]. Tutto ciò è venuto meno dopo tredici anni di guerra e soprattutto a causa dello strangolamento economico della Siria per tramite delle sanzioni e del saccheggio delle risorse del paese di cui sopra.
Com’è stato fatto notare da Kit Klarenberg i piani economici che il capo jihadista al-Jolani aveva già delineato per la futura Siria “liberata” nel luglio 2022 mostravano molti passaggi che parevano scritti da rappresentanti del Fondo monetario internazionale, quel Fmi di cui la Siria aveva rifiutato dal 1984 i prestiti ben consapevole delle conseguenze esiziali che ne sarebbero derivate in termini di autonomia e sovranità. Il tentativo disperato per ripristinare l’economia siriana è quello di creare condizioni favorevoli (leggasi privatizzazioni e liberalizzazione sfrenata) ai profittevoli investimenti di paesi come Eau o Arabia Saudita, per non parlare di turchi e israeliani. Le prospettive future per la Siria sembrano ricordare quanto accaduto alla Jugoslavia che attraverso bombardamenti e rivoluzioni colorate si trovò a patire nel post-Milosevic un governo filo-occidentale che seguiva le direttive di un gruppo di economisti scelti da Washington per creare un ambiente economico favorevole agli investimenti privati (nel frattempo i funzionari statunitensi direttamente implicati nella distruzione della Jugoslavia si arricchivano con la privatizzazione delle ex industrie statali) con tutta quella serie di riforme neoliberiste che dovevano creare le condizioni giuste per i suddetti investimenti e che puntualmente hanno portato bassi salari e aumento del costo della vita[22]. Il destino della Siria pare essere tracciato con un prevedibile enorme trasferimento di industrie che verranno privatizzate a prezzi stracciati, come sottolineato da Alexander McKay: «L’obiettivo è ridurre la Siria allo stesso status del Libano, con un’economia controllata dalle forze imperiali, un esercito usato principalmente per la repressione interna e un’economia non più in grado di produrre nulla, ma semplicemente di fungere da mercato per le materie prime prodotte altrove e da sito di estrazione delle risorse. Gli Stati Uniti e i loro alleati non vogliono uno sviluppo indipendente dell’economia di nessuna nazione»[23].
La Siria intera (o perlomeno quel Sunnistan su cui verrà lasciata parvenza di auotnomia a Hts nel processo di balcanizzazione ben avviato)[24] avrà modo di sperimentare quanto già messo in atto nell’enclave jihadista a Idlib: «Economia privatista di rapina di risorse naturali, commercio, manifattura, imposta da 30.000 terroristi con famiglia su 3 milioni di cittadini siriani controllati a vista. Ora il sistema Idlib verrà esteso a tutta la Siria e messo a disposizione degli interessi dei vincitori. La Turchia avrà modo di prendersi quanto dovrà alleviare la sua pesantissima crisi economico-sociale. Crisi che il califfo cerca di offuscare abbagliando i suoi cittadini con la più fetida delle ipocrisie: la finta solidarietà con Gaza. Gli israeliani, già distrutto a forza di bombe il potenziale produttivo siriano, si avvarranno del prodotto agricolo delle zone occupate (annesse) nel Sud e, per grazia dei curdi, del petrolio del nordest. Il Qatar e il Big Oil avranno finalmente il gasdotto attraverso la Siria e verso l’Europa che Assad gli aveva negato. Ai tagliagole il ruolo dei parassiti di terza o quarta istanza, per quanto cadrà dal tavolo del banchetto multinazionale»[25].
Maurizio Brìgnoli (Milano, 1966), ha collaborato con la Contraddizione, la Città futura, Il Calendariodel Popolo, l’AntiDiplomatico, Informazione filosofica, Recensioni filosofiche. Ha pubblicato Brevestoria dell’imperialismo, La Città del Sole, Napoli 2010; Jihad e imperialismo, l’AntiDiplomatico, Roma2023 ed è in corso di pubblicazione, sempre con l’AntiDiplomatico, un nuovo lavoro intitolato Terrorismo, capitale e guerra. Progetti liberal-neocon per un nuovo conflitto mondiale.
[1] Cfr. Roberto Galtieri, “Europei ‘state sereni’. Scontro tra imperialismi con teatro di guerra l’Ucraina”, la Contraddizione, n. 148, settembre 2014; Laura El-Katiri ? Mohammed El-Katiri, Regionalizing East Mediterranean Gas: Energy Security, Stability, and The U.S. Role, Strategic Studies Institute and U.S. Army War College Press, Carlisle, PA, dicembre 2014.
[2] Cfr. Nafeez Ahmed, “Syria Intervention Plan Fueled by Oil Interests, Not Chemical Weapon Concern”, The Guardian, 30 agosto 2013; Rob Taylor, “Pipeline Politics in Syria”, Armed Forces Journal, 21 marzo 2014; Robert F. Kennedy, “Why the Arabs Don’t Want Us in Syria”, Politico, 23 febbraio 2016; Darius Shahtahmasebi, “Dieci cose che i media mainstream non vi diranno sulla guerra in Siria”, Contropiano, 15 agosto 2016; Pepe Escobar, “Syria: Ultimate Pipelineistan War”, Strategic Culture Foundation, 7 dicembre 2015; Georgios Iliopoulos, “Siria. L’oleodotto che ha fatto cadere Assad”, ACrO-Pólis, 19 dicembre 2024.
