di Michel Fonte
“È inutile/ Non c’è più lavoro/ Non c’è più decoro/ Dio o chi per lui/ Sta cercando di dividerci/ Di farci del male/ Di farci annegare/ Com’è profondo il mare/ Com’è profondo il mare.”
Questa canzone del 1977 contenuta nell’omonimo album di Lucio Dalla è da considerarsi una sintesi, una volta spentesi le luci del Consiglio Europeo (28-29 giugno 2018), di ciò che è rimasto sul tavolo, un documento privo di valore e di efficacia nonché accompagnato da deprecabili recriminazioni reciproche tra i primi ministri degli Stati membri. Che l’Europa continui ad essere nel contesto internazionale un nano in mezzo a dei giganti (Cina, Russia e USA) è un dato oramai incontrovertibile, quello che invece si fa fatica o si finge di non capire, specie da certa stampa istituzionalizzata, è che il riemergere dello sciovinismo o campanilismo che dir si voglia, è una diretta conseguenza dell’azione di un solo paese che nel corso di questi sedici anni di vita dell’UEM (Unione economica e monetaria) si è comportato come uno Stato-nazione, nello stesso momento in cui chiedeva, o meglio imponeva, agli altri partecipanti al progetto dell’unione valutaria di cedere parti essenziali della propria sovranità.
La Germania ha rispolverato nel contesto continentale il grande sogno, peraltro mai sopito, di dominio del vecchio mondo, per farlo non ha avuto bisogno, almeno fino ad ora, di truppe, carrarmati e forze aeree, le è bastato porre incondizionatamente al proprio servizio una moneta, l’euro – basta osservare la serie storica sul differenziale in termini di prezzi all’interno dell’UEM, il cosiddetto utilizzo dell’inflazione come mezzo di svalutazione per conseguire un vantaggio esiziale sui competitori – e una banca centrale, la BCE, il cui Quantitative easing (Qe), attraverso gli strumenti Ltro e Tltro, se da un lato ha dato una mano ai paesi con un pesante fardello debitorio disinnescando perturbatrici e poco chiare speculazioni sui titoli di Stato, dall’altro ha finito per favorire soprattutto l’economia tedesca e le consorelle nordiche (si stima una ripartizione con un rapporto 65-70% rispetto al 30-35% dei cosiddetti PIGS, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) che hanno potuto finanziarsi a costo zero e addirittura a tassi negativi, dato che i due parametri individuati dal governatore Draghi nell’acquisizione di quote del debito sovrano, il cosiddetto bazooka, sono stati il rating (valutazione di affidabilità o solvibilità) e il peso demografico degli Stati beneficiari. In un simile contesto, anche il tema immigrazione non è sfuggito a una visione tedesco-centrica sul futuro assetto europeo, a confermarlo ci sono ben quattro episodi cronologicamente concatenati, che non solo è opportuno ma addirittura doveroso menzionare.
Innanzitutto, in data 13 settembre 2015, si stabiliva la sospensione del traffico ferroviario, la parziale chiusura dei varchi di accesso e la temporanea riattivazione dei controlli doganali al confine austro-tedesco, tutto ciò con il dichiarato obiettivo di arginare l’ondata di migranti proveniente dai Balcani dopo l’impossibilità di attraversamento del suolo ungherese, sbarrato al transito dalle autorità magiare. La misura adottata dal ministro degli interni Thomas de Maizière sospendeva in maniera unilaterale il trattato di Schengen, di fatto violandolo, senza fornire alcun preavviso agli altri partner europei, occorre ricordare che anche in quella circostanza protagonista di una risoluta protesta e fautore del ripristino di una ferrea sorveglianza transfrontaliera fu l’attuale occupante del dicastero, Horst Seehofer, allora presidente del governo regionale di Baviera, il cui territorio risultava quello maggiormente esposto all’invasione di richiedenti asilo tanto dal versante italiano (Brennero) quanto e soprattutto da quello europeo sudorientale (dati forniti dal land sostenevano l’ingresso di ben 63.000 tra profughi e immigrati irregolari a partire dal mese di agosto).
