Un nuovo capitolo di una vicenda vecchia
La polemica antiparlamentare è stata un leitmotiv nel corso della storia italiana. I nemici di Senato e Camera si scagliarono contro le due istituzioni subito dopo la loro nascita nel 1848, anno della promulgazione dello Statuto Albertino. Con il passaggio alla Repubblica parlamentare del 2 giugno 1946 la polemica contro il Parlamento acquisì forza in parallelo al Parlamento stesso. Tuttavia le vette dei giorni nostri sono state toccate raramente. Il referendum sul taglio dei parlamentari è sintomatico della disaffezione dei cittadini per coloro che occupano i banchi a Montecitorio. Un allontanamento dovuto soprattutto ai sentimenti di antipolitica (descritti con più precisione in questo articolo https://unaltropuntodivista.altervista.org/democrazia-azzoppata/) e ai disastri di una classe dirigente di livello infimo. A ciò si aggiunge il cambiamento della politica stessa con la crescita incontrollata, a partire da Berlusconi, del personalismo e dell’uniformità a discapito delle idee e della progettualità. Con la salita al potere di Draghi il Parlamento ha prestato il fianco ai suoi denigratori. L’ex alto dirigente di Goldman Sachs ha infatti ottenuto l’appoggio incontrastato di Confindustria e opinione pubblica, avendo credito illimitato da partiti, Camera e Senato.
Dopo l’Unità
Secondo lo Statuto Albertino il Parlamento era un organo essenzialmente consultivo, con limitati compiti legislativi e nessuna influenza sul governo. L’esecutivo era infatti responsabile nei confronti del re che era anche colui che lo nominava. Fu con Cavour che il Parlamento ottenne più importanza, sfruttando l’elasticità del rachitico Statuto Albertino. Da metà anni ’50 dell’800, e in particolare dopo la crisi Calabiana, il governo non poteva andare avanti senza una solida maggioranza parlamentare. Questa nuova consuetudine, perché di consuetudine si trattava vista l’assenza di tale prerogativa nello Statuto, incontrò molte resistenza, sia politiche sia culturali. Il Parlamento divenne ancora più centrale con l’ascesa della Sinistra Storica. Essa salì al potere con una sorta di rivoluzione parlamentare infatti. Fu Crispi che andò controcorrente cercando di rafforzare il potere del presidente del Consiglio, in diretto contatto con il re. Fu proprio durante l’età crispina che l’antiparlamentarismo si diffuse in maniera massiccia seguendo soprattutto due direttrici: la cultura e la politica.
Dal punto di vista culturale furono numerosi i lavori che avevano al loro centro una critica a ciò che era diventato il Parlamento. Scipio Sighele, nazionalista e psicologo di fama europea, scrisse nel 1895 un libello intitolato “Contro il parlamentarismo”. Sighele riteneva indispensabile Camera e Senato ma la natura collettiva dell’istituzione bloccava la genialità individuale. Echi anti-parlamentari si possono percepire anche nel pensiero di Lombroso. Il delitto politico era fatto risalire ai mali del parlamentarismo.
Tuttavia fu particolarmente fecondo il genere letterario del romanzo parlamentare. Questa particolare forma di letteratura ha la sua origine con il libro di Petruccelli della Gattina “I moribondi di Palazzo Carignano”. Il Petruccelli era un ex mazziniano, poi liberale e convinto anticlericale. Egli riteneva i politici affaristi e il Parlamento un luogo di scontro tra gli interessi della patria e quelli personali con i secondi che spesso prevalgono sui primi. Ci fu poi Matilde Serao con il suo “La conquista di Roma” del 1885. Il titolo rimandava ironicamente alla presa di Roma del 1870. La vera conquista della capitale d’Italia era stata, secondo l’autrice, ad opera dei politici. La sfrenata ambizione ammorbava il Parlamento, luogo inquinato dall’affarismo e dall’immoralità che caratterizzava l’intera vita politica romana. Temi simili si trovavano anche ne “Il diamante nero” edito nel 1897 e scritto da Anton Giulio Barrilli. Tra i più famosi esponenti del romanzo parlamentare ci fu Federico de Roberto. Quest’ultimo dedicò due lavoro al tema: nel 1894 “I viceré” e nel 1925, pubblicato postumo, “L’imperio”. La critica al parlamentarismo era molto aspra. Il Parlamento infatti era visto come un’istituzione futile e schiava del trasformismo che ne distrugge la reputazione e l’efficacia. Anche Gabriele D’Annunzio fu un grande nemico del Parlamento. Il Vate percepiva Camera e Senato come simbolo della decadenza politica, in contrapposizione alla vitalità delle masse, soprattutto quelle socialiste, che si muovevano nelle piazze italiane. Ma in questa fase la contrapposizione al Parlamento, che sta guadagnando potere nonostante la ventata reazionaria di fine secolo, è anche e soprattutto politica.