[3] Cit. in Elisseos Vagenas, “L’equazione politico-militare in Siria”, Resistenze.org, n. 576, 14 febbraio 2016.
[4] Sui limiti e le possibilità dei potenziali gasdotti transitanti sul territorio siriano cfr. Giuseppe Gagliano, “Siria, dietro la guerra il sogno del gasdotto islamico”, InsideOver, 10 dicembre 2024.
[5] Cfr. Pierluigi Fagan, “Partite lunghe”, pierluigifagan.com, 11 dicembre 2024.
[6] Cfr. “Memorandum of Understanding on the Principles of an India – Middle East – Europe Economic Corridor”, Casa Bianca, 9 settembre 2023.
[7] Yvonne Ridley, “An Alternative to the Suez Canal Is Central to Israel’s Genocide of the Palestinians”, Middle East Monitor, 5 novembre 2023. Cfr. anche “Ben Gurion Canal Behind Canada-US Motive for Backing Israel’s Genocide”, Internationalist 360°, 13 novembre 2023; Maurizio Brignoli, “Le cause economiche dietro il massacro di Gaza”, l’AntiDiplomatico, 17 novembre 2023; Francesco Schettino, “Patto di Abramo, BRI e IMEC: le caratteristiche economiche della questione palestinese”, l’AntiDiplomatico, 4 dicembre 2023.
[8] Cfr. Lorenzo Maria Pacini, “The Geopolitical Evolution of Pentalasia”, Internationalist 360°, 16 dicembre 2024.
[9] Cfr. Pepe Escobar, “La tragedia della Siria e la nuova Onni-Guerra”, l’AntiDiplomatico”, 8 dicembre 2024.
[10] Cfr. Michelangelo Severgnini, “La Turchia e il peggior scenario possibile”, l’AntiDiplomatico, 11 dicembre 2024; Giuseppe Gagliano, “La Siria ora entra nella Via della Seta. Quella turca, però”, InsideOver, 1 gennaio 2025.
[11] Lorenzo Maria Pacini, op. cit.
[12] Cfr. Ibrahim Amidi, “The Syrian Oil: Time for New Approach?”, Gulfsands, 9 novembre 2022.
[13] Cfr. “Losses in Oil and Gas Sectors in Light of US Occupation Practices Are 107.1 Billion Dollars - Foreign Ministry”, Sana, 29 agosto 2022.
[14] Cit. in David Brown, “Trump Says U.S. Left Troops in Syria ‘Only for the Oil’ Appearing to Contradict Pentagon”, Politico, 13 novembre 2019.
[15] Cfr. Thierry Meyssan, “La CIA sfrutta illegalmente il petrolio nel Nordest della Siria”, Rete Voltaire, 4 agosto 2020.
[16] Amberin Zaman, “US Oil Company Signs Deal with Syrian Kurds”, Al-Monitor, 30 luglio 2020.
[17] Cfr. “Exclusive: Tracking the Flow of Stolen Syrian Oil into Iraq”, The Cradle, 28 settembre 2022.
[18] Cfr. Philippa Jane Winkler, “The Dismantling of Syria’s Brand of Socialism and the Agenda of Privatisation”, Global Research, 10 dicembre 2024.
[19] Cit. in Timour Hazari, “Exclusive: Syria’s New Rulers Back Shift to Free-Market Economy, Business Leader Says”, Reuters, 10 dicembre 2024.
[20] Cit. in Marinella Correggia, “Jihadismo, capitalismo e Erdogan. ‘Niente di buono per i siriani’”, il manifesto, 2 gennaio 2025.
[21] Cfr. Kit Klarenberg, “Privatizing Syria: US Plans to Sell Off a Nation’s Wealth After Assad”, MintPress, 17 dicembre 2024.
[22] Cfr. Kit Klarenberg, “Collapsing Empire: ‘How US Broke Kosovo’”, Al Mayadeen, 28 febbraio 2024.
[23] Cit. in Kit Klarenberg, “Privatizing Syria: US Plans to Sell Off a Nation’s Wealth After Assad”, MintPress, 17 dicembre 2024.
[24] Cfr. Alberto Negri, “La vecchia spartizione della Siria non ha retto, è già iniziata la nuova”, il manifesto, 10 dicembre 2024; Maurizio Brignoli, “Verso una balcanizzazione della Siria?”, La Città futura, 13 dicembre 2024; Mohamad Hasan Sweidan, “Syria’s Next Chapter: Fragile Unity or Permanent Fragmentation?”, The Cradle, 20 dicembre 2024; Mike Whitney, “The Syria Carve-Up Creates a de-Facto Israel-Turkey Border Ensuring a Broader ME War”, The Unz Review, 6 gennaio 2025.
[25] Fulvio Grimaldi, “La società dell’1% in Medioriente”, Mondocane, 7 gennaio 2025; Id., “Siria, La Posta in Gioco: Morte al sociale – Deregulation, privatizzazione, monetarismo”, l’AntiDiplomtico, 15 gennaio 2025.
*Saggista e autore sul tema del terrorismo su "La Contraddizione". Brignoli è autore con LAD edizioni di "Jihad e imperialismo"
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