di Daniele Lanza
IL NODO DI GORDIO
Le difficoltà nel tormentato processo di negoziazione della crisi in corso hanno molteplici cause: una di esse, - direi quella cardine, ma che stenta ad imporsi nella narrativa d’occidente - si colloca nella più intima sfera della società ucraina ed è qualcosa che inibisce dal comunicare propriamente col vicino russo.
Si potrebbe quasi affermare che l’attuale classe politica di questo paese – al potere da oramai molti anni – è quasi ontologicamente inadatta (per sua stessa natura cioè), inadeguata al dialogo con Mosca. Questo si deve ad un genoma ideologico del tutto anomalo rispetto all’Europa di cui vorrebbe – paradossalmente – fare parte, denso di elementi identitari le cui origini variano a seconda di luogo e tempo, ma che prese tutte assieme vanno a comporre l’agglomerato che chiameremo “nazionalismo ucraino”.
L’espressione ultima è evocata continuamente in questi giorni (intensità massima da parte russa e minima da parte occidentale) tanto da risultarne quasi banalizzata.
Cerchiamo di fare un minimo di chiarezza sulla questione ora.
Premessa:
A beneficio di chi legge e ad onore della verità – a prescindere da come ci si rapporti al nazionalismo ucraino nello specifico – occorre innanzitutto ricordare un dato essenziale che concerne il contesto più ampio : si intende dire che l’intera Europa orientale, presa nella sua totalità, vede una maggiore frequenza di tali fenomeni nazionalistici e identitari rispetto alla zona più occidentale dell’Europa. L’elenco di sigle e correnti (parlamentari e non) distribuite su tutto l’arco di paesi dell’ex patto di Varsavia sarebbe lungo: si inizia dalle provincie dell’ex Germania orientale coi suoi rigurgiti neonazisti, ai nazional-cattolici polacchi, per poi dirigersi a nord tra i paesi baltici che commemorano le proprie formazioni SS durante l’ultimo conflitto mondiale e invece a sud, nei Balcani, lo strabiliante particolarismo etno nazionalista emerso sin dalla conclusione del sistema socialista nei primissimi anni 90. L’Ucraina non fa eccezione, ma anzi rientra in tutto nella media di un quadro molto più vasto, potremmo anche dire di un brodo di coltura comune.
Le ragioni autentiche di questo brodo di coltura – volessimo indagarne le radici ultime – sono antiche e vanno ben oltre gli slogan e i gesti ispirati ai regimi totalitari del XX secolo che tutti conosciamo: il fatto centrale è che il quadrante più orientale d’Europa vede un percorso di sviluppo sociopolitico differente rispetto al suo analogo occidentale già a partire dalla tarda età moderna e per tutta quella contemporanea (gli ultimi 250 anni). Mentre l’Europa occidentale, affacciata all’Oceano si lancia nella sua conquista del mondo forgiando imperi oltremare di dimensioni continentali che vanno ad investire giocoforza altri contesti geografici e culturali (e venendone a loro volta influenzati), viceversa gli stati e le società dell’oriente europeo, fisicamente limitati in questo senso, ovvero sprofondati in un loro isolamento continentale, mantengono e sviluppano una visione più autoctona del mondo. Per esprimerla in altre parole, l’est Europa percorre un sentiero divergente rispetto al processo di globalizzazione capitanato dal fulcro anglo/franco/ispanico che già prende forma nei secoli dell’età moderna (il cui prodromo sono le scoperte geografiche che mettono fine al medioevo, per andare ancora più indietro).
Individuiamo quindi in questo primo momento – che si dispiega nel corso di secoli – il primo tassello di una differenza evolutiva profonda nella sfera psicosociologica di est e ovest europeo : se è vero che i nazionalismi emergono tanto ad occidente quanto ad oriente è utile notare che il carattere più duro e premoderno lo mantengono quelli d’oriente, meno abituati al confronto col cosmopolitismo che avviene nel corso del tempo per chi si affaccia all’Oceano nella sua conquista coloniale planetaria (considerazione che sfiora l’elementare eppure trascurata).