Centrale è il 1897, anno della pubblicazione dell’articolo “Torniamo allo Statuto” del deputato Sidney Sonnino. L’ex ministro delle finanze del governo Crispi attaccava frontalmente la consuetudine, e non la legge, che assegnava più potere al Parlamento rispetto a quanto stabilito dallo Statuto Albertino. Sonnino scriveva il suo famoso articolo in un momento in cui l’ala conservatrice andava alla ribalta. L’Italia si trovava al centro di turbolenze sociali importanti, si parlava addirittura di stato d’assedio e ampi settori del ceto dirigente richiedevano il ritorno alla centralità del sovrano, e del governo sua diretta emanazione, contro il Parlamento. Sonnino si poneva alla testa di questo movimento che però venne sconfitto dalle capacità di Giolitti e dalla sua svolta liberale di inizio secolo. Le critiche del deputato toscano si concentravano sul Presidente del Consiglio, considerato troppo indipendente dal sovrano e troppo dipendente dal Parlamento. Lo stesso strumento della fiducia era totalmente da rigettare, l’esecutivo doveva rimanere responsabile sono nei confronti del re. Ma critiche arrivarono anche da un “anarchico conservatore” come Giuseppe Prezzolini e dal suo giornale letterario “La Voce”. Anche “Lacerba” di Papini riteneva il Parlamento simbolo del Risorgimento tradito e incolpava i governi borghesi di questa degradazione. Critiche “da sinistra” arrivavano anche da Gaetano Salvemini. Storica la sua definizione di Giolitti, campione del parlamentarismo, e definito “ministro della malavita”.
Tra le due guerre
Il golpe bianco che spinse l’Italia nella Prima Guerra Mondiale fu un duro colpo per il Parlamento. Come la grande maggioranza della Nazione, anche deputati e senatori erano contrari all’entrata in guerra. Tuttavia l’azione concertata, e segreta, di Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele III trascinò un Parlamento e una popolazione riluttante in una carneficina che pochi volevano. La Grande Guerra vide la centralizzazione delle decisioni politiche nelle mani di governo e re. Il Parlamento infatti era chiuso e la dialettica politica annullata. Finita la Grande Guerra, la classe dirigente liberale si trovò in affanno davanti all’ascesa delle masse. Nacque il partito comunista e quello fascista, entrambi contrari al Parlamento anche se per ragioni diametralmente opposte. Il PCd’I riteneva le istituzioni borghesi oppressive nei confronti del proletariato mentre il PNF era nemico del Parlamento in quanto luogo di affarismo e di distruzione delle potenzialità popolari. Con il Biennio Rosso la paura per una rivoluzione in stile sovietico in Italia spinse le forze borghesi e alcuni settori dei liberali nelle braccia del fascismo di Mussolini. Il futuro duce, dopo la marcia su Roma e la rivoluzione del vagone letto, tenne il famoso discorso del bivacco. Il 16 novembre 1922 le sue parole risuonarono come l’apice dell’antiparlamentarismo: «Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.» A queste parole, il deputato socialista, poi socialdemocratico, Modigliani rispose con “Viva il Parlamento!”. Ma era il requiem dello Stato liberale. Dopo la secessione dell’Aventino e le leggi fascistissime del 1925/1926, la Camera fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. Nei fatti, inoltre, il Parlamento venne svuotato da ogni potere in favore dell’artificio istituzionale del Gran Consiglio del Fascismo. La situazione, ovviamente, cambia in maniera radicale dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La prima Repubblica
Dopo il referendum vittorioso del 2 giugno, i Padri Costituenti optano per la Repubblica Parlamentare. L’obiettivo è evitare che emergano uomini forti all’interno della scena politica italiana. Ma, insieme all’importanza del Parlamento, crescono anche i suoi nemici. La polemica antiparlamentare si coagula attorno a due temi: il presidenzialismo e l’avversione alla partitocrazia.
