di Leandro Cossu - La Fionda
«… Cosa c’è di più glorioso che mangiare filetti di sogliola Bragation attraversando Laroche-Migennes?»
Si è ironizzato molto sulla proposta di Fratelli d’Italia riguardante una multa fino a 100mila euro per l’uso di parole straniere nella pubblica amministrazione.
Come da uso italico, il sarcasmo si è però rivolto contro una lettura di questa iniziativa che non solo non era quella dei proponenti, ma avrebbe finito, paradossalmente, per nobilitarla. Per quella minoranza (sottolineiamo: minoranza) di giovani plasmati dall’Anglosfera, e desiderosi di ostendere il capitale simbolico a essa correlata, si tratterebbe di un sacrilegio pagare cashless senza poterlo chiamare cashless, partecipare a un global climate strike senza poterlo chiamare global climate strike, e simili. Significante e significato diventano a loro volta il significante di qualcos’altro: a essere ostentata è la sudditanza culturale e politica agli Stati Uniti, e simili proposte minerebbero in sé la possibilità di una simile προσκ?νησις spirituale e della totale abnegazione della propria volontà a favore di quello che l’algoritmo di Instagram indicherà loro come verità numinosa e urgenza improrogabile[1].
Ora, abbiamo detto che non erano queste le intenzioni della proposta del partito di Giorgia Meloni, il cui governo, al netto delle questioni di costume, è indistinguibile economicamente e geopoliticamente all’ipotetico governo Letta II – proprio perché legittimato dalla totale e volonterosa sudditanza al vincolo euro-atlantico. In realtà avrebbe dovuto suscitare ironia questa domanda: come è possibile che un governo che sta basando molto in termini comunicativi sulla retorica nazional-patriottarda abbia intitolato un ministero (e stia insistendo tanto sul concetto) di made in Italy? Per capire in che modo questa contraddizione apparente sia in realtà un momento rivelativo, più che del governo, della fase storica in cui ci troviamo, dobbiamo salire – per alcuni, tornare – sul vagone ristorante di un treno, accompagnati niente di meno che da Roland Barthes.
La mia solida edizione Einaudi di Miti d’oggi di Roland Barthes (una annotazione a matita mi ricorda di averlo letto durante il primo mese di lockdown) contiene, in appendice, dei testi scritti dal semiologo francese per Lettres nouvelles. Tra questi, appunto, Vagone ristorante: in tre pagine il nostro decostruisce l’esperienza di mangiare su un treno della compagnia Cook[2]. Si tratta di una questione paradossale, in quanto «il viaggiatore consuma nel cuore del viaggio tutto ciò che, costitutivamente, s’oppone al viaggio stesso». Da qui appunto la scommessa della compagnia: «mascherare – con un complesso protocollo di attenzioni – la contingenza» del pasto. Sostituire la necessità con una simulazione di libertà, dando l’illusione di aggirarne i limiti costitutivi. Gli esempi che Barthes fa sono molteplici: dall’abbondanza di biancheria nella ristrettezza dello spazio al «miraggio di solidità» che ogni oggetto ostenta per nascondere «la propria semplice natura di utensile». La sostituzione mitica del ristorante di lusso viene portata avanti anche verbalmente, in quanto
«anche il menu obbedisce a quella legge della soprannominazione che definisce la cucina di lusso; i piatti hanno nomi tanto più prestigiosi quanto più fuoriescono da posti oscuri, accompagnano periferie, stazioni di smistamento; è il trionfo della libertà sulla necessità: cosa c’è di più glorioso del mangiare filetti di sogliola Bragation traversando Laroche-Migennes? Nel vagone ristorante, nulla è senza nome: la cottura con l’acqua diventa fatalmente alla mugnaia, il saltato cocotte, il passato di fecola crema portoghese»
Barthes dice chiaramente che questo trionfo della libertà è un barocchismo. In fin dei conti, una «rappresentazione dell’inutile» strutturalmente contraddittoria, in quanto messa alla prova proprio dalla contingenza del pasto mediata dall’aspetto materiale, tecnico e organizzativo (come, per esempio, ritmo delle ondate con cui deve seguire ogni portata, o lo stesso atto di razionamento della porzione). Alla fine, conclude Barthes, a esserci stato venduto non è stato tanto un pasto di lusso, quanto lo spettacolo di una «immobilità trasportata» in cui il movimento del viaggio rimane pur sempre percepito, ma viene sublimato come contorno alla simulazione di immobilità che tutto il cerimoniale retorico prova a inscenare.
