Il salario minimo risolve da sinistra i problemi dell'immigrazione?



di Omar Minniti

Per fortuna, in Italia ci sono ancora dei bravi compagni marxisti, non sinistrati e drogati di migrantismo, che si differenziano dalle posizioni della “sinistra fucsia ed arcobaleno” sul tema dell’accoglienza e non cadono nel pietismo stile Croce Rossa e Parrocchia del Sacro Cuore. Una delle proposte che alcuni di questi compagni avanzano per risolvere la crisi migratoria, è l’introduzione del salario minimo.


Un salario minimo uguale per tutti, italiani e migranti, che costringa i proprietari dei campi, dei cantieri e delle fabbriche a non assumere più manodopera sottopagata, impedendo così che questa faccia concorrenza al ribasso ai lavoratori che hanno a cuore i loro diritti sindacali e riduca drasticamente il costo del lavoro. Si tratta di una proposta sicuramente progressista e che oggi – in un contesto di devastazione dei diritti sociali – segnerebbe un notevole passo avanti nella ripresa della lotta di classe. Però risolverebbe solo in minima parte i problemi specifici legati all’immigrazione. Anche una volta introdotta, resterebbero da affrontare i nodi del ricorso al lavoro nero, all'esternalizzazione dei servizi tramite finte cooperative intestate a migranti, nonché ai contratti effettuati per una mansione inferiore rispetto a quella effettivamente espletata. Inoltre, il salario minimo, se non anticipato e seguito da misure connesse al controllo dei flussi e la gestione della popolazione migrante (regolare ed irregolare) attualmente residente in Italia, rischierebbe addirittura di peggiorare il quadro esistente per i lavoratori stranieri.


Facciamo un esempio concreto. Pensiamo alle campagne del nostro Meridione, dove oggi si verificano gravissimi casi di sfruttamento e caporalato nei confronti dei migranti. Mettiamo il caso che in un futuro prossimo in Italia si insedi un governo anche solo moderatamente socialdemocratico, che instauri il salario minimo e dichiari guerra al lavoro nero ed al caporalato. E che costringa i padroni agricoli ad applicare il contratto di categoria, con straordinari riconosciuti, ferie, tredicesima, Tfr, indennizzi per infortunio, eccetera, ed a far pagare la raccolta dei mandarini e dei pomodori con uno stipendio che parta diciamo da 1.200 euro netti al mese.


Perché un padrone dovrebbe assumere un migrante, se gli costerebbe esattamente quanto un bracciante italiano e sarebbe costretto a garantirgli i medesimi diritti sindacali? A questo punto, meglio contrattualizzare direttamente quest'ultimo. È evidente che i disoccupati calabresi, siciliani e campani, compresi i giovani laureati che oggi emigrano altrove, farebbero la fila per lavorare. Verrebbero a mancare i lavori “che gli italiani non vogliono più fare”. E non ci sarebbe più alcuna ragione di assumere nigeriani, senegalesi, tunisini, indiani, ecc. Questi verrebbero immediatamente espulsi dai processi produttivi e privati perfino di quella miseria che percepivano prima come semi-schiavi, sia nella condizione di lavoratori regolari ma sottopagati, che in quella di lavoratori al nero.


Cosa si farebbe con centinaia di migliaia di migranti spazzati via, da un giorno all’altro, dal mercato del lavoro ed impossibilitati a ricollocarsi, perché non più “esercito di riserva” e quindi troppo “costosi”? Li mantieni a vita con carità ed assistenzialismo di stato, tipo reddito di cittadinanza, o con le elemosine per nulla disinteressate degli avvoltoi delle Ong e delle cooperative? Oppure li costringi ad un’ulteriore ghettizzazione e li lasci completamente in mano del “welfare” parallelo delle mafie nazionali e straniere?


Per molti compagni, anche della sinistra anticapitalista ed antimperialista non sensibile alle sirene di Soros e degli altri guru liberali, è duro ammetterlo, soprattutto per paura di subire l’etichetta infame di “rossobruni” e “fascioleghisti”, ma prima o poi si dovrà gettare il cuore oltre l'ostacolo. E convenire che puoi accogliere solo nel limite delle capacità e delle esigenze del paese in cui vivi, ripristinando la sovranità sulle frontiere, bloccando il business degli sbarchi e delle Ong, gestendo in maniera oculata la politica degli ingressi, senza escludere i rimpatri per coloro che non sono nelle condizioni di restare in Italia. Bisogna avere il coraggio e l’onestà di dire, come hanno già fatto figure eminenti della sinistra comunista, socialista e socialdemocratica europea e mondiale, che l'accoglienza non può essere un pozzo di San Patrizio, senza fondo.