Sostenitori del presidenzialismo era già presenti all’interno della Costituente. Questi ultimi erano influenzati da Carlo Costamagna, sostenitore del fascismo fino all’8 settembre 1943 e poi fondatore del Movimento Sociale Italiano. La sua posizione rimase però minoritaria. Anche alcuni presidenti della Repubblica vennero sedotti da pretese presidenzialiste. In primis Gronchi e Segni. Una delle caratteristiche dei sostenitori di questa architettura istituzionale era la trasversalità. Ciò viene dimostrato nel 1964 quando viene fondata l’Unione Democratica per la Nuova Repubblica. L’ispirazione era gollista e il fondatore fu Rodolfo Pacciardi, leader dei Repubblicani, ex ministro della Difesa e più volte deputato. La sua Unione era fortemente presidenzialista e in più di un’occasione venne collegata a progetti golpisti. Pacciardi, espulso dal PRI in quanto contrario al centrosinistra, preparò anche un appello in favore del presidenzialismo che venne firmato da diversi esponenti di vari partiti. C’era il generale Cadorna e il professore Caronia della Democrazia Cristiana, era liberal-azionista Mario Vinciguerra mentre socialista, poi socialdemocratico, era Ivan Matteo Lombardo. Tra i firmatari c’erano anche comunisti come Tommaso Smith e giornalisti schierati a destra come Giano Accame. Il presidenzialismo infatti, per quanto trasversale, trovò terreno fertile soprattutto a destra. Paradigmatico fu il congresso dell’MSI tenuto a Napoli nel 1979 dove Almirante sostenne la necessità di abbandonare la Repubblica parlamentare per abbracciare il presidenzialismo. “Discendente” di Almirante fu Gianfranco Fini, anch’egli grande sostenitore di una riforma costituzionale con cui il Presidente della Repubblica avrebbe guadagnato potere.
L’altro grande tema attorno a cui si raccolse l’antiparlamentarismo fu l’anti-partitocrazia. “Partitocrazia” fu un termine coniato da Roberto Lucifero, liberale ma eletto alla Camera con i monarchici, e reso comune da Giuseppe Maranini. Egli era un giurista, convinto sostenitore della necessità di una maggiore presenza del Presidente della Repubblica nella vita politica, contro l’eccessiva influenza dei partiti. Grandi nemici dei partiti erano i radicali e afflati anti-partitocratici c’erano anche tra i repubblicani. Testimonianza ne è la proposta di Bruno Visentini, esponente di punta del PRI. Visentini proponeva governi istituzionali con il Presidente della Repubblica che sceglieva autonomamente e direttamente il presidente del Consiglio. Longo e Berlinguer si mostrarono interessati a questo progetto ma non lo sostennero direttamente. Anche Giuliano Amato, mischiando presidenzialismo e anti-partitocrazia, riteneva il presidenzialismo “superamento dello Stato dei partiti”.
Conclusione
La storia dell’antiparlamentarismo è lunga e densa di personaggi. Ciò che colpisce è la diversa origine dei vari nemici di Camera e Senato: letterati, psicologi, monarchici, fascisti, comunisti e repubblicani. L’istituzione è particolarmente vituperata e attaccata in questi anni dove l’antipolitica ha distrutto la partitocrazia e fatto tornare in auge il presidenzialismo, sostenuto in primis dalla Meloni che è la leader di quello che è virtualmente il primo partito italiano. Tempi difficili attendo Camera e Senato, considerati sempre più come luoghi di corruzione e divisione. E allora occorre che si faccia una lotta di retroguardia e, facendo la parte dei Sonnino, si affermi con forza di tornare alla Costituzione. Ad oggi è una tra le iniziative più progressiste che si possono fare in Italia.
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