di Giusi Greta Di Cristina*
14 ottobre, Santiago del Cile. La capitale latinoamericana si sveglia da un sonno lungo trent’anni, con una rabbia repressa solo, probabilmente, per non rivedere scene tra le più sanguinose che la storia ricordi. Il motivo scatenante della immensa manifestazione per le strade di Santiago è stata la decisione del governo di aumentare di 30 pesos il costo del biglietto della metro, il mezzo che la maggioranza dei cittadini cileni usa per muoversi. Ma era chiaro fin da subito che non poteva trattarsi solo di quello. In particolare, una frase veniva ripetuta come un refrain da chiunque venisse intervistato durante le proteste: “No son 30 pesos, son 30 años”, non sono i 30 pesos, appunto, ma i 30 anni.
La teoria secondo cui lo Stato deve intervenire poco e niente negli affari economici del proprio Paese in Cile è divenuta vangelo rappresentando così, ad un tempo, uno dei maggiori successi delle istituzioni a guida statunitense nel subcontinente (FMI in primis) e il Paese con il PIL più alto.
Quello che pochi hanno in questi anni avuto il coraggio di affermare è che il Cile ha rappresentato pure lo Stato latinoamericano con la più alta disuguaglianza sociale e il più alto freno alla mobilità sociale, diviso nettamente fra categorie ricche e ricchissime e la maggior parte dei cittadini che hanno vissuto e vivono col minimo sindacale. Un Paese in cui le contraddizioni sono state così forti da far chiedere a chi lo ha visitato come fosse possibile vivere in pace.
Ed eccoci ad oggi. L’ennesima scelta liberista del governo Piñera, presidente della destra neoliberista e nostalgico di Pinochet, è stata accolta dal popolo come la goccia che fa traboccare il vaso: i cileni avevano già apertamente esplicato il loro malcontento in altri momenti e per questioni ben precise che vale la pena ricordare proprio per comprendere le motivazioni profonde che sottendono alle proteste.
Dati i salari parecchio bassi è quasi impossibile poter però crearsi un fondo pensionistico privato, rimanendo così, di fatto, senza pensione. Altro punto di scontento proprio i mezzi pubblici, che per adesione al credo neoliberista sono stati ridotti al minimo e spesso si trovano in pessime condizioni nonostante i prezzi sempre più elevati (a cui si è aggiunto quest’ultimo rincaro, miccia delle manifestazioni). Ancora la sanità, coperta dallo Stato per un 60% ma di scarsissima qualità (in Cile solo alcuni campi della medicina sono pubblici, altri sono in mano alla gestione privata).
A ciò si aggiunga il prezzo dei medicinali che risulta essere il più alto dell’intera Regione. Ultima la questione dell’istruzione, anche in questo caso pubblica fino ad un certo punto, lasciata allo sfacelo per favorire l’arricchimento degli istituti privati, i quali sono gli unici che permettono una preparazione tale da consentire di entrare nelle Università del Paese.
Ed ecco perché “non sono i 30 pesos, sono i 30 anni”: anni in cui il Cile veniva presentato come modello da seguire, da contrapporre talvolta alle politiche progressiste e socialiste sperimentate in America Latina, specie in quel decennio in cui si sono rafforzate la cooperazione regionale e un modello latinoamericano resistente all’asfissiante presenza del Fondo Monetario Internazionale. Se c’è infatti un attore a cui più di ogni altro i manifestanti hanno indirizzato il grido di rabbia e di rivalsa è proprio il Fondo istituito dagli USA e vissuto come diretta emanazione degli affari di Washington nella Regione, attraverso una politica di finto aiuto e di creazione, al contrario, di dipendenza economica e, quindi, di influenza politica.
Queste le ragioni economiche della protesta.
E si sa che difficilmente si perdona un popolo che si ribella ad un modello dichiarato come vincente e condiviso dalle potenze occidentali. Il presidente Piñera, per tutta risposta, ha dichiarato di voler bloccare l’aumento dei biglietti della metro e ha proposta il rimpasto di governo (il terzo della sua legislatura) per tentare di buttare acqua sul fuoco.
Per evitare che le Organizzazioni Internazionali (peraltro tutte zitte, a parte la Commissione Interamericana dei diritti umani) mettessero in discussione quanto stava avvenendo, è stato lo stesso governo cileno a richiedere la visita nel Paese di una Commissione dell’Onu per i diritti umani, che in effetti è stata presente nel Paese dal 28 ottobre al 22 novembre (il cui Alto Commissario è Michelle Bachelet