“Ah, però qui stiamo parlando di un sistema capitalista. In un altro modello di società, egualitario e non fondato sulla proprietà privata, le cose andrebbero diversamente”. Anche questa è una risposta comune tra i suddetti compagni in buonissima fede. Beh, sarebbe superfluo dire che l’instaurazione del socialismo in Italia non è, purtroppo, proprio dietro l’angolo e rammentare che i comunisti non stanno vivendo il picco più alto della loro storia ed i rapporti di forza sono quel che sono. Così come dovrebbe essere scontato che se, parlando con un disoccupato calabrese o un operaio lombardo, proponi la dittatura del proletariato come soluzione del problema migratorio ricevi come replica, se ti va bene, una sonora pernacchia. Questo è lo stato dell’arte, piaccia o no, alla luce del deserto creato dai dirigenti che hanno rinnegato il marxismo.


Detto ciò, siamo così convinti che i sistemi alternativi al capitalismo siano stati e siano tutt’oggi dei paradisi terrestri per i fans delle frontiere aperte e dell’immigrazione libera?


La storia passata ed attuale del movimento operaio, a partire da quella relativa alla costruzione del socialismo nell’Europa centro-orientale ed in altri continenti, intanto ci dimostra che quei sistemi soffrivano (e soffrono) di un problema esattamente opposto: quello dell’emigrazione della manodopera e dei cervelli verso nazioni capitaliste, indotta dalla martellante propaganda di quest’ultime. E per fermare questo fenomeno, oltre che per proteggersi da tentativi di invasione e provocazioni, si è arrivati ad erigere muri, come quello di Berlino, e frontiere iper-blindate (la cosiddetta “Cortina di ferro”). Confini esistevano anche tra un paese socialista e l’altro, compresi quelli che facevano parte del Patto di Varsavia, e l’interscambio di lavoratori avveniva solo previa autorizzazione di entrambi i governi coinvolti.


Emigrazioni consistenti ci furono immediatamente dopo la vittoria delle forze rivoluzionarie (vedi Cuba, Vietnam e Jugoslavia) e dopo tentativi controrivoluzionari (Ungheria, per esempio), ma anche in periodi di instabilità (la Polonia dello stato d’emergenza contro Solidarnosc) e forti crisi economiche per via di embarghi (pensiamo sempre a Cuba e ai “balseros” che fuggivano negli Usa). Certo, nei paesi socialisti si sono trasferiti dei cittadini stranieri. Esuli e perseguitati, comunisti e membri dei movimenti di liberazione, hanno trovato rifugio sicuro in nazioni come l’Urss, la Germania Democratica, la Romania e la Cecoslovacchia, soprattutto dopo i golpe reazionari in America Latina. Così come hanno avuto la possibilità di studiare gratuitamente ragazze e ragazzi dei paesi del Terzo Mondo (era famosissima l’Università Lumumba di Mosca). Ma non c’è mai stata un’immigrazione di massa da parte di lavoratori o disoccupati occidentali verso le patrie del socialismo realizzato. Qualche piccolo movimento si è registrato tra le regioni povere della Germania Ovest e la Ddr e, solitamente, le autorità di quest’ultima guardavano con estremo sospetto a tale fenomeno, pensando (legittimamente) ad infiltrazioni di spie e dubitando sulla capacità di questi espatriati di adattarsi alla disciplina socialista. In ogni caso, le procedure per ottenere un permesso di soggiorno per ragioni non politiche erano lunghe e complicatissime.


Lo stesso avviene nei paesi che ancora oggi si richiamano all’ideologia marxista, come Cuba. È facile entrare in questa meravigliosa isola caraibica per turismo, per brevi soggiorni. Ottenere il visto per un viaggio è di fatto una banale formalità. Molto più difficile trasferirsi lì per sempre. Per guadagnare un permesso di residenza a Cuba è necessario avere un contratto di lavoro o seguire un corso di studi, oppure dimostrare un reddito e fare un investimento nei settori aperti all’economia mista. Inoltre, va esibita una fedina penale immacolata e, soprattutto, va versato un ingente deposito in banca come fondo di garanzia. Insomma, sbaglia chi si immagina un futuro a L’Avana bighellonando sul Malecon, vivendo grazie alla vendita ambulante senza permesso di cianfrusaglie o abiti taroccati, suonando il bongo e fumando canne, magari vendendo pure un po’ di erba e fumo. Non provate a farlo.


Morale della storia: socialismo ed immigrazione incontrollata e di massa e frontiere aperte non vanno proprio a braccetto.

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