Di seguito l’intervento di Lucio Magri (19.02.1932 – 28.11.2011) contro la ratifica del Trattato di Maastricht sull’Unione Europea tenuto a nome di Rifondazione Comunista nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992. Nel prosieguo i risultati del voto, con i posizionamenti politici, e un commento critico.
IL DISCORSO DI LUCIO MAGRI
“Signor Presidente, i deputati del gruppo di Rifondazione Comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime. Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. […] Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino. Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.
A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche autonome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.
La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni Trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.
Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.
Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire. Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.
Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.
Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono. E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.
La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.
Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.
C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni. Su questo terreno il ritardo è però grandissimo. C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.
La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto. Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi. Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un'alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?”
I RISULTATI DEL VOTO E I POSIZIONAMENTI POLITICI
Il risultato finale del voto alla Camera stato di 403 voti favorevoli, 46 contrari e 18 astenuti. Commento del giornalista Leopoldo Fabiani per “La Repubblica” da cui emergono anche le altre prese di posizioni politiche sulla questione: “se ieri il voto ha richiamato in Parlamento un numero notevole di deputati, non si può nascondere che nei giorni scorsi, durante il dibattito di merito a qualche deputato è capitato di parlare all'aula deserta. E sì che, dopo la decisione di partecipare alla guerra nel Golfo, questa è la più importante scelta di politica estera presa dall'Italia negli ultimi anni […]. Il governo ha respinto anche tutti gli ordini del giorno che comportavano emendamenti o "riserve" sul trattato che va "approvato o respinto così com'è" come ha spiegato anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano.
Sono stati invece accolti come "raccomandazioni" ordini del giorno presentati dall' opposizione, come quello del Pds firmato da Massimo D'Alema o quello dei Verdi di Francesco Rutelli. I Verdi si sono poi astenuti nel voto finale (altrettanto ha fatto la Rete) perché chiedono un maggiore impegno sulla democratizzazione della Comunità. Contrario il Msi: "Il trattato è un mostriciattolo giuridico e costituzionale che non salvaguarda gli interessi nazionali", ha detto Mirko Tremaglia. E anche Rifondazione comunista: "Nasce un' Europa autoritaria decisa dalle banche centrali e dalle stutture militari". Il gruppo di Marco Pannella, in nome di Altiero Spinelli, non se l'è sentita di votare contro né di astenersi. Ma ha lasciato in aula un solo deputato a votare a favore. Infine i deputati 'pacifisti' del Pds che hanno parecchie riserve sul trattato, si sono riconosciuti nella "sofferta decisione" di approvare annunciata dal capogruppo D' Alema. Ora che il trattato è approvato, l'Italia si è assunta un impegno tutt'altro che leggero. C'è il sentiero del risanamento finanziario, obbligatorio per rispettare i criteri previsti dall' Unione monetaria, stretto, ripido e molto faticoso, soprattutto per quello che riguarda il deficit pubblico.”
LA LOTTA REVISIONISTA PER LA DEMOCRATIZZAZIONE DELL'EUROPA
L'analisi di Magri è tuttora di grande attualità, mostrando come l'Europa che nascesse fosse un'Europa dei Capitali, della Borghesia. Un modello nato secondo linee anti-democratiche e che trovava il modo di far diventare paesi a sovranità limitata i suoi aderenti. Il tutto facendo presagire l'attacco allo Stato sociale e l'impoverimento relativo della grande maggioranza della popolazione italiana. Un'analisi di fase eccellente, seppur contingente e incapace di coglierne la natura profonda, ossia la controffensiva in atto da parte dell'imperialismo in ambito globale a seguito della caduta dell'URSS (1991). Questa carenza mina profondamente la parte finale del discorso di Magri, da cui scaturisce una proposta politica di lottare per la democratizzazione dell'Europa.
I comunisti votavano contro la costituzione dell'Europa imperialista e promettevano di avviare una lotta per la sua democratizzazione; non per la sua distruzione quindi, come insegnavano invece chiaramente Marx, Engels, Lenin e Gramsci. Per avanzare verso il socialismo le strutture e le sovastrutture della Borghesia si possono solo distruggere, non certo riformare. Il revisionismo era però parte integrante da anni ormai del complesso del movimento comunista italiano, che aveva ripudiato in massa il marxismo-leninismo, pur nella protesta diffusa della base militante. Una delle massime espressioni politiche della candida “via italiana al socialismo”, la mente marxista di Lucio Magri, mostrava qui tutti i suoi limiti con una proposta politica utopistica che dimenticava gli insegnamenti della storia del movimento comunista internazionale.
La convinzione di dover e poter riformare l'Europa diventa negli anni successivi la tomba del movimento comunista italiano e della sua avanguardia politica. Il Partito della Rifondazione Comunista si rivela, sia nella sua fase parlamentarista (periodo Bertinotti, 1994-2008), sia in quella extra-parlamentare (periodo Ferrero, 2008-2017), sempre incapace di riscoprire la dottrina leninista dell'imperialismo, incappando così in disastrose analisi e nelle conseguenti proposte politiche sempre meno incisive. L'accumularsi degli errori politici ha avuto l'effetto di distogliere milioni di proletari, che avevano retto ideologicamente alla caduta dell'URSS, dal marxismo e dalla consapevolezza sulla necessità di avere un'organizzazione politica rivoluzionaria e marxista alla testa delle lotte di classe quotidiane.
Il PRC non ha perso quindi solo la fiducia delle avanguardie della classe lavoratrice, ma ne ha favorito con i propri errori un allontanamento popolare dalla teoria più avanzata a disposizione degli oppressi per la conquista della propria emancipazione politica e spirituale: gli insegnamenti del marxismo-leninismo e del socialismo “reale”. Alle nuove generazioni-avanguardia spetta ora il compito di ricostruire con calma e determinazione la connessione sentimentale tra la classe lavoratrice e la lotta di classe organizzata. Quando si avrà la forza di portare l'attacco al cuore per distruggere l'Europa imperialista, si avrà anche la forza per prendere il potere politico lanciando la rivoluzione socialista.
A cura di Alessandro Pascale
Milano, 11 agosto 2018
[fonti: Partito della Rifondazione Comunista Bergamo, “Lucio Magri e il No di Rifondazione Comunista al Trattato di Maastricht”, 28 novembre 2017, disponibile su http://www.prcbergamo.it/…/28-11-2017-lucio-magri-e-il-no-…/, L. Fabiani, “L'Italia approva Maatricht”, “La Repubblica”, 30 ottobre 1992, disponibile su http://ricerca.repubblica.it/…/italia-approva-maastricht.ht…]
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