A questo macro fattore si assomma inoltre una divergenza sostanziale data dall’imperfetta sintonia tra evoluzione delle strutture politiche e della psiche collettiva (comparativamente). Proviamo a spiegarci più chiaramente: la diversità di fondo di cui si è parlato si mantiene anche entrando nell’età contemporanea e anzi si accentua proprio in concomitanza con gli eventi cardine che inaugurano il XIX secolo, quando il fenomeno della grande rivoluzione (“Rivoluzione francese” sui nostri manuali) ridefinisce il concetto di nazionalità nella cultura europea, donandole un carattere civile, che combacia col concetto legale di stato. Tale “nazionalismo civico” posteriore al 1789 si diffonde al di fuori della Francia durante l’era napoleonica lasciando in tutto il continente la propria eredità, non priva tuttavia di un’asimmetria profonda che emergerà nel secolo a seguire: nel contesto occidentale il vibrante risveglio delle identità nazionali riesce in qualche modo a svilupparsi e ramificarsi in sinergia con le strutture dello stato contemporaneo (parlamentare, via via democraticizzato col passare delle generazioni) mentre ad oriente il risveglio identitario in questione è un fenomeno che si manifesta al di fuori di un forte e condiviso contesto statale, essenzialmente indipendente dall’idea di statalità: questo è naturale se si considera la parcellizzata natura degli imperi multinazionali nell’Europa centro-orientale del XIX secolo. Al reazionario paternalismo di questi ultimi – contestato dai più, prima e dopo - va a sostituirsi la tempesta imprevedibile dell’etnia quindi.
Un nazionalismo popolare, scisso (o non ben amalgamato) dal più secolarizzato e organizzato concetto di istituzioni, che vede il primato dell’ETHNOS rispetto allo STATO: un arcaico diritto del sangue che prescinde/pervade quello civile.
Questo è quanto oggi chiamiamo ETNONAZIONALISMO, nel gergo comune.
Non è un caso se si usa tale parola per riferirsi preferibilmente ai fenomeni identitari nell’Europa orientale contemporanea: espressione pressoché assente nel frasario abituale fino ai conflitti balcanici dei primissimi anni 90 vivi ancora nella memoria di tutti (anche se in realtà lo si può usare retroattivamente per tutti i frangenti storici che vedono insorgenze etniche negli ultimi secoli). Rispetto al “nazionalismo civico” che tende a promuovere un patriottismo istituzionale basato sulla ricerca dell’unità, l’etnonazionalismo si definisce al contrario nel conflitto contro il diverso da sé, contro la “tribù differente” che ci è vicina.
IL CASO UCRAINO
Abbiamo descritto in linea di massima e con una certa libertà interpretativa la divergente genesi del nazionalismo per quadranti d’Europa (Est-Ovest), cercando di spiegare come e perché gli etnonazionalismi tendono a manifestarsi maggiormente verso Est.
Si è concluso ricordando come anche il caso ucraino rientri in questa fattispecie, con l’unica differenza delle dimensioni territoriali e demografiche: vediamo ora di approfondire e andare al cuore del problema.
In molti altri interventi si è cercato di realizzare quasi l’impossibile tracciando un quadro chiaro di cosa sia l’identità ucraina : questa – al pari di quella bielorussa – nasce dal medesimo brodo primordiale di tutti gli slavi orientali, i RUTENI, la popolazione nativa della RUS medievale. Il suo disfacimento nel XIII secolo determina faglie di divisione tra quello che un tempo era un unico grande popolo: da quel momento i differenti tronconi della popolazione rutena verranno sottoposti a differenti processi di acculturazione. Ad oriente si trasformeranno pian piano in “russi” sotto lo scettro dello ZARATO di Mosca (venivano infatti chiamati moscoviti, identificandoli col potere centrale del proprio stato). Lo zarato, come sappiamo, appena raggiunta la propria unità pan-russa, si lancia alla conquista delle aree geografiche circostanti in tutti punti cardinali incassando una serie di successi nel corso del tempo che ampliano enormemente la propria superficie geografica rispetto alla gran parte degli stati coevi: questo si rivela in un certo qual modo più fattibile verso oriente, data la scarsa densità demografica e lo stato d’arretratezza dell’opponente (potentati tatari di varia entità) che non ad occidente, dove si afferma un protagonista di forza allora equivalente, come il regno di Polonia/Lituania.
