Andre Vltchek, New Eastern Outlook - Traduzione di Alessandro Lattanzio per Aurora
Sì, ci sono macerie, in realtà distruzione totale, in alcuni quartieri di Homs, Aleppo, periferia di Damasco e altrove. Sì, ci sono terroristi e “forze straniere” ad Idlib e in diverse zone minori in alcune parti del Paese. Sì, centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita e milioni sono in esilio o sfollati. Ma la Siria resiste. Non si sgretolò come Libia o Iraq. Non si arrese mai. Non ha mai considerato la resa come opzione. Ha attraversato un’agonia totale con fuoco e dolore inimmaginabili, ma alla fine ha vinto. Ha quasi vinto. E la vittoria, molto probabilmente, sarà definitiva nel 2019. Nonostante le dimensioni relativamente piccole, non ha vinto da “piccola nazione”, combattendo una guerriglia. Vince da Stato grande e forte: ha combattuto con orgoglio, apertamente e contro ogni previsione, affrontando gli invasori con tremendi coraggio e forza, in nome della giustizia e della libertà. La Siria vince, perché l’unica alternativa sarebbero state schiavitù e sottomissione, e questo non è nel lessico del popolo di qui. Il popolo siriano vince perché doveva, o affrontava l’inevitabile fine del Paese cancellando il sogno di una patria pan-araba. La Siria vincendo e, si spera, nulla in Medio Oriente sarà lo stesso. I lunghi decenni di umiliazione degli arabi sono finiti. Ora tutti “nel vicinato” guardano. Ora tutti sanno: l’occidente e i suoi alleati possono essere combattuti e fermati; non sono invincibili. Tremendamente brutali e spietati, sì, ma non invincibili. Anche le sette religiose più violenti e fondamentalisti possono essere distrutte. L’avevo già detto e lo ripeto ancora: Aleppo è stata lo Stalingrado del Medio Oriente. Aleppo e Homs, e altre grandi città siriane coraggiose. Qui il fascismo è stato affrontato, combattuto con tutte le forze e con grande sacrificio e infine scacciato.
Mi siedo nell’ufficio di un generale siriano, Aqatan Ahmad. Parliamo russo. Gli chiedo della situazione della sicurezza a Damasco, anche se lo so già. Per diverse sere e notti ho camminato per le strette strade tortuose della città vecchia; una delle culle della razza umana. Anche le donne, le ragazze, camminavano. La città è al sicuro. “È sicuro”, sorride il generale Aqatan Ahmad, con orgoglio. “Sa che è al sicuro, vero?” Annuisco. È un alto comandante dell’intelligence siriana. Avrei dovuto chiedergli di più, molto di più. Dettagli, dettagli. Ma non voglio conoscerli; non adesso. Voglio sentire ancora e ancora che Damasco è al sicuro, da lui, dai miei amici, dai passanti. “La situazione ora è molto buona. Esca di notte…” Gli dico che l’ho gatto. Che lo facevo da quando ero arrivato. “Nessuno ha più paura”, continua. “Anche nei luoghi in cui i gruppi terroristici erano soliti operare, la vita torna alla normalità… Il governo siriano fornisce acqua, elettricità. Le persone tornano nelle aree liberate. Ghuta orientale è stata liberata solo 5 mesi fa, e ora può vedere i negozi aprirsi, uno dopo l’altro”. Ho firmato diversi permessi. Prendo la foto del generale. Sono stato fotografato con lui. Non ha nulla da nascondere. Non ha paura. Gli dico che alla fine di gennaio 2019, o al più tardi febbraio, voglio andare a Idlib, o almeno nei sobborghi della città. Va bene; Devo solo farglielo sapere qualche giorno prima. Palmyra, bene. Aleppo, nessun problema. Ci stringiamo la mano. Si fidano di me. Mi fido di loro. Questa è l’unica via da seguire: questa è ancora una guerra. Una guerra terribile e brutale. Nonostante il fatto che Damasco sia ora libera e sicura.
