di Michel Fonte
La teoria malthusiana sembra da un lato essere confermata, dall’altro smentita.
Procediamo con ordine, Malthus asseriva che qualsiasi aumento salariale fosse inutile perché aveva come accessoria conseguenza un aumento della procreazione e, pertanto, col tempo, la massa dei lavoratori si sarebbe nuovamente ingrossata, determinando una successiva caduta salariale.
Ora, la questione che Malthus sottostimava ma che Marx aveva intuito, è che l’aumento del livello tecnologico nel sistema di produzione è stato il più importante fattore di caduta della domanda di lavoro e di conseguente accrescimento dell’esercito dei lavoratori di riserva (offerta), disposti pur di occuparsi a ricevere un salario decurtato, cioè, inferiore a quello corrente.
Il secondo fattore, non ipotizzabile da parte di Malthus, è l’effetto delle migrazioni dai paesi sottosviluppati o in via di sviluppo verso i paesi industrializzati, anche in questo caso con effetti analoghi al fattore precedente in termini di incrocio domanda-offerta sul mercato del lavoro e di conseguente diminuzione salariale.
Il terzo elemento, inconcepibile ai tempi di Malthus, è lo sviluppo che, sempre legato all’evoluzione tecnologica e a una fase matura d’imperialismo, ha permesso la libertà di stabilimento, vale a dire che non sono solo i lavoratori a spostarsi dove c’è domanda di lavoro, ma, al contempo, sono le stesse imprese a trasferirsi dove c’è un’abbondante offerta di lavoro la certezza di pagare bassi salari, con un’unica conseguenza, redditi e occupazione calano, in misura relativa, nei paesi post-industriali di più antica evoluzione e crescono in gran parte dei paesi arretrati; a tutto ciò si aggiunge un’altra condizione favorevole rappresentata dalle basse imposizioni fiscali sul reddito d’impresa, proprio con il fine di attirare capitali stranieri.
Sembra, invece, essere smentita la tesi principale sostenuta da Malthus, cioè che l’aumento dei salari nel tempo avrebbe portato a un incremento del tasso di natalità.
Al contrario, gran parte dei paesi in uno stadio economico quaternario (green economy, information technology, biotecnologie, ecc.) ha sperimentato e sperimenta sempre più un problema di bassa natalità o addirittura di saldo negativo, situazione per la quale, fatta salvo l’elemento tecnologico come espulsore di forza lavoro, se non ci fossero state migrazioni di massa e libertà di stabilimento, non si sarebbe assistito a un crollo delle retribuzioni in termini reali e distributivi tra salari e profitti (d’impresa e speculativo finanziari), anzi, il monte salari avrebbe tenuto o addirittura sarebbe ulteriormente cresciuto.
La conseguenza che ne deriva è paradossale, in quanto si ha un ritorno all’importanza della popolazione e della crescita demografica che per lungo tempo è stata demonizzata come causa di ogni male. Molti dei paesi che oggi guidano la crescita economica – Brasile, Cina, India (BRIC) – si caratterizzano per una robusta consistenza demografica che sembra pagare sia in termini di forza-lavoro a buon mercato, sia in termini di propensione al consumo, soprattutto, se si tiene in conto che il bacino di utenti reali e potenziali di questi stati, ha la necessità di soddisfare un’arretrata fame di consumi già largamente appagata nei paesi occidentali nel corso degli anni sessanta e settanta (edilizia residenziale, automobili, elettrodomestici in genere, abbigliamento di alta moda, ecc.), per non parlare di un ventaglio di nuovi bisogni, in parte indotti, tipici dell’età contemporanea (telefonia, computer, internet, servizi alla persona, wellness, turismo e altro).
Sostanzialmente, si può affermare che stiamo assistendo a un travaso d’investimenti e consumi da una parte all’altra del mondo, dove si cresce con ritmi vicini alla doppia cifra, mentre nei paesi di antica industrializzazione si hanno incrementi del Pil annuo, quando si verificano, che oscillano al massimo tra l’uno e il tre percento. Molte economie postindustriali sono diventate delle economie a debito, nel senso che soddisfanno i loro consumi in forza delle importazioni, gli Stati Uniti ne sono un tipico esempio con la loro disastrosa bilancia commerciale, tuttavia, ciò non deve indurre in errore, perché a beneficiare di questa situazione non sono solo i produttori locali delle realtà ex terzomondiste, ma piuttosto, e soprattutto, le grandi imprese multinazionali, che de-localizzano in tali realtà costituendo un reticolato che travalica e annulla i confini nazionali. Dovremmo dunque rassegnarci a una situazione del genere anche per i prossimi anni?
