Nel suo ultimo post sul sito che porta il suo nome,
Fulvio Scaglione, Vicedirettore di Famiglia Cristiana, racconta del suo incontro con i fratelli Daoud, cristiani di rito ortodosso.
Quei cristiani del Medio Oriente di cui parliamo poco: cristiani che impugnano le armi contro l’Isis, cristiani che sparano e uccidono e muoiono. In questo caso, combattendo contro l’Isis. Cristiani “brutti, sporchi e cattivi”, per dir così. Certo non cristiani da convegno.
“Veri martiri cristiani”, come li definisce Ibrahim, parlando di due fratelli morti.
“E’ così”, prosegue, “perché loro hanno preso le armi soprattutto per difendere Bab Touma, il nostro quartiere, il posto dove vivono i cristiani. Tutti noi sapevamo, o avevamo visto coi nostri occhi, che cosa succedeva nei villaggi cristiani fuori Damasco: appena l’esercito si ritirava, subito saccheggi, violenze, esecuzioni, stragi. Abbiamo giurato che a Bab Touma non l’avremmo permesso. E questo per noi viene molto prima del Presidente o del Governo”.
I cristiani e l’esercito
Ora Ibrahim parla da capo del clan, ma prima il “grado” era di Amir. Era lui a tenere i contatti con gli ufficiali dell’esercito incaricati di fornire armi e mezzi a questi volontari, inquadrati nelle cosiddette Brigate di Difesa Nazionale a gruppi di ventiquattro uomini. “E’ successo il 7 luglio del 2014”, racconta, “ quand’è scattato un falso allarme per una presunta avanzata dell’Isis attraverso i quartieri di Ghouta e Jaramana. In quest’ultimo vive una nostra sorella, quindi eravamo molto preoccupati. Siamo corsi tutti là, anche se poi di pericolo non se ne vedeva. L’allarme vero è scattato a notte fonda verso le tre: a quel punto i jihadisti stavano davvero arrivando, anche se da una direzione un po’ diversa: sempre da Ghouta ma puntando su Dakhaniya, quindi dritto su Bab Touma e la zona cristiana”.
Ibrahim Daoud afferra il mio taccuino e traccia una mappa sommaria, per farmi capire. Da dove siamo ora e dove si combattè quella notte, tre, forse quattro chilometri. “Amir”, dice, “stava partendo da solo con i suoi uomini ma Bashar, che dormiva proprio su questo divano, se n’è accorto ed è andato con lui. Loro erano molto uniti, quasi due gemelli anche se Amir aveva 37 anni e Bashar 34: lavoravano insieme come idraulici, giocavano insieme a pallone, frequentavano gli stessi amici. E’ stata l’ultima volta che li abbiamo visti vivi: alle 6 del mattino erano già morti”.
La battaglia per il controllo di Dakhaniya è stata la più sanguinosa tra quelle combattute intorno a Damasco. Quando Ibrahim e Joseph arrivano con i rinforzi, verso le 8 del mattino, piombano in un girone infernale: “Quelli dell’Isis erano molto organizzati, avevano lavorato su tre fronti. Il primo era quello della disinformazione: coi falsi allarmi ci avevano disorientati e fatti muovere a casaccio. Poi le trappole locali: non ci aspettavamo che tanti sunniti di quel quartiere fossero dalla loro parte. Uscivano sui balconi dei bambini che facevano cadere su di noi una pioggia di bombe a mano. E’ ovvio, come si può sparare a un bambino? Io sono stato ferito così, mi è venuto incontro un ragazzino, non ho sparato, lui sì e mi ha preso a una gamba. Ma certi scrupoli ce li facevamo soprattutto noi cristiani. Ho visto altri combattenti spazzar via un bambino con un colpo di bazooka senza batter ciglio. Il terzo fronte era quello militare: l’Isis ha attaccato con 2 mila uomini ben armati e preparati. E’ stato un massacro”.
Ibrahim e Joseph hanno giurato a se stessi di ritrovare Amir e Bashar, a qualunque costo. Ma dopo una settimana di scontri e 350 morti, hanno dovuto cedere. Troppo forte la milizia dell’Isis, nel frattempo penetrata nel cuore del quartiere. Così lasciano il campo all’artiglieria dell’esercito, che per venti giorni batte senza sosta Dakhaniya. Ho recuperato foto e video, sembrano quelli della battaglia di Stalingrado.
Nel frattempo i Daoud si sono fatti un’idea precisa della sorte dei loro due famigliari. Sono stati i web manager dell’Isis ad “aiutarli”, postando su Facebook un video in cui si vedono i cadaveri, coperti di sangue e armi ancora in pugno, di Amir e Bashar, corredati di insulti. Il messaggio è chiaro: sappiamo chi siete e dove siete, verremo a prendervi. Dalle ricostruzioni fatte in base alle diverse sequenze, sembra che il primo a essere stato colpito sia stato Amir e che Bashar sia stato a sua volta ucciso nel tentativo di trascinare il fratello al riparo.
“Quando siamo riusciti a entrare nel quartiere”, dice ora Joseph, “era passato ormai un mese dalla morte dei nostri fratelli. Abbiamo frugato tra le rovine, sotto le macerie, anche dentro gli stagni, ce ne sono molti a Dakhaniya. Il tempo, il caldo, le bombe… potete immaginare che cosa fosse ormai dei loro corpi. Così, per riconoscerli, siamo ricorsi a un vecchio gioco di famiglia. Tutti noi, fratelli e sorelle, abbiamo una caratteristica: i pollici molto diversi tra loro (me li mostrano ridendo, in effetti è proprio curioso: un pollice affusolato, l’altro tronco, n.d.r). Abbiamo rivoltato un cadavere dopo l’altro esaminando i pollici finché li abbiamo riconosciuti”.
E’ venuto il momento di salutarsi, tutti i Daoud mi dicono che la loro casa è la mia casa, se torno a Damasco… Tra un abbraccio e una stretta di mano si avvicina Maryam, la sorella più taciturna e discreta, quella che mi osservava dall’altro lato della stanza. Mi mostra una foto scatta col telefonino: il cielo sopra la cattedrale ortodossa di Damasco, il giorno del funerale, e una croce di nuvole bianche ben distinta nell’azzurro. “E’ apparsa la croce”, sussurra, “ sono in Paradiso”.