Il 15 ottobre 2015, circa un mese dopo, si siglava un accordo tra la Turchia e l’UE (Joint Action Plan) per contenere l’arrivo di migranti, attraverso la rotta balcanica, dalla Siria, paese che dal 2011 è sprofondato in una guerra non convenzionale, per procura e diretta, tra potenze straniere (Russia, Usa, Francia, Regno Unito, Turchia, Israele, Iran, Qatar e Arabia Saudita), che ha coinvolto suo malgrado la popolazione civile sottoponendola al fuoco incrociato di vari fronti - Isis e Jabhat al Nusra, poi convertitisi in Jabhat Fatah al Sham), impegnati a realizzare il grande progetto del califfato internazionale, Al Qaeda, Hezbollah, la coalizione curda integrata da Pyd, Ypg e Pkk, i ribelli moderati legati alla Fratellanza Musulmana, i gruppi islamisti radicali e salafiti di ispirazione nazionalista come Ahrar al Sham, ossia Uomini liberi del Levante, e Jeish al Islam, ovvero Esercito dell’islam, successivamente in parte confluiti in Hayat Tahir al Sham, Consiglio per la liberazione del Levante, i quali aspirano all’instaurazione di un regime siriano dominato dalla sharia, l’Fsa o Esercito siriano libero di matrice antigovernativa e con base e sostegno in Turchia, formato da gruppi di diversa estrazione politica e religiosa tra i quali Faylaq al-Cham o Legione del Levante, la Divisione al-Hamza, la Divisione Sultan Murad, Liwa al-Mutasim e il Movimento Nour al-Din al-Zinki, infine, ciò che è rimasto dell’esercito regolare siriano, più o meno 150.000 soldati, e i miliziani filo-Assad, stimati tra i 150.000 e i 200.000 uomini, dei quali circa 90.000 sono confluiti in quella che è stata ribattezzata FND, cioè Forza Nazionale di Difesa, protesi senza sosta e con inesorabile determinazione ad assicurare il completo ristabilimento del regime, che attualmente controlla il 65-70% del territorio e l’80% della popolazione, si veda per un approfondimento sul tema https://www.geopolitica.ru/es/article/la-guerra-negra-trump-elige-el-enemigo-exterior-1a-parte).
L’intesa trovava piena attuazione a partire dal 4 marzo 2016 in un documento con cui la Commissione Europea stabiliva due priorità concernenti il ristabilimento dell’ordine nella gestione delle frontiere interne ed esterne dell’UE, al fine di garantire una tabella di marcia per un effettivo ritorno al trattato di Schengen, e l’implementazione delle prime misure di assistenza ai rifugiati in territorio turco, menzionando come uno degli obiettivi del Joint Action Plan fosse, così come specificato nella Parte Seconda (Strengthening cooperation to prevent irregular migration), la lotta alla tratta degli esseri umani via mare da realizzarsi attraverso il rafforzamento delle unità costiere locali e l’intensificazione dei controlli del litorale, l’aumento della cooperazione fra le autorità nazionali turche e quelle degli altri membri europei per organizzare operazioni congiunte di rimpatrio dei soggetti irregolari verso i paesi di origine, l’avvio di dialogo e forme di collaborazione con le istituzioni di quelle realtà di provenienza dei migranti, specificamente le “Vie della Seta” (Silk Routes), per prevenire l’afflusso di indocumentati e lottare contro i trafficanti convergendo verso un generale miglioramento nella gestione della crisi.
Ebbene, con l’intesa in questione, la Germania dopo aver accolto con esito positivo, da gennaio ad ottobre del 2015, le istanze di 362.153 richiedenti asilo (fonte The Federal Office for Migration and Refugees, BAMF), principalmente siriani (103.708), e di altri 745.545 nel 2016, provenienti ancora una volta essenzialmente da Siria (268.866) Afghanistan (127.8929), Iraq (97.162) Iran (26.872), e poi Eritrea (19.103), Albania (17.236) e Pakistan (15.528) – per la maggioranza tecnici e manodopera con elevata qualificazione e scolarizzazione e pertanto pronti per essere inseriti nel sistema produttivo nazionale spingendo ulteriormente verso il basso i salari e mantenendo, in tal modo, alta la competitività dei manufatti tedeschi sui mercati esteri – ha deciso di accantonare un interessato spirito di accoglienza utilizzando a proprio esclusivo beneficio ben 6 miliardi di euro, di cui un prima tranche di 3 (biennio 2016-2017) costituita da un miliardo di fondi europei e due provenienti dagli Stati membri (in particolare l’Italia, nel periodo in questione, mentre si faceva carico degli esodi provenienti dalle coste nordafricane, erogava 224,9 milioni di euro per fermare una migrazione balcanica da cui non era nemmeno sfiorata, dimostrando di assecondare un controverso principio di solidarietà) da destinare al governo di Erdogan per trattenere su territorio turco o ai margini dello stesso enormi masse di disperati, avallando senza tanti giri di parole una politica di porte chiuse.