Dopo che lascerò l’ufficio del generale, andremo a Jubar, alla periferia di Damasco. Quindi ad Ayn-Tarma. Lì, è una follia totale. Jubar era una zona prevalentemente industriale, Ayn Tarma un quartiere residenziale. Entrambi furono ridotti quasi interamente in macerie. A Jubar mi fu permesso filmare nei tunnel usati dai terroristi; dalle brigate Rahman ed altri gruppi collegati direttamente a Jabhat al-Nusrah. La scena è inquietante. Precedentemente queste fabbriche offrivano decine di migliaia di posti di lavoro alla popolazione della capitale. Ora, nulla si muove qui. Silenzio tombale, solo polvere e rottami. Il Tenente Ali mi accompagna, mentre scavalco i detriti. Gli chiesi cosa fosse successo. Rispose attraverso il mio interprete: “Questo posto fu liberato solo nell’aprile 2018. Era uno degli ultimi preso dai terroristi. Per 6 anni, una parte era controllata dai “ribelli”, mentre un’altra dall’esercito. I nemici scavarono tunnel e fu molto difficile sconfiggerli. Usarono tutte le strutture su cui potevano mettere le mani, comprese le scuole. Da qui, la maggior parte dei civili riuscì a fuggire”. Gli chiesi della distruzione, anche se conoscevo la risposta, dato che i miei amici siriani vivevano in quest’area e mi raccontavano le loro vicende in dettaglio. Il Tenente Ali confermava: “L’occidente spacciava nel mondo propaganda, dicendo che questa distruzione fu causata dall’esercito. In realtà, l’Esercito arabo siriano ingaggiava i ribelli solo quando attaccavano Damasco. Alla fine, si ritirarono dopo i colloqui sponsorizzati dalla Russia col governo”.
A pochi chilometri più a est, ad Ayn Tarma, le cose sono molto diverse. Prima della guerra, questo era un quartiere residenziale. La gente ci viveva, principalmente negli edifici più alti. Qui, i terroristi colpirono duramente i civili. Per mesi o anche anni, le famiglie dovettero vivere tra terribili paure e privazioni. Ci fermammo a un’umile bottega che vendeva verdura. Qui, mi avvicinai a una signora anziana, e dopo che lei acconsentì, la filami. Parlava, e poi urlava, dritto alla telecamera, agitando le mani: “Abbiamo vissuto qui come bestiame. I terroristi ci hanno trattato come animali. Eravamo spaventati, affamati, umiliati. Donne: i terroristi prendevano 4-5 mogli, costringendo ragazze e donne mature a cosiddetti matrimoni. Non avevamo nulla; non c’è rimasto niente!”
“E adesso?” chieso.
“Adesso? Guarda! Viviamo di nuovo. Abbiamo un futuro. Grazie; grazie, Bashar!”
Lei chiama il suo presidente per nome. Punta i palmi al cuore, e dopo averle baciate, agita di nuovo le mani. Non c’è niente da chiedere, davvero. Avevo solo filmato. Dice tutto in due minuti. Mentre partiamo, mi rendo conto che probabilmente non è vecchia; non lo è affatto. Ma quello che è successo qui l’ha spezzata. Ora lei vive; vive e spera di nuovo. Chiedo al mio autista di muoversi lentamente, e comincio a filmare la strada, rotta e polverosa, ma piena di traffico: gente che cammina, biciclette e macchine che passano, evitando le buche. Nelle strade laterali, la gente lavora sodo, ricostruisce, ripulisce le macerie, taglia le travi cadute. L’elettricità viene ripristinata. Pannelli di vetro inseriti nei telai di legno graffiati. Vita. Vittoria; tutto ciò è agre, perché così tante persone sono morte; perché così tanto è stato distrutto. Ma la vita c’è, nonostante tutto; la vita rinasce e