di Alessandro Bianchi
Paolo di Vetta. Attivista dei Blocchi Precari Metropolitani di Roma, abitarenellacrisi.org
- Domani, sabato 19 ottobre, scenderete in piazza a Roma con lo slogan “Assediamo Austerity e Precarietà”. Ci può spiegare come è nata l'iniziativa?
La mobilitazione inizia direttamente nelle lotte dei territori e, proprio per questo, non abbiamo voluto che la piattaforma di "Abitare nella crisi", che ha effettivamente lanciato l'incontro del 19 ottobre, s'imponesse scavalcando le singole autonomie locali. La rete si è così rafforzata attraverso le differenze soggettive, quelle generazionali e di estrazione sociale presenti al suo interno. "Abitare nella crisi" ha incrociato percorsi simili – in particolare le battaglie per la riaffermazione di quella sovranità sottratta nelle città metropolitane, in Val di Susa, nelle aree intorno al Muos e nelle varie discariche sparse per il Paese – ed ha creato
una sinergia in cui emerge un protagonismo vero ed una voglia di rivalsa crescente rispetto alla precarietà attuale. Si tratta di un passaggio epocale perché determina la fine di quei tempi in cui avevamo bisogno della politica o dei sindacati per lanciare delle proposte.
- Quali sono gli obiettivi che vi prefiggete?
Gli obiettivi del percorso che inizia il 19 ottobre non sono facilmente declinabili. Si potrebbe partire dal "se ne vadano tutti", dalla forte delusione verso chi ci governa e dalla nostra convinzione che chi è al potere oggi non può avere la nostra fiducia perché è compromesso dai meccanismi insiti in questo modello di sviluppo. Ma la manifestazione lega diverse realtà nate per far fronte a problemi concreti e reali – dalla casa al Tav dal reddito ai servizi minimi essenziali – e conosciamo il senso del limite: nell'evocazione mettiamo l'idea di "sollevazione" ed "assedio" all'austerità, ma sappiamo che stiamo compiendo un percorso su una base organizzata ed indipendente. E' chiaro che si possono creare delle eccedenze: se la lettura della crisi è corretta, questa manifestazione può produrre quello scatto che numericamente può trasformarla in qualcosa di nuovo. E' una scommessa per noi. Ragioniamo per esempio sulla lotta per il diritto all'abitare. Si potrebbe applicare una moratoria sugli sfratti, un piano nazionale di edilizia pubblica al fine di utilizzare ciò che è costruito e non consumi ancora suolo. Ma per noi lotta per l'abitare significa anche ius soli generalizzato, vale a dire diritto per l'abitante, migrante e non, a decidere come il territorio debba essere utilizzato.
- Sappiamo che l'assedio si svolgerà come “acampada” davanti ad i ministeri. Perché questa strategia?
Si tratta di qualcosa che è nel Dna del nostro percorso di lotta. Non ci sono meccanismi di sciopero praticabili oggi efficaci per bloccare l'attività produttiva se non agendo direttamente con blocchi ed assedi ai palazzi del potere. Questo non è un rifiuto della trattativa: l'accampamento è legato al fatto che ci sia qualcuno che poi ti dia delle risposte alle tue richieste. Sappiamo che non siamo realtà comparabili a piazza Taksim o agli Indignados, ma stiamo lavorando su importanti sinergie e per rafforzarci abbiamo bisogno di risultati: se l'accampata dovesse riuscire a strappare un risultato concreto, la manifestazione del 19 ottobre potrebbe farci fare un salto di qualità nelle nostre lotte nei territori. Fino ad oggi la conflittualità ha portato solo alla cogestione del potere, noi non lo riteniamo possibile e pensiamo che si debba assumere una condizione di forza tale da poter determinare un cambiamento del modello di sviluppo e delle condizioni di vita delle persone. Ci sentiamo più rivoluzionari da questo punto di vista, non pensiamo che questo modello di sviluppo possa dare le risposte che chiediamo e la riduzione del danno non è uno strumento per uscire dalla crisi sociale.
- Non solo a differenza di Grecia, Portogallo e Spagna, ma anche rispetto ad Irlanda, Regno Unito (nel 2011) ed Islanda, che ha addirittura iniziato a processare i responsabili della crisi, l'Italia ha accettato senza alcuna protesta popolare di massa l'austerità e la perdita progressiva dei diritti sociali. Da che deriva, secondo Lei, quest'atteggiamento del popolo italiano?
Sono due i sentimenti prevalenti in Italia che spiegano quest'atteggiamento. Prima di tutto, la paura, a cui è collegata la speranza. La paura di perdere il tuo lavoro, di non riuscire a finire di pagare il mutuo per la casa o la macchina porta molti a preferire l'idea che si possa uscire dalla crisi senza doversi sollevare, ma solo con la pazienza e la difesa della tua nicchia. Secondo, la sfiducia: oggi il 50% delle persone non vota più ed ha deciso che non vale la pena organizzarsi e lottare ma chiudersi in se stesso e difendere solo il proprio spazio che sia l'inceneritore, la discarica o la cementificazione di un parco vicino casa.
Anche nel lavoro
si spera che sia licenziato il collega perché non c'è più l'idea che ci si possa salvare tutti e due.
Il nostro sforzo è di far passare l'idea che si può vincere insieme. E sulla casa a Roma abbiamo dimostrato che è possibile. Del resto, la stessa politica si sta accorgendo che il punto di rottura del tessuto sociale non è poi così lontano: per la manifestazione di sabato i segnali di massima distensione provengono dal ministero degli Interni, che sta chiedendo a quello dell'Economia e dello Sviluppo produttivo di dare risposte concrete a chi protesta, a dimostrazione di come le autorità hanno una percezione del livello del problema che a noi ancora sfugge.
- In Europa stiamo assistendo alla progressiva dissoluzione dei partiti della sinistra tradizionale ed il dissenso popolare non riesce a canalizzarsi più attraverso i punti di riferimento istituzionali storici. Qual è il suo giudizio sulla situazione italiana e saranno i Movimenti a coprire quel vuoto?
Il problema è stato che,
anche a sinistra, si è pensato per anni che fosse possibile costruire governi della crisi. Questo ha determinato la trasformazione del vecchio Partito Comunista in quello che ne rimane oggi, mentre i sindacati confederali diventavano complici e co-gestori di una politica economica fallimentare. Abbiamo ridotto le grandi realtà delle sinistre in tanti feudi con tanti luogotenenti senza un esercito. Ma la dissoluzione di queste esperienze ed il fatto che vengano cancellate da qualcosa di nuovo è un bene per il paese.
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