Nei fatti, si disconosce la reale utilità per i fruitori di questa enorme mole di stanziamenti, tenendo in conto le difficoltà di accesso rispetto ad un interlocutore notoriamente restio a permettere intromissioni nella sua sfera di influenza, l’unico resoconto a disposizione estratto dalla documentazione ufficiale dell’Ue è che nel solo 2016 sono stati destinati:
- 40 milioni di euro per aiuti umanitari da parte del World Food Programme (WFP) per assistere 735.000 rifugiati, e altri 37 milioni erogati dall’Unicef per il sostegno scolastico a circa 110.000 bambini in fuga dalla guerra e la fame (4 marzo).
- 60 milioni per coprire spese di assistenza sanitaria, forniture alimentari e alloggiamento dei migranti e 50 milioni in aiuti umanitari per rispondere ai bisogni più urgenti (19 aprile).
- 20 milioni per finanziare le operazioni della Guardia Costiera Turca impegnata in attività di ricerca e salvataggio di vite in mare, nonché per fronteggiare la tratta e il traffico illegale di rifugiati e migranti (26 maggio).
- 505 milioni stanziati per la realizzazione del Humanitarian Implementation Plan (HIP) varato dalla Commissione europea (3 giugno).
- 1.415 milioni di misure speciali (Special Measure) per programmi nel campo della salute, dell’educazione e del sostegno socio-economico ai rifugiati e per l’allestimento di strutture sociali e municipali di accoglienza, cui si sono aggiunti 74 milioni per non precisati progetti di aiuto umanitario. Nello specifico, alla data in oggetto, 28 luglio 2016, erano già stati concessi più di 2 miliardi di euro alla Turchia.
- 348 milioni per l’implementazione della Rete di Sicurezza Sociale d’Emergenza (ESSN) gestita in collaborazione tra il governo turco e il World Food Programme (8 settembre 2016). In sostanza, si tratta di una carta di debito assegnata a tutti i rifugiati che rifiutando di vivere nei campi (e che sono la maggioranza) si trovano ad affrontare difficili condizioni di vita all’interno di città e insediamenti urbani contraddistinti da degrado e povertà, entrando nello specifico, le famiglie beneficiarie del piano (circa 1 milione secondo i dati 2017, fonte https://www.essncard.com/about-card/) ricevono 120 lire turche mensili, pari a 28 euro, per ogni membro che le compone, potendo comprare tutto ciò di cui hanno bisogno in qualsiasi punto vendita aderente al progetto. Secondo i propositi della Commissione europea, l’iniziativa garantendo un’entrata mensile fissa offre ai beneficiari il diritto di scegliere come gestire la propria esistenza quotidiana e favorirne l’integrazione nella società turca, allo stato attuale però l’unico vero vantaggio sembra averlo conseguitto l’emettitrice della suddetta carta, ossia Mastercard e più precisamente i titolari del suo pacchetto di maggioranza, quasi tutti fondi di inversione statunitensi (The Vanguard Group, Inc., BlackRock Fund Advisors, Fidelity Management & Research Co, State Street Global Advisors, T. Rowe Price Associates, Inc., Capital Research & Management Co., Henderson Global Investors Ltd. e Jennison Associates LLC), che si troveranno a tesaurizzare e gestire questo denaro in attesa che venga speso (il servizio è andato a regime a partire dal primo quadrimestre del 2017 mentre già ad ottobre 2016 erano stati pianificati i primi trasferimenti di danaro) oltre ad incassare quanto pattuito per la prestazione fornita.