Limitiamoci ora all’aspetto verbale magistralmente delineato da Barthes nella descrizione del baccanale sillabico del menù del vagone ristorante. Proviamo a riconoscerlo nella società intorno a noi: dai nomi sempre più pomposi dei corsi di laurea fino a quello dei ministeri. Si tratta di una banale analogia con quanto scritto da Barthes riguardo ai treni Cook: per citare Umberto Eco, un «modo di reiterazione dell’effetto, compiuto con mezzi alquanto primitivi, capaci tuttavia di complicare con suggestioni foniche la imprecisione delle referenze, materiando la reazione fantastica attraverso un fatto uditivo»[3]. Solo che, mentre qua l’allievo di Luigi Pareyson prova a ricostruire le modalità con cui un semplice accumulo fonetico, a parità di referenza, poteva aprire l’interpretazione di un testo a una sua lettura estetica, in questo caso abbiamo un occultamento del nulla. Al corso di laurea col nome pomposo seguono formalità burocratiche e una preparazione scadente e poco strutturata: un assaggio di tutto, in sequenza, proprio come dentro al vagone. Nel nome Ministero delle Imprese e del Made in Italy, “Made in Italy” non è un forestierismo, ma il nome di una pietanza che inscena la stessa identica simulazione di libertà che occulta il grigiore burocratico e la sequenza razionalizzata, ed è quindi perfettamente coerente con la retorica patriottarda denunciata all’inizio. Il ministero è lo stesso di prima, continuerà con le stesse politiche degli ultimi quarant’anni, e le industrie continueranno a fabbricare lo stesso mobile in compensato di sempre, o la stessa cintura di lusso in pelle di coccodrillo.
Potremmo spingerci oltre e vedere come il paragone con il cibo non finisce con Barthes. La parola “eccellenza” viene oramai usata per descrivere tanto vini e prosciutti quanto ricercatori universitari o artisti. Permane quell’idea di futile contingenza e di indifferente interscambiabilità tra scelte già date – la stessa sensazione che ha il passeggero del treno Cook nello scorrere svogliatamente il menù. L’ostentazione del “merito” diventa un indicatore privilegiato di mediocrità. La cosa, va da sé, non è un’invenzione del governo Meloni. Rispetto ai dieci anni di centrosinistra, cambia solo il passeggero a cui deve essere servito il pasto nel treno: quella borghesia industriale stracciona e volgarmente kitsch che non vede l’ora di avere diplomati al liceo del made in Italy a cui attingere dall’esercito industriale di riserva.
Nel mentre che il treno si dirige verso il precipizio, Giorgia Meloni ci chiama a servire anche noi come camerieri sotto l’egida della fiamma tricolore, ad agghindare ogni nostra frase con “patria”, “nazione”, “sangue” e “suolo” per dare un’impressione di materialità salda e radicata ai tanti turisti, soprattutto statunitensi, che viaggiano nel nostro vagone.
«Nel panico e nella delizia dello sradicamento, Giorgia Meloni vende lo spettacolo di una stabilità».
[1] Tra tutte, chi scrive prova un sincero disgusto per “working class” al posto di “classe lavoratrice”. Un balordo tentativo di nascondere la violenza subita (e quindi, esternalizzata) da chi non è certo di riuscire a portare il cibo a tavola tutti i giorni della settimana, con un eufemismo che prova a trasformare il sangue nelle officine e i calli delle mani in una creatura idealizzata a proprio uso e consumo, da far combaciare con le proprie fantasie postmoderne da accademia statunitense.
[2] Il testo è disponibile su www.doppiozero.com a questo link (https://www.doppiozero.com/vagone-ristorante) e, per favorire il confronto immediato con questa versione disponibile pubblicamente, farò riferimento alla traduzione nel sito.
[3] Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione delle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano 19922, p. 78. Noi abbiamo già compiuto il parricidio intellettuale del semiologo piemontese da diverso tempo, e citiamo il saggio solo perché legato sia a una certa tradizione semiotica che alla filosofia estetica del suo maestro Luigi Pareyson.
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