La risposta è certamente no, però nemmeno si può pensare che le cose cambino da sé, il capitale non ha nessuna intenzione di mutare tale assetto, quantomeno il capitale che conta, quello transazionale, volatile e sfruttatore.
Si potrebbe arguire che prima o poi anche queste economie in turbinosa dilatazione dovranno fare i conti con alcune storture tipiche del loro sviluppo, quali la dicotomia urbanesimo-campagna, il rapporto salari-profitti, i problemi connessi alle tutele lavorative e alla protezione dell’ambiente, ma potrebbero passare ancora uno o due decenni prima che tali problemi esplodano in maniera drammatica e contundente richiedendo un riequilibrio sfavorevole ai capitalisti. In tale lasso, le economie nazionali dei paesi pionieri della rivoluzione industriale finirebbero per depauperarsi in maniera irresolubile in termini di sapere tecnico, produzione, consumi e reddito.
Allora cosa fare? Rispolverare la lotta di classe attraverso l’appello all’unione di tutti i proletari sarebbe suggestivo ma privo di realismo, visto che da un lato sperimentiamo un’intrinseca debolezza dell’attività sindacale, sia a livello delle singole nazioni dove più radicata è la storia di lotte operaie, sia a livello internazionale in cui la disunione dei lavoratori appare ancora più marcata di quella già esistente nei singoli stati, a causa dell’assenza di una piattaforma ideologica (il venir meno dell’analisi marxiana nelle sue diverse interpretazioni massimaliste, minimaliste, riformiste, progressiste, socialiste, socialdemocratiche).
Mentre i capitalisti si sono uniti, i lavoratori si sono frazionati per territorio, aree, stili e modalità di produzione, ma sono uniti in un comune assoggettamento che va dal sistema fordista passando per il post-fordista fino al toyotismo, sistemi che hanno essenzialmente esasperato le regole del produrre. Ai lavoratori è richiesto un inquadramento, una fedeltà, un rigore, una disciplina militare che ne fa dei soldati d’azienda, secondo il modello degli zaibatsu giapponesi, e una rinuncia ai diritti fondamentali (malattia, riposi, pause) che li riduce, in base ad una sorta di cinesizzazione, a schiavi delle nuove piantagioni industriali, con moltiplicazione di turni e di ore lavorate e salari da sopravvivenza se misurati cum grano salis in relazione al costo della vita occidentale.
Utilizzando il buon senso, la teoretica marxiana è più attuale oggi di quanto lo fosse in passato quando godeva del credito dei partiti comunisti europei, perché, di fatto, nella sua pars destruens, scatta una perfetta fotografia di quello che sta accadendo ai nostri giorni, ci sono, tuttavia, delle tare che bloccano l’azione dei partiti post-comunisti, ma se vogliamo anche di quelli socialisti e riformisti. Innanzitutto, il retaggio negativo del comunismo reale che si è manifestato fallimentare perché la filosofia marxiana al di là dei proclami su ciò che era necessario attuare (rivoluzione, dittatura del proletariato, scomparsa delle classi sociali), non offriva nel dettaglio gli elementi tecnici e pratici per la costruzione di uno stato socialista, secondo, si è registrata una distorsione dello stesso marxismo, che lungi dal convertirsi in una dittatura del proletariato si è concretizzato nella dittatura di singoli uomini con il loro entourage o nel dispotismo di ingorde burocrazie, infine, la radice filosofica del marxismo che nei fatti si fonda su una grande illusione, vale a dire, l’idea romantica di tramutare un’uguaglianza di diritto degli uomini in un’uguaglianza sostanziale, tradotta nel principio di religione atea: “Ognuno dà secondo le sue possibilità, ognuno riceve secondo i suoi bisogni.”
Ad aggravare la situazione è stato il contesto politico mondiale, il globalismo del capitale e la teoria dominante del liberismo selvaggio non solo si sono impadroniti di tutti gli organismi internazionali di rilevo ma anche degli strumenti di propaganda culturale, lasciando i partiti di sinistra in uno stato di anossia.
Pensare di poter costruire un’ideologia di sinistra mondialista è impossibile nella misura in cui non si riesce a veicolare un messaggio chiaro a un proletariato non più raggruppato in grandi industrie, ma, bensì, concentrato in una rete di aziende internazionalizzate in cui la frantumazione rende difficoltosa l’attività di propaganda per cause sia soggettive che oggettive (l’impossibilità di svolgere attività sindacale in numerosi stati autoritari, quali Cina, Singapore, Corea del Sud, ecc., in cui è impossibile qualsiasi manifestazione democratica di proselitismo e indottrinamento). Sempre più spesso dinanzi a taluni temi sensibili (emigrazione, sicurezza, fasce deboli) si rileva la convergenza tra partiti territoriali, partiti di destra populista e nuovi movimenti antisistema con il cuore a sinistra e la pancia a destra, i quali aspirano a rappresentare gli interessi della piccola e media borghesia dei mestieri, delle professioni, dell’artigianato e del commercio e di un vasto universo di precari.
