di Michelangelo Severgnini
Tre giorni fa, Abd al-Rahman al-Milad, conosciuto come al-Bidja, trafficante in uomini e petrolio, trasformato da Minniti in ufficiale della Guardia costiera della Tripolitania occupata, riconfermato da tutti i successivi governi italiani, è stato freddato all’uscita dell’Accademia navale di Janzour, vicino a Tripoli, in un agguato che Repubblica ha definito “mafioso”.
Giusto per chi non lo sapesse, l’Accademia navale di Janzour è gestita dall’Esercito turco e dà dimora al suo interno a diverse centinaia di mercenari siriani.
Come a dire, oltre allo stipendio da guardacoste, il Bidja arrotondava in tanti altri modi.
Aveva cominciato a distinguersi giovanottone nelle brigate anti Gheddafi del 2011.
Poi è stato uno dei principali referenti dell’Isis in Tripolitania per anni. Quando nel 2017 l’Isis viene debellato in Libia grazie all’intervento e al sangue dell’Esercito nazionale libico comandato da Khalifa Haftar, viene promosso dall’Italia a guardacoste con tanto di bella divisa bianca.
Acquisita la nuova statura istituzionale, finisce per presenziare ad incontri bilaterali con l’allora ministro Minniti, ospitati al Cara di Mineo, in Sicilia.
Come denunciato nell’Urlo, il fine di queste relazioni pericolose con al-Bidja non erano i migranti, tanto meno fermarli o rinchiuderli e vessarli.
Almeno, non era questo l’obiettivo di Minniti.
L’obiettivo era mettere in sicurezza il tacito accordo cominciato tra i governi italiani e le milizie di Tripoli all’indomani della caduta di Gheddafi circa l’acquisizione sotto banco del petrolio illegale.
Mi pare che nel libro “L’Urlo” siano mostrate già tutte le pezze giustificative a supporto di questa tesi. Poi se gli analisti e i politici concittadini preferiscono fare altro, questa è una scelta loro.
Al-Bidja, insomma, che gestiva con la sua milizia la raffineria di Zawiyah, vicino a Tripoli, doveva garantire questo flusso illegale di petrolio. Per questo fu promosso addirittura a guardacoste, come a dire: se non le vedi passare tu quelle navi non le vedrà nessuno.
I soldi e le motovedette donate dall’Italia hanno avuto sempre un solo e unico scopo: proteggere il flusso illegale di petrolio.
Dopodiché, in subordine, è stata data carta bianca sui cosiddetti migranti-schiavi, la cui sorte è stata consegnata nelle mani di milizie jihadiste, addestrate per fare le guerre della Nato per supposta persona, ormai indaffarate, schiere di ragazzini disturbati ormai irrecuperabili alla vita sociale, ai quali è stato detto: procuratevi uno stipendio sulla pelle di questi ragazzini che vogliono andare in Europa. Come poteva finire?
La conseguenza non poteva che essere quello che è successo: hanno convertito 700.000 in schiavi, li hanno comprati e li hanno venduti, li hanno caricarti fintamente sui gommoni per poi andarseli a prendere in mare con una sceneggiata, portarli a terra, sottoporli a tortura ed estorcere 4mila euro alle loro famiglie.
Il ruolo dell’Italia è stato, a quel punto, solo quello di girarsi dall’altra parte.
Ah, no, ci sono state le campagne contro “gli accordi con la Libia”, contro i “memorandum”. Solo che lo scopo di quegli accordi non era quello che veniva denunciato.
E se provavi a portare questi attivisti alle cause reali, ossia la presenza di milizie sponsorizzate dall’Occidente al fine del saccheggio del petrolio libico, ti rispondevano “non ci piacciono, ma altrimenti arriva Haftar”.
E quindi, nei fatti, con la politica del meno peggio, hanno fatto da sponda al meccanismo che per anni ha tenuto in stato di schiavitù migliaia di giovani ragazzini africani ingannati.
Non che ora siano liberi. Qualcuno nel frattempo ha raggiunto l’Italia (qualche decina di migliaia in diversi anni), altrettanti sono riusciti a tornare a casa, diverse migliaia anno perso la vita in mare, altrettanti perlomeno l’hanno persa in terra. Il resto è ancora lì sul campo in Tripolitania, sempre nelle mani delle milizie, che ne imbarcano sempre di meno, perché da quasi 2 anni il confine tra Niger e Libia è stato chiuso dall’Esercito nazionale libico e le reti non riescono più a rifornire Tripoli, che altrimenti rimarrebbe senza schiavi.
Tutti contenti dunque della morte di Abd al-Rahman al-Milad, conosciuto come al-Bidja?
Dovremmo. Eppure nell’aria non vedo tutta questa gioia che uno dei peggiori aguzzini di migranti in Libia sia stato freddato all’uscita di un edificio vicino Tripoli chiamato “accademia” ma che in realtà è una roccaforte turca che ospita mercenari siriani…
Già, perché non sono state le denunce internazionali ad arrestare e fermare Bidja. Non sono stati gli articoli di denuncia dei giornali. Non sono state le campagne delle Ong. Tutti questi erano mezzi spuntati. Utilizzati per fare teatrino e confondere le acque.
A fermarlo è stato un agguato, per ora non rivendicato. Può essere stato chiunque tra questi soggetti: una milizia rivale di Tripoli, i servizi dell’Esercito nazionale libico guidato da Haftar, la Wagner direttamente.
Comunque sia, la morte di Bidja viene da Est, non da Nord. Come già raccontato, il 13 agosto scorso la Casa dei rappresentanti, il parlamento libico, da Bengasi ha mandato un messaggio chiaro a Tripoli: la pazienza è finita. Il panico si sta diffondendo a Tripoli al punto che la Banca centrale è stata poi occupata dalle milizie e con un colpo di mano il 19 agosto è stato destituito il governatore Sadiq el-Kebir.
Questo atto insulso e sovversivo ha spinto il governo di Bengasi a bloccare le estrazioni di petrolio in Libia. Non è più il tempo degli scherzi.
Chiusi i rubinetti, Tripoli muore di sete. Non arrivano più migranti, non arriva più petrolio. A Tripoli il vento sta cambiando e uno dei primi a farne le spese è stato al-Bidja. Con lui finisce un’era. Finalmente.
Il motivo della fine non arriva per l’intervento di un tribunale occidentale, né di un governo occidentale, né di una campagna coltivata in Occidente. L’Occidente in questi anni ha gettato solo fumo negli occhi perché al contrario personaggi come Bidja sono stati il necessario perno di tutte le sue politiche.
La fine di Bidja è arrivata, perché il popolo libico spinge per riprendersi la propria sovranità.
La fine di Bidja è arrivata solo ora perché con quel “altrimenti arriva Haftar” tutto l’Occidente in questo ultimo decennio l’ha protetto, facendogli le pernacchie sostanzialmente, ma assicurandogli lunga vita grazie al sostegno all’occupazione di Tripoli ribattezzata Governo di Unità Nazionale per le anime pie. Quello che ieri, ai funerali di Bidja, era in prima fila a tributargli tutti gli onori, da Dabaiba ad al-Manfi e al-Lafi.
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