di Alessandro Bianchi
Il 18 giugno scorso segna una data importante nella storia recente dell'Afghanistan: in una cerimonia in un'accademia militare nei pressi di Kabul, il presidente Hamid Karzai ed il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, hanno annunciato che le forze di sicurezza nazionale afghane (ANSF – nell'acronimo inglese) hanno assunto il comando delle operazioni contro i Talebani in ogni parte del paese.
Si tratta di un passaggio importante all'interno della strategia di disimpegno dell'amministrazione Obama, ma da inserire all'interno del quadro delle trattative per un accordo di pace con i Talebani, iniziate con l'apertura di un ufficio diplomatico a Doha. Attraverso il supporto della ricostruzione che fornisce l'
Economist, i giudizi espressi dall'esperto del Council of Foreign Relations sull'Asia meridionale
Amin Tarzi e la ricostruzione dell'inviato del New York Times
Rod Norland, si cercherà di fornire alcuni strumenti per comprendere il futuro assetto politico dell'Afghanistan.
Un percorso lungo e complesso. Dopo l'annuncio del 18 giugno di Karzai e Rasmussen, due avvenimenti hanno subito fatto comprendere come la via per un accordo di pacificazione nazionale resta lunga e piena di incognite: da un lato, un missile lanciato dai Talebani contro la base aerea di Bagram nell'est del paese ha ucciso quattro soldati americani e, d'altro lato, Karzai ha improvvissamente interrotto le negoziazioni con l'America per il rinnovo dello status-of-forces agreement (SOFA), vale a dire l'accordo necessario a garantire le immunità dalla giurisdizione locale per le truppe stranieri che resteranno dopo il 2014. Un elemento che l'amministrazione Obama reputa inderogabile per la continuazione delle operazioni. Nonostante gli enormi miglioramenti negli ultimi due anni e l'assunzione del controllo delle principali città e linee di comunicazioni, i 354 mila uomini che compongono le forze di sicurezza nazionale afghana restano dipendenti da quelle americane soprattutto in termini di supporto logistico, di intelligence e sostegno aereo. E la questione del rinnovo dei Sofa resta quindi di primaria importanza e lo strappo di Karzai è da ricondurre all'atterramento americano nelle trattative con i Talebani.
Il punto di vista di Karzai. Dopo aver accettato le trattative di Doha, grazie anche all'opera diplomatica di mediazione del neo segretario di Stato John Kerry, Karzai ha formato l'Afghan High Peace Council con l'obiettivo di divenire il principale interlocutore nelle trattative con i Talebani. Da allora però il presidente afghano è divenuto sempre più sospetto delle intenzioni americane e della volontà di Wasghinton di lasciare che la decisione finale sul processo di transizione politica sia realmente afghana. Il timore principale di Kabul è che l'amministrazione Obama miri ad un disimpegno con un accordo diretto con i talebani, nonostante fino ad oggi abbia sempre rifiutato di negoziare con un governo che giudica “illegittimo”. Al momento le trattative sono ferme per un disguido sulla bandiera dei talebani che deve sventolare a Doha.
La parte talebana. I talebani hanno accettato l'apertura dei negoziati a Doha, previa firma di una nota congiunta in cui si condannava l'utilizzo del terreno afghano per terrorismo internazionale e la liberazione di alcuni leader detenuti a Guantanamo, negoziati con il sergente americano Bowe Bergdahl. Il gruppo guidato dalla leadership della shura di Quetta, che include ancora il Mullah Omar, non ha comunque riconosciuto formalmente il governo afghano, così come la costituzione sorta dopo il 2001. Secondo quanto sottolinea Noland, i talebani potrebbero alla fine assumere la consapevolezza di un'impossibilità militare di controllare tutte le aree del sud-est dove hanno creato i loro avamposti e decidere per una posizione più morbida. Ma, sostiene al contrario Amin Tarzi, potrebbero invece sfruttare, da un lato, il fatto che la coalizione guidata dagli Usa stia accelerando il suo disimpegno per assumere una posizione di forza nelle trattative, e, d'altro lato, mostrarsi come
la parte “moderata” rispetto alle forze jihadiste sempre maggiori che stanno combattendo una guerra parallela alla loro.
Le variabili in gioco. Due variabili peseranno in modo decisivo sul possibile raggiungimento di un accordo. In primo luogo, il ruolo che il Pakistan intende giocare. Dall'elezione di Nawaz Sharif come primo ministro, Lahore sta ufficialmente assumendo una posizione molto cauta con un messaggio di pace chiaro mandato alla comunità internazionale. Del resto, senza l'accettazione ed il supporto esplicito del Pakistan le negoziazioni di Doha non sarebbero mai iniziate. Il problema è che, pur avendo la capacità di influenzare le scelte dei talebani, il governo pakistano non può influire su tutte le scelte del gruppo ribelle.
In secondo luogo, il ruolo che i talebani ritengono spetterà loro nel processo di transizione. E questo aspetto è strettamente collegato al tipo di forza internazionale che sarà presentare nel paese dopo il 2014. Per questo, come sottolinea l'Economist, nulla nel breve periodo potrebbe rafforzare maggiormente la posizione negoziale dell'America con i Talebani come un impegno chiaro da parte di Barack Obama di fornire una presenza militare e civile al paese nella fase di transizione e ricostruzione.
L'accordo, del resto, deve portare il disarmo dei talebani, l'accettazione della costituzione del 2004 come punto di partenza di riferimento – nella quale Hillary Clinton nella fase finale del suo mandato come Segretario di stato ha fatto aggiungere alcune clausole di salvaguardia per le donne – e come inserire il controllo di alcune aree dei talebani nel nuovo assetto (governatorati?). Si tratta di problemi immensi ed i quattro partner protagonisti —Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e Talebani — sono un gruppo molto difficile da tenere insieme allo stesso tavolo delle trattative. Ma due traguardi intermedi ci diranno a breve se un'intesa potrà essere raggiunta: l'accordo Sofa e, soprattutto, elezioni presidenziali, previste per il prossimo anno, che non siano per Kabul il solito spettacolo di brogli cui ci ha abituato Karzai.