Se l’imperialismo e il nazionalismo sono stati il cavallo di troia del capitalismo ottocentesco e della prima metà del Novecento, oggi, la nazione, come concetto di comunità chiusa e gestione autoctona del territorio, è il principale baluardo delle forze antiglobaliste, perché crea un argine, un reticolato all’idea di un capitale senza barriere che desidera poche o nessuna regola, preferendo negoziarle o eluderle secondo il contratto rude, cioè l’accordo di tipo antagonistico animato dal proposito di raggirare la controparte.
Dal canto loro, i sindacati si sono trasformati in combriccole di grigi burocrati – fatte debite e irrilevanti eccezioni – prive di slanci ideali, idee, coraggio e combattività, che si limitano ad amministrare l’ordinario, preoccupate più di difendere i loro privilegi e spesso quelli di lavoratori inoperosi che di coagulare attorno ad un progetto i nuovi bisogni di lavoratori precarizzati sine die. Questi ultimi, a ragione, si possono definire sottoproletari, nel senso che pur avendo coscienza individuale e parzialmente collettiva di essere sfruttati, non ne hanno ancora una chiara coscienza di classe, di conseguenza sono privi sia di riferimenti politici che li rappresentino, e verso cui far confluire tanto i loro bisogni quanto i loro voti, sia di forme di autorganizzazione politica. Un efficiente partito di destra sociale moderna o di sinistra progressista dovrebbe essere in grado di intercettare questo consenso con un programma ad hoc, che tenga soprattutto in conto la diversità di questo proletariato con quello operaistico di un tempo, in questo caso, infatti, ci troviamo dinanzi ad un proletariato acculturato e intellettuale, con un livello di scolarizzazione secondaria e universitaria, che risulta concentrato, seppur disperso in molteplici piccole aziende e soggetto alle dure leggi di agenzie interinali, soprattutto nel settore terziario e quaternario.
Probabilmente, neanche la definizione di proletariato è adatta per definirli, infatti, questa massa non è proletaria perché è senza coscienza di essere un’enorme forza sociale e nel più dei casi è senza prole, basta analizzare i già citati dati statistici sui tassi di natalità.
In passato l’istanza capitalistico-borghese vedeva nella nazione un fattore decisivo e positivo per creare un’area economica omogenea e unitaria, si trattava infatti di aggregare con la forza e/o con la ragione tutti quei ministati che seppur contraddistinti da una lingua comune e da una contiguità storica e culturale, si mantenevano divisi per questioni di potere e discendenza dinastica.
Oggi, viceversa, la nazione, nelle sue versioni di nazionalismo e territorialismo, etnicismo e comunitarismo, è osteggiata dal capitalismo, perché non solo minaccia di spezzare la libera circolazione di merci e capitali nelle enormi aree continentali che si sono costruite in funzione esclusiva del mercato, ma anche perché viene messo in discussione il medesimo concetto di nazione così come si è formato a cavallo dei secoli XVIII e XIX. In forza di tale concetto è stato normalmente calpestato il principio di autodeterminazione, alla cui base vi erano seri fondamenti etnico-razziali, storico-antropologici, storico-sociali e socio-economici, oltre che, in taluni evidenti casi, fattori linguistici.
Come ricorda il Prof. Paolo Desogus oggi il famoso articolo di Pier Paolo Pasolini "Cos'è questo golpe? Io so" compie 50 anni. "Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica...
Sulla vicenda della donna iraniana nuda nel campus, le cui immagini sono diventate virali, monta la strumentalizzazione politica.Al di là dei proclami “social”, cosa si sa realmente?...
L'ex comandante della NATO James Stavridis ha previsto che il conflitto in Ucraina si concluderà con la conquista da parte della Russia di circa un quinto del territorio del Paese. Stavridis, ammiraglio...
Pubblichiamo questa lettera aperta che la giornalista e saggista Patrizia Cecconi ha inviato ai dirigenti di Eurospin nella quale spiega perché è semplicemente immorale vendere merci...
Copyright L'Antidiplomatico 2015 all rights reserved
L'AntiDiplomatico è una testata registrata in data 08/09/2015 presso il Tribunale civile di Roma al n° 162/2015 del registro di stampa