La Germania impone agli Stati del sud il ruolo di kapò
In data 8 settembre 2016, la Commissione europea rendendo noto che erano stati assegnati per attività di assistenza umanitaria e non umanitaria 2.293 milioni di euro (di cui 652 milioni oggetto di contratti e 181 già erogati, il 7 dicembre le cifre erano già rispettivamente lievitate a 1.3 miliardi e 677 milioni), non nascondeva una certa soddisfazione per come il meccanismo di finanziamento alla sentinella turca avesse sortito i risultati sperati, riducendo il numero degli approdi giornalieri dal picco di 10.000 raggiunti il 25 ottobre 2015 a una media inferiore ai 43, successiva alla stipula e alla piena entrata in vigore dell’accordo. Inoltre, in dicembre 2017, giusto un anno dopo, si comunicava l’attivazione e il regolare funzionamento di 72 progetti in territorio turco (nel frattempo, ai principi di giugno 2018, si sono sborsati altri 1.940 milioni di euro per finanziare nuove iniziative), glissando su diverse contestazioni mosse da numerose organizzazioni umanitarie sulla bontà e gestione degli stessi e non riuscendo ancora a fornire un dato certo sul numero di rifugiati, che alla data del 14 giugno 2018 risulta essere pari a 3.9 milioni (di cui 3.5 siriani), ai quali bisogna aggiungere 220.000-250.000 persone ricacciate al confine dalle autorità locali con modalità oggetto di aspre critiche, e che ora vivono a rischio di morte in improvvisati e impenetrabili campi ai due lati della frontiera turco-siriana.
Di certo quello che salta all’occhio è, innanzitutto, la concentrazione della metà dei progetti europei nel sud-ovest della Turchia (53% pari a 83 su 158), vale a dire che il presidente Erdogan ha eletto come punto di concentrazione dei profughi siriani – in maggioranza proseliti di quella stessa religione sunnita che prevale nel paese ottomano – un’area in cui è forte l’influenza e il disegno autonomista del Pkk curdo, che attraverso il suo braccio armato, Hpg (Forze di difesa del popolo), favorisce l’azione congiunta delle milizie appartenenti al Pyd (Partito dell’unione democratica in Siria) e al Ypg (Unità di protezione popolare) operanti nel nord-est della Siria, che a loro volta rientrano nel più vasto schieramento delle unità militari delle Sdf (Forze democratiche siriane), supportate dagli USA dopo il tracollo militare dell’Is (Stato islamico) con il dichiarato obiettivo di costruire uno stato federale siriano su base etnica che porti all’affermazione dell’influenza nordamericana nella regione e al defestrenamento di Assad.
Sebbene Erdogan sia favorevole alla caduta di quest’ultimo, è ostile ad accettare la creazione di una nazione dei Curdi, che pur nella diversità di posizioni rivendicano la nascita di un’entità indipendente che dovrebbe coprire l’attuale Kurdistan nel nord-est dell’Iraq, la zona settentrionale della Siria, una piccola porzione di territorio occidentale iraniano e buona parte dell’area meridionale (al confine siriano) e orientale (principalmente al limite della frontiera iraniana) della Turchia. In tal senso, l’assedio di Afrin, nell’operazione “Ramoscello d’ulivo”, portato avanti dalle forze paramilitari del Tfsa (Esercito libero siriano) addestrate, guidate e sostenute dall’esercito ottomano con raid aerei, marittimi e terrestri, aveva come obiettivo rompere questo blocco, e per farlo il governo turco non si è posto nessuno scrupolo di mettere a repentaglio quegli stessi profughi che l’Ue ha affidato alla sua protezione con il programma di aiuti varato. Nella realtà, 400.000 civili inermi, di cui 200.000 sfollati che avevano trovato salvezza in quell’enclave, sono intrappolati in una guerra infida e sempre più truculenta, una vicenda che costituisce non solo una grave violazione del ruolo assunto con il Joint Action Plan ma soprattutto un’infrazione dell’art. 33 co. 1 della Convenzione di Ginevra, noto come principio di non refoulement (“Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”).