Il problema – già descritto – è dunque questo : sebbene lo zarato di Mosca (di Russia dal 1547) si presenti, sia considerato, come più legittimo successore dell’antica RUS, tale successione è in realtà asimmetrica. Lo zarato riunisce solo una parte della Rus ossia tutti i territori ex tributari dei khan tatari, i quali poi ne saranno fatalmente rovesciati (da Kazan ad Astrakhan): in parole altre la RUS “rinasce” sì, ma indefinibilmente trasfigurata concettualmente rispetto a prima sul piano della collocazione su un asse Occidente-Oriente. Lo stato di Ivan IV è una creatura il cui baricentro è più spostato ad oriente rispetto alla Rus di svariati secoli prima: la fase di dominazione tatara costituisce un tassello di portata non calcolabile in questa trasformazione culturale che porta all’emergere dei “russi” che si affacciano alla prima età moderna. Lo stesso non avviene in quella fascia di territorio RUS rimasta illesa dalle incursioni mongole, ma al contrario sottoposta a una lenta colonizzazione culturale di parte polacca.
Il punto è semplice nella sua complessità: mentre i ruteni d’oriente diventano “russi” nella loro lunga riconquista medievale contro il nemico tataro, quelli d’occidente non si evolvono in tale direzione essendo sottoposti a un differente genere di ombrello culturale. Una massa autoctona che – sotto dominazione feudale polacca – continua portare l’antico appellativo di RUTENI (si potrebbe mettere nel seguente modo: mentre ad oriente i ruteni vivono un esteso processo sociopolitico di crescita ed affermazione - in opposizione alla grande orda – intriso di tragedia e gloria, tale da determinare una metamorfosi anche sul piano terminologico (“russi”) i propri analoghi ad ovest non passando attraverso il medesimo crogiolo - quanto sotto il più blando e stabile feudalesimo europeo di matrice polacca – risulta in un certo senso sospeso temporalmente alla beata calma della defunta RUS, conservando addirittura inalterato l’etnonimo ruteno di centinaia di anni prima.
In definitiva i russi sono ruteni la cui identità si è evoluta in funzione delle circostanze storiche che li vede lottare contro l’avversario tataro sotto i vessilli della Moscovia; la moltitudine di ruteni che popolava i territori corrispondenti alle attuali Bielorussia e Ucraina altro non sono che lo stesso popolo (cui si sottrae la drammatica esperienza storica del primo).
Occorre attendere il 17° secolo per vedere una scintilla che alteri la staticità del quadro: si parla della sollevazione capitanata da Khlemintskij (1654), ma notiamo che anche in questo caso non la si descrive col nome di “rivolta ucraina”, quanto di “rivolta cosacca” (i cosacchi non rappresentano che una frazione di tutta la popolazione rutena esistente all’epoca e deteneva un’identità/status distinto), per quanto a posteriori, retroattivamente, le si attribuirà un carattere nazionale ucraino.
La frattura del dominio polacco lungo le rive del Dnpr è efficacemente sfruttata – come la storia ci insegna – dallo zarato di Mosca (dinastia Romanov all’opera) che sfruttano a proprio vantaggio l’evento per erodere dalle fondamenta l’areale d’influenza dei monarchi di Polonia, creando un temporaneo stato cosacco che sarà quindi inglobato nello zarato (fin qui ci siamo già, penso). Occorre aspettare un altro secolo perché anche la zona ad ovest del Dnpr venga inglobata dall’impero russo al tempo della spartizione della Polonia (1772).
Il quadro – su un piano identitario – è quantomai ambiguo a questo punto: tanto i russi quanto i ruteni (futuri bielorussi/ucraini) sono lo stesso popolo, abbiamo detto, benché evolutosi secondo percorsi diversi. Ora, entro la tarda età moderna (16/17° sec.) i ruteni rientrano sotto l’egida politica di Mosca, prima zarato e poi impero: non è la soluzione ideale? Popoli di comune ceppo che si ritrovano anche sotto lo stesso scettro? Per una volta ETHNOS e STATO coincidono e possono crescere assieme.