si spera; c’è tanta speranza. Mi siedo coi miei amici, Yamin e Fida, in un classico, vecchio caffè di Damasco chiamato L’Avana. È una vera istituzione; un luogo in cui i membri del partito Baath s’incontravano, durante i vecchi e turbolenti giorni. Le fotografie del Presidente Bashar al-Assad sono esposte, in modo prominente. Yamin, docente, ricorda come doveva spostarsi da un appartamento a un altro, in diverse occasioni negli ultimi anni: “La mia famiglia viveva proprio accanto a Jubar. Tutto quello che c’era intorno stava per essere distrutto. Dovevamo trasferirci. Poi, in una nuova posizione, stavo camminando con mio figlio piccolo e un mortaio ci cadde vicino. Una volta vidi un edificio in fiamme. Mio figlio piangeva inorridito. Una donna accanto a noi ululava, cercando di gettarsi nelle fiamme: “Mio figlio è dentro, ho bisogno di mio figlio, datemi mio figlio!” In passato non potevamo prevedere da dove sarebbe arrivato il pericolo, e quando. Ho perso diversi parenti; famigliari. Ne abbiamo persi tutti”. Fida, la collega di Yamin, si prende cura dell’anziana madre, ogni giorno, quando torna dal lavoro. La vita è ancora dura, ma i miei amici sono veri patrioti e questo li aiuta ad affrontare le sfide quotidiane. Sopra una tazza di caffè arabo forte, Fida spiega: “Ci vedi ridere e scherzare, ma nel profondo, quasi tutti noi soffriamo di un profondo trauma psicologico. Quello che accadde qui fu duro; abbiamo visto tutti cose terribili e abbiamo perso nostri cari. Tutto questo rimarrà con noi, per anni a venire. La Siria non ha abbastanza psicologi e psichiatri per farvi fronte. Così tante vite sono state danneggiate. Sono ancora spaventata. Ogni giorno. Molte persone sono terribilmente scosse”. “Mi dispiace per i figli di mio fratello. Sono nati in questa crisi. Il mio piccolo nipote… Una volta fummo sotto l’attacco di un mortaio. Era così spaventato. I bambini sono davvero molto colpiti! Personalmente, non ho paura di essere uccisa. Ho paura di perdere un braccio o una gamba, o di non poter portare mia madre in ospedale, se dovesse sentirsi male. Almeno la mia città ancestrale, Safita, è sempre stata al sicuro, anche nei peggiori giorni del conflitto”. “Non è la mia Salamiyah”, si lamentava Yamin: “Salamiya fu solo terribile. Molti villaggi dovettero essere evacuati… Molte persone vi sono morte. Ad est della città c’erano le posizioni di al-Nusrah, mentre ad ovest c’era lo SIIL”. Sì, centinaia di migliaia di siriani furono uccisi. Milioni di persone costrette a lasciare il Paese, sfuggire sia ai terroristi che al conflitto, nonché alla povertà che seguiva i combattimenti. Milioni di persone furono sfollate all’interno; l’intera nazione camminava. Il giorno prima, dopo aver lasciato Ayn-Tarma, arrivammo vicino Zamalqa e Harasta. Interi enormi quartieri rasi al suolo o terribilmente danneggiati. Quando vedete i sobborghi orientali di Damasco, gli edifici fantasma senza pareti e finestre, coi fori dei proiettili che punteggiano i pilastri, pensate di aver visto tutto. La distruzione è così grande; sembra che un’intera grande città sia stata fatta saltare in aria. Dicono che questo paesaggio inquietante non cambia per almeno 15 chilometri. L’incubo va avanti all’infinito, senza alcuna interruzione. Quindi sì, tendete a pensare di aver visto tutto, ma in realtà no. Perché non avete visitato Aleppo, né Homs ancora.