Si arguisce come nella regolamentazione dei flussi misti (rifugiati e irregolari) si sono uniti due interessi, in primis, quello tedesco di delegare agli Stati del sud (Italia, Grecia e Turchia) il ruolo di kapò delle correnti migratorie, infatti, soffermandoci ad analizzare le cifre (dati BAMF marzo 2018) si rileva che l’intesa resa efficace a partire dal 2016 ha prodotto in Germania un calo impressionante del numero dei richiedenti asilo (pari a 222.683 con il podio occupato da 50.422 siriani, 21.930 iracheni e16.423 afgani). Al contempo, le istituzioni preposte a esaminare le domande di accoglienza, hanno accordato lo stato di protezione a solo il 25,1% dei postulanti rispetto al 50,2% del 2015 e al 42,1% del 2016, chiaro segno di una politica rivolta verso i respingimenti di massa, testimoniata anche dal dato che nel 2017 il rigetto di asilo in prima istanza è stato il più alto dell’ultimo triennio (232.207 come somma delle pratiche presentate nell’anno e in quelli precedenti). In secondo luogo, il tornaconto turco, che non è legato solo all’entità dei finanziamenti in ballo ma anche e soprattutto all’esigenza geostrategica in una situazione di disordine politico e minaccia militare dell’intero versante meridionale del paese, di modificare il volto etnico-religioso di un territorio popolato dai cosiddetti “Turchi di Montagna” o “Turchi d’Oriente” (in quest’area vive la quasi totalità dei 15 milioni di curdi, dati CIA World Factbook 2016), specie nell’area di Rojava (da Afrin, passando per Jazira e Kobane, fino a Manbij), ai quali Erdogan – nel frattempo diventato onnipotente dominus della repubblica grazie all’esito del referendum del 16 aprile 2017 – vuole impedire ad ogni costo di fondersi con il Kurdistan iracheno.
Un altro aspetto che occorre rilevare nella faccenda, è l’enorme quantità di Ong, Onlus e società attive nei programmi dell’UE (Unicef, WFP, Médecins du, Welthungerhilfe, UNFPA, Relief International, Danish Refugee Council, World Vision, CARE, International Medical Corps, WHO, Mercy Corps, Diakonie, IOM, GOAL, Concern Worldwide, Federation Handicap, International Federation of the Red Cross Societies, Kreditanstalt für Wiederaufbau, Agence française de développement, Deutscher Akademischer Austauschdienst, Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GiZ), Stichting SPARK, Danish Red Cross, Association for Solidarity with Asylum Seekers and Migrants, UNDP, The Union of Chambers and Commodity Exchanges of Turkey, UN Women) che a prescindere dai risultati snocciolati dalla Commissione europea (1.3 milioni di persone a carico dell’ESSN, 260.000 bambini con le loro famiglie inseriti nel Conditional Cash Transfer for Education Programme, 500.000 mila bambini siriani con accesso all’istruzione e 32.000 destinatari del servizio di trasporto scolastico, più di 760.000 prestazioni sanitarie di base fornite, oltre 217.000 rifugiati in età infantile vaccinati e 12 centri medici costruiti con una pianta organica di 813 unità lavorative, fonte https://ec.europa.eu/neighbourhood-enlargement/sites/near/files/frit_factsheet.pdf) non hanno risolto il problema principale, e cioè l’integrazione, dato che la maggior parte dei rifugiati, in stragrande predominanza siriani, preferisce vivere fuori dai campi trovandosi alle prese con il difficile reperimento di un alloggio nel mercato privato, che li spinge a prendere in affitto per prezzi esorbitanti case scalcinate in periferie insalubri di piccole città e grandi metropoli turche (come il suburbio di Alt?nda? ad Ankara denominato la piccola Aleppo o il quartiere in rovina di Basmane a Smirne, dove sono stati dislocati buona parte dei migranti masse sbarcati in Grecia e accettati dai turchi sulla base dell’accordo di marzo 2016 siglato con l’Ue).
Come se non bastasse la situazione è aggravata dalle penose condizioni occupazionali, infatti, pur avendo il permesso di poter lavorare legalmente in Turchia, la comunità siriana è costretta ad accettare impieghi sottopagati e in nero, dunque, non è casuale che molti abbiano, quando possibile, ripreso la strada del ritorno in patria, o in alternativa alimentato un nuovo traffico di esseri umani, questa volta condotto da criminali locali che per la somma di 1500 euro sono pronti a scortarli fino al Bosforo, per poi tentare da lì di attraversare, almeno fin quando è stato possibile, la Bulgaria e i paesi dell’ex Jugoslavia per giungere in Europa del nord. Sulla base di quella che è la realtà, suonano quantomeno come ipocrite le parole con cui la Commissione europea si esprimeva in data 7 giugno 2016 sugli esiti della collaborazione: “Si è rivelata fondamentale per contrastare lo sfruttamento delle persone vulnerabili che cercano di attraversare il Mar Egeo, aumentando l'assistenza umanitaria in Turchia e aprendo, al tempo stesso, nuovi canali legali verso l’UE. La dichiarazione UE-Turchia ha definito nuovi modi per mettere ordine nei flussi migratori e salvare vite. Collegando la gestione della migrazione delle due parti si è instaurato un livello di cooperazione senza precedenti.”
