In un articolo su The American Conservative, Philip Giraldi ricorda il momento, nel 2008, in cui ha visto sulle pagine del Washington Post la foto di Ali Hussein, un bambino iracheno di due anni, estratto, morto, dalle macerie di una casa che era stata distrutta dai missili americani. E di come la stessa sensazione si sia riproposta alla vista della foto del bambino siriano, Aylan Kurdi che giaceva, morto, su una spiaggia turca.
Il bambino è una delle centinaia di migliaia di profughi che cercano di raggiungere l'Europa. Il mondo dei media sta seguendo la crisi puntando principalmente sull'incapacità dei governi locali, impreparati ad affrontare il numero dei migranti, chiedendo perché qualcuno, da qualche parte, non "fa qualcosa". Questo significa che in qualche modo, come risultato, la tragedia umana è stata ridotta ad una statistica e, inevitabilmente, ad una partita politica.
Gli Stati Uniti hanno preso solo un piccolo numero di rifugiati e la Casa Bianca è stata insolitamente tranquilla circa il problema, forse rendendosi conto che accogliere un numero consistente di stranieri sfollati in un momento in cui vi è un dibattito sempre più acceso sulla politica di immigrazione potrebbe non essere una buona mossa, politicamente parlando. Ma dovrebbe forse prestare una certa attenzione a ciò che ha causato il problema in primo luogo, un po' di introspezione che è in gran parte assente sia nei media mainstream che nelle esternazioni dei politici.
Washington ha la maggior parte della colpa per ciò che sta accadendo in questo momento. Dato che le discussioni di questi giorni si basano su dati numerici, potrebbe essere interessante dare un'occhiata ai "risultati" della guerra globale dell'America contro il terrorismo. Con una stima non irragionevole, ben quattro milioni di musulmani sono morti o sono stati uccisi a causa dei conflitti che Washington ha avviato o ai quali ha preso parte a partire dal 2001.
Vi sono, inoltre, milioni di sfollati che hanno perso le loro case e mezzi di sussistenza, molti dei quali sono nell'onda umana che attualmente inghiotte l'Europa. Al momento ci sono, secondo le stime, 2.590.000 di rifugiati che hanno abbandonato le loro case dall'Afghanistan, 370.000 dall'Iraq , 3.880.000 milioni dalla Siria, e 1.100.000 dalla Somalia. L'Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite si aspetta almeno 130.000 rifugiati dallo Yemen. Tra i 600.000 e il milione di libici vive precariamente nella vicina Tunisia.
Il numero di sfollati all'interno di ogni paese è circa il doppio del numero di coloro che sono effettivamente fuggiti e stanno cercando di reinsediarsi fuori delle loro patrie. Molti di questi vicono in campi temporanei gestiti dalle Nazioni Unite, mentre altri stanno pagando i criminali affinchè li trasportino in Europa.
Significativamente, i paesi che hanno generato la maggior parte dei rifugiati sono tutti luoghi che gli Stati Uniti hanno invaso, nei quali hanno rovesciato governi, sostenuto rivolte o sono intervenuti in una guerra civile.
Ovunque le persone sono in fuga dalla violenza, che, tra le altre cose, ha praticamente cancellato l'antica presenza cristiana in Medio Oriente. Anche se il problema dei rifugiati non può essere completamente attribuito ad una sola parte, molti di quei milioni sarebbe vivi e i rifugiati sarebbero nelle loro cas, se non fosse stato per le politiche interventiste catastrofiche perseguite da entrambe le amministrazioni, democratica e repubblicana, degli Stati Uniti.
È forse giunto il momento che Washington si assuma le responsabilità delle sue azioni. I milioni di persone che vivono all'aperto o nelle tende, se sono fortunate, hanno bisogno di aiuto e la Casa Bianca non può proseguire con il suo silenzio, un atteggiamento che suggerisce che i rifugiati sono, in qualche modo, un problema di qualcun altro. Essi sono, infatti, un problema americano. Un briciolo di onestà da parte del presidente Barack Obama sarebbe apprezzato, forse un'ammissione che le cose non sono andate esattamente come previsto dalla sua amministrazione e quella del suo predecessore. E c'è bisogno di soldi. Washington getta miliardi di dollari per combattere guerre che non dovrebbe combattere e puntellare alleati inetti in tutto il mondo. Sarebbe un cambiamento piacevole vedere i soldi delle tasse spesi per fare del bene, lavorare con gli Stati più colpiti in Medio Oriente e in Europa per il reinsediamento dei senzatetto e fare uno sforzo onesto per arrivare a soluzioni negoziate per porre fine ai combattimenti in Siria e Yemen,conflitti che possono avere solo risultati indicibilmente peggiori se continueranno sulle loro traiettorie attuali.
Ironia della sorte, i falchi americani stanno sfruttando la foto del ragazzo siriano morto per accusare gli europei per la crisi umanitaria, mentre chiedono uno sforzo a tutto campo per deporre Bashar al-Assad. Il Washington Post di venerdì ospitava un editoriale di apertura intitolato "Abdicazione dell' Europa" e un intervento di Michael Gerson che esortava ad un cambio di regime in Siria, accusando esclusivamente Damasco della crisi. L'editoriale si scagliava contro i "razzisti" europei per quanto riguarda la difficile situazione dei rifugiati. E non è chiaro come Gerson, un evangelico neoconservatore, autore dei discorsi di George W. Bush, possa eventualmente credere come consentire alla Siria di capitolare contro l'ISIS possa realmente produrre dei benefici.
Gli americani negano quasi completamente quanto realmente orribile sia l'impatto della loro nazione sul resto del mondo.
Shakespeare ha osservato che "il male che gli uomini fanno vive dopo di loro", ma non aveva esperienza degli Stati Uniti. Gli Usa scelgono di dissimulare per quanto riguarda le scelte sbagliate che fanno, adducendo bugie per giustificare e mitigare i loro crimini. E ancora più tardi il male che fanno scompare nel dimenticatoio. Letteralmente.