Per diversi anni ho combattuto per la Siria. Lo stavo facendo dalle periferie. Riuscì ad entrare nelle alture del Golan occupate da Israele e a presentare resoconti su brutalità e cinismo dell’occupazione. Per anni seguì la vita nei campi profughi e “intorno ad essi”. Alcuni campi erano reali, ma altri vennero effettivamente utilizzati come basi di addestramento per i terroristi, che furono successivamente iniettati nel territorio siriano dalla NATO. Una volta quasi scomparvi mentre giravo ad Apayadin, una di queste “istituzioni, eretta non lontano dalla città turca di Hatay (Atakya). Ero quasi scomparso, ma in realtà altri morirono. Dire ciò che occidente e suoi alleati fecero alla Siria è pericoloso quanto seguire la guerra in Siria. Lavorai in Giordania scrivendo sui rifugiati, ma anche sul cinismo della collaborazione giordana coll’occidente. Lavorai in Iraq dove, in un campo vicino Irbil, dei siriani furono costretti da ONG e staff delle Nazioni Unite a denunciare il Presidente Assad se volevano ricevere almeno alcuni servizi essenziali. E, naturalmente, lavorai in Libano, dove soggiornarono più di un milione di siriani; spesso affrontando condizioni inimmaginabili e discriminazioni (molti tornando a casa). E ora che ero finalmente dentro, mi sembrava in qualche modo surreale, ma giusto. La Siria sembrava essere come mi aspettavo che fosse: eroica, coraggiosa, determinata e inconfondibilmente socialista.
Homs. Prima di andarci, pensavo che niente potesse più sorprendermi. Lavorai in Afghanistan, Iraq, Sri Lanka, Timor Est. Ma presto capì che non avevo visto nulla, prima di visitare Homs. La distruzione di diverse parti della città è così grave che assomiglia alla superficie di un altro pianeta, o un frammento di un film horror apocalittico. La gente si arrampica tra le rovine, una coppia di anziani che visita quello che un tempo era il loro appartamento, una scarpa di ragazza trovata in mezzo alla strada coperta di polvere. Una sedia in piedi nel bel mezzo di un incrocio, da cui tutte e quattro le strade portano ad orribili rovine. Homs è il luogo dove è iniziato il conflitto. Il mio amico Yamin mi spiegava mentre guidavamo verso il centro: “Qui, i media accesero l’odio; per lo più mass media occidentali. Ma c’erano anche i canali del Golfo: al-Jazeera, così come le stazioni televisive e radiofoniche dell’Arabia Saudita. Lo sceicco Adnan Mihamad al-Arur appariva due volte a settimana in un programma televisivo dicendo alla gente di scendere per le strade, sbattere pentole e padelle; combattere contro il governo”. Homs è il luogo in cui iniziò la ribellione antigovernativa, nel 2011. La propaganda anti-Assad dall’estero ebbe un crescendo. L’opposizione era sostenuta ideologicamente dall’occidente e i suoi alleati. Rapidamente, il supporto divenne tangibile includendo armi, munizioni e migliaia di jihadisti. Una volta città tollerante e moderna (in un Paese secolare), Homs ha iniziato a cambiare, a dividersi tra gruppi religiosi. La divisione fu seguita dalla radicalizzazione. Il mio buon amico, un siriano che ora vive in Siria e in Libano, mi raccontava la sua storia: “Ero molto giovane quando iniziò la rivolta. Alcuni di noi ebbero delle lamentele legittime ed iniziammo a protestare, sperando che le cose potessero migliorare. Ma molti di noi capirono presto che le nostre proteste furono letteralmente sequestrate dall’estero. Volevamo una serie di cambiamenti positivi, mentre alcuni capi fuori dalla Siria volevano rovesciare il nostro governo. Di conseguenza, lasciai il movimento”. Poi condiviso con me il suo segreto più doloroso: “In passato, Homs era una città estremamente tollerante. Sono un musulmano moderato e la mia fidanzata era una cristiana moderata. Eravamo molto vicini, ma la situazione in città cambiò rapidamente dopo il 2011. Il radicalismo era in ascesa. Le chiesi ripetutamente di coprirle i capelli mentre attraversava i quartieri musulmani. Era una preoccupazione, perché cominciavo a vedere chiaramente cosa stava succedendo intorno a noi. Lei si rifiutò. Un giorno, fu colpita in mezzo alla strada. L’uccisero. La vita non è mai stata più la stessa”. In occidente dicono spesso che il governo siriano fu almeno parzialmente responsabile della distruzione della città. Ma la logica di tali accuse è assolutamente perversa. Immaginate Stalingrado. Immaginare l’invasione straniera; un’invasione sostenuta da diverse potenze fasciste ostili. La città combatte, il governo cerca di fermare l’avanzata delle truppe nemiche. La lotta terribile prosegue epica per la sopravvivenza della nazione. Di chi è la colpa? Degli invasori o delle forze governative che difendono la patria? Qualcuno può accusare le truppe sovietiche di aver combattuto per le strade delle loro città attaccate dai nazisti tedeschi? Forse la propaganda occidentale è capace di tali “analisi”, ma sicuramente nessun essere umano razionale. La stessa logica di Stalingrado dovrebbe applicarsi anche a Homs, Aleppo e molte altre città siriane. Coprendo letteralmente dozzine di conflitti accesi dall’occidente in tutto il mondo (e descritti in dettaglio nel mio libro di 840 pagine “Exposing Lies Of The Empire”), non ho dubbi: la piena responsabilità della distruzione ricade sugli invasori.