Nel citato Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 2018, mentre naufragava il raggiungimento di una posizione unitaria rispetto alla modifica sostanziale del regolamento di Dublino (604/2013), per ovviare a delle evidenti carenze in riferimento all’ausilio da offrire agli Stati di provenienza e transito, alla gestione dell’emergenza nelle nazioni di prima ospitalità e alle regole di redistribuzione e movimenti di migranti tra le stesse, la cancelleria tedesca si affrettava a chiudere degli accordi bilaterali con Spagna e Grecia – in assoluto disprezzo sia della politica comunitaria che dovrebbe contraddistinguere l’Ue sia del più elementare principio di solidarietà tra Stati – per il ritorno in questi due paesi di tutti i soggetti censiti presso le loro commissioni territoriali ma successivamente trasferitisi in suolo tedesco (cosiddetti movimenti secondari), analogo approccio veniva adottato nei giorni successivi con Belgio, Olanda, Francia, Lussemburgo, Svezia, Danimarca, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Portogallo, su base volontaria e con al momento ignote ma immaginabili contropartite (investimenti, flessibilità sui conti, indennizzi, ecc..)
Infine, lo scorso 3 luglio si è assistito all’ultimo strappo. Angela Merkel alle prese con le difficoltà del suo quarto mandato, ha reso noto che di concerto con il ministro degli interni Seehofer il governo tedesco ha deciso di istituire dei centri di transito (o trasferimento nella versione più edulcorata) e raccolta in aree prossime al confine tedesco, cosiddette zone neutrali, per tutti coloro entranti o entrati nel paese ma di fatto registrati in prima istanza in altro Stato membro, tutto ciò in attesa della valutazione delle singole posizioni di richiesta d’asilo e dell’eventuale rientro nella nazione di primo ingresso, laddove sia possibile grazie ad un patto vigente. Il pericolo che incombe su migranti provenienti da Stati con cui non si è raggiunta un’intesa, come Italia o Ungheria, e a cui è stato negato lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria o per motivi umanitari, è che questi restino per anni confinati in ghetti che rischiano di diventare delle vere e proprie prigioni in barba alla prevista procedura accelerata e alle vaghe e forzate definizioni giuridiche di “finzione del non-arrivo” o “zone internazionali di transito e permanenza temporanea”.
Proprio per evitare di impelagarsi in un’azione suscettibile di essere sanzionata come violazione del diritto internazionale, il governo tedesco ha tracciato una duplice linea d’azione che chiama in causa direttamente l’Italia (5 luglio 2018). Con la prima, ha annunciato la chiusura della frontiera austriaca, in questo modo dopo aver neutralizzato a colpi di miliardi la circolazione balcanica, si appresta a chiudere il cerchio sigillando l’accesso da sud a migliaia di cittadini del continente nero che hanno scelto il Bel Paese solo come luogo di transito. La principale conseguenza di tale misura sarà la pressoché certa e contemporanea chiusura del confine austriaco, specificamente del Brennero, per evitare che schiere di migranti rimangano imbottigliati in Austria con tutte le conseguenze del caso (per quel che si sa il ministro degli interni austriaco Herbert Kick è favorevole ad adottare una simile piano di condotta). Con la seconda Angela Merkel, che per bocca del ministro Horst Seehofer e con la condivisione del cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha annunciato di adottare sanzioni nei confronti dei soggetti che si rifiutano di assecondare i movimenti secondari, intende produrre pressione sull’Italia e spingerla a piegarsi alla logica di diventare l’ennesimo esecutore della democrazia sovranazionale etnica a supremazia tedesca, come si può ben capire si è passati nel giro di una settimana dagli accordi su base volontaria alla diplomazia delle minacce.
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