Eppure, anche così non è semplice. Malgrado il comune ceppo etnico, malgrado un potere politico unico, non si cancellano 4/500 anni di divisione così densi di avvenimenti: quello che prende vita non è una perfetta omogenizzazione, ma piuttosto un’unità nella differenza. Prestare attenzione: l’ultima espressione può essere fuorviante, nel senso che può essere utilizzata per descrivere un unico ombrello politico per popoli assai diversi tra loro (tedeschi-italiani oppure anglosassoni-afroamericani), ma in questo caso si tratta di una diversità di grado minore, quella che intercorre tra civilizzazioni gemelle. Occorrerebbe implementare l’espressione facendola suonare “Unità in armonica diversità” perché si sta parlando di diversità compatibile.
Storicamente lo stato russo NON riesce a russificare in modo totale questi suoi ruteni, malgrado parrebbe cosa facile considerato l’alto grado di somiglianza culturale: li integra pienamente di certo, ma non fino allo stadio di far loro dimenticare che sono stati qualcosa di diverso rispetto alla Russia di Mosca un tempo (gli strati della psiche collettiva e i suoi insondabili labirinti sono la vera chiave qui). Essi sono sudditi dell’impero e slavi come i russi, sono quasi russi (quasi): qualcosa però li fa sentire più ad ovest che il russo standard. Da questo sentire inizierà il risveglio del secolo XIX analogo a tanti altri popoli del continente europeo. Viene il tempo di Taras Shevchenko (uno dei padri spirituali della nazione ucraina) e il termine “Ucraina” – già esistente da tempo – inizia ad assumere un significato assai più forte che in passato: inizia a indicare una precisa identità nazionale in opposizione alle altre circostanti (il “sé” si definisce sempre in opposizione a ciò che non è “sé”).
Anche questo percorso tuttavia NON è semplice! Sì, perché definire il “sé” in opposizione a cosa non lo sia è più lineare quando i popoli che ti circondano sono decisamente differenti da noi: nel caso ucraino/russo(e bielorusso) il popolo che vuole distinguersi dai suoi vicini, ha a che fare con vicini che sono assai simili a sé! Costruire una linea di divisione può essere complesso: quando lo straniero è quasi come te, come e dove porre il confine? (territoriale, ma soprattutto psicologico). Tra tutti i popoli di cui era composto l’impero zarista, il comparto Bielorussia/Ucraina è quello che da meno problemi (comparativamente a casi come la Finlandia o Polonia o Caucaso): occorre aspettare l’onda sismica del 1917 per vedere emergere una realtà nuova e assieme ad essa il germe che vediamo ancora oggi (siamo all’etnonazionalismo cui ho fatto cenno).
Cogliere la vera natura del caso russo/ucraino è quindi complicato e si sbaglia nel valutarlo cadendo in opposti estremismi. Due sono i soggetti che sbagliano
1-sbaglia l’oltranzismo zarista (chiamiamo così l’atteggiamento più reazionario del nazionalismo russo) che nega con ingenuità ed arroganza l’esistenza di un’identità a parte per questa parte di slavi orientali un tempo “ruteni” e oggi ucraini e bielorussi. Non si vuole capacitare che mezzo millennio di divisione – malgrado la profonda comunanza – abbiano lasciato dei segni e delle conseguenze nel più totale processo di etnogenesi.
2- sbaglia l’”oltranzismo della giustizia” oggi capitanato dal mondo occidentale che interpreta in modo riduttivo l’insorgenza ucraina alla stregua di un qualsiasi conflitto coloniale (dei tanti) che vede contrapposti un dominatore e una vittima, sorvolando completamente (e follemente) sul grado di parentela che in questo caso intercorre tra le due entità, fattore questo che nulla può cancellare.
In conclusione (nella prospettiva del sottoscritto): non si può – a onore di coscienza – affermare che le forze russe facciano una passeggiata di diritto nel proprio giardino, ma al tempo medesimo non si può neppure paragonare il tutto ad un residuo di imperialismo da parte russa. La verità, se si riesce ad interpretare la storia col metro del lunghissimo termine, è che il processo in corso sotto gli occhi di tutti, ha le sembianze di una grande GUERRA CIVILE non in seno ad un singolo stato, ma entro la cornice di un cosmo culturale -quello slavo orientale – approdato al secolo XXI nuovamente frastagliato. Una guerra civile che non riguarda una singola nazione (come l’espressione pretenderebbe), ma più di una: una “guerra civile sovranazionale”. Labirinti della semantica.
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