Affronto la signora Hayat Awad in un antico ristorante chiamato Julia Palace. Questa era la roccaforte dei terroristi. Occuparono questo bellissimo posto situato nel cuore della vecchia città di Homs. Ora, le cose lentamente tornano alla vita, almeno in diverse zone della città. Il vecchio mercato funziona, l’università è aperta, così come molti edifici governativi e alberghi. Ma la signora Hayat vive sia nel passato che nel futuro. La signora Hayat ha perso suo figlio, Mahmud, durante la guerra. Il suo ritratto è sempre con lei, inciso su un pendaglio che indossa. “Aveva solo 21 anni, era ancora uno studente, quando decise di arruolarsi nell’Esercito arabo siriano. Mi disse che la Siria è come sua madre. Lui l’ama, come lui mi ama. Stava combattendo Jabhat al-Nusrah e la battaglia era molto dura. Alla fine della giornata mi chiamò, giusto per dire che la situazione non era buona. Nell’ ultima telefonata mi chiese solo di perdonarlo, disse: ‘Forse non ho intenzione di tornare indietro. Ti prego, perdonami. Ti amo!'” Ci sono molte madri come lei, qui a Homs, quelle che persero i loro figli? “Sì, conosco molte donne che hanno perso figli; e non solo uno, a volte due o tre. Conosco una signora che perse i due figli. Questa guerra si prese tutto da noi. Non solo i nostri figli. Ne do la colpa ai Paesi che sostennero le ideologie estreme iniettate in Siria; Paesi come gli Stati Uniti e europei”. Dopo aver finito le riprese, ringrazia la Russia per il sostegno. Ringrazia tutti i Paesi che hanno aiutato la Siria in questi anni difficili. Non lontano da Julia Palace, i lavori di ricostruzione sono in pieno svolgimento. E a pochi passi, una moschea rinnovata riapre. La gente balla, celebra. È il compleanno del profeta Muhamad. Il Governatore di Homs marcia verso i festeggiamenti coi membri del suo governo. Non c’è quasi sicurezza intorno a loro. Se l’occidente non scatena l’ennesima ondata di terrore contro il suo popolo, Homs starebbe bene. Non subito, forse non presto, ma lo sarà coll’aiuto risoluto di russi, cinesi, iraniani e altri compagni. La stessa Siria è forte e determinata. I suoi alleati sono potenti. Voglio credere che gli anni più terribili siano finiti. Voglio credere che la Siria abbia già vinto. Ma so che c’è ancora Idlib, ci sono anche le sacche occupate da forze turche e occidentali. Non è ancora finita. I terroristi non sono stati completamente finiti. L’occidente spara i suoi missili. Israele invierà la sua aviazione per brutalizzare il Paese. E i media occidentali e del Golfo continueranno a combattere la guerra mediatica, agitando e confondendo alcuni parti del popolo siriano. Tuttavia, mentre esco da Homs, vedo negozi e persino boutique che aprono in mezzo alle macerie. Alcune persone si vestono di nuovo elegantemente, per mostrare la loro forza; la loro determinazione a mettere il passato alle spalle e a vivere ancora una volta vite normali.
Tornando a Damasco, l’autostrada è in perfette condizioni e anche l’area industriale di Hasia viene ricostruita e ampliata. Mi fu detto che c’è un’enorme centrale elettrica supportata dagli iraniani. Nonostante la guerra, la Siria rifornisce ancora il vicino Libano di elettricità. Yamin guida a 120 km/h e scherziamo sul fatto che una volta che avremo paura di possibili contatori della velocità invece dei cecchini, sapremo che la situazione nel Paese migliora sensibilmente. Un convoglio militare russo è parcheggiato in un’area di sosta. I soldati bevono caffè. Non c’è paura. I siriani li trattano come se fossero dei loro. Vedo il tramonto più spettacolare, sul deserto. Quindi, ancora una volta, attraversiamo Harasta. Questa volta di notte. Voglio maledire. Io non impreco troppo facilmente. Devo mettermi al computer, presto. Devo scrivere; lavorare. Molto, al meglio che posso.
È facile sentirsi a casa in Siria. Forse perché il russo è la mia lingua materna o forse perché la gente qui sa che sono sempre stato vicino al loro Paese. Alcuni ostacoli burocratici si sono risolti rapidamente. Incontrai il Ministro dell’Istruzione uscente Dottor Hazwan al-Waz, un collega romanziere. Parlammo dei suoi scritti, del suo ultimo libro “Love and War”, confermando ciò che ho sempre saputo da romanziere rivoluzionario: “Durante la guerra tutto è politico, persino l’amore”. E poi qualcosa che non dimenticherò mai: “Il mio Ministero della Pubblica Istruzione è stato, infatti, il Ministero della Difesa”. La scorsa notte a Damasco camminavo per tutta la città vecchia, fino al mattino presto. Ad un certo punto, arrivai vicino la spettacolare Moschea degli Omayydi, trovando, proprio dietro di esso, il mausoleo del Sultano Saladino. Non potevo entrarvi. A quell’ora tarda notte era chiuso a chiave. Ma potei facilmente vederlo attraverso le sbarre di metallo del cancello. Questo coraggioso comandante e leader combatté contro gli enormi eserciti invasori occidentali, i crociati, vincendo quasi ogni battaglia, trovando pace ed ultimo luogo di riposo qui, a Damasco. Resi omaggio a questo antico internazionalista e mi chiesi, durante un caffè forte in una bancarella vicina, nel cuore della notte: “Saladino avrebbe partecipato all’ultima epica battaglia combattuta dalla nazione siriana contro le orde dei barbari stranieri?” Forse il suo spirito l’ha fatto. O più probabilmente alcune battaglie furono combattute e vinte col suo nome sulle labbra. “Tornerò”, dissi, rientrando al mio albergo, pochi minuti dopo mezzanotte. Due enormi gatti pelosi mi accompagnavano, seguendo i miei passi fino alla prima curva. ‘Tornerò molto presto’. La Siria è in piedi. Questo è ciò che conta davvero. Non è mai caduta in ginocchio. E non lo farà mai. Non permetteremo che accada. E sia dannato l’imperialismo!
*Andre Vltchek is a philosopher, novelist, filmmaker and investigative journalist. He has covered wars and conflicts in dozens of countries. Three of his latest books are his tribute to “The Great October Socialist Revolution” a revolutionary novel “Aurora” and a bestselling work of political non-fiction: “Exposing Lies Of The Empire”. View his other books here. Watch Rwanda Gambit, his groundbreaking documentary about Rwanda and DRCongo and his film/dialogue with Noam Chomsky “On Western Terrorism”. Vltchek presently resides in East Asia and the Middle East, and continues to work around the world. He can be reached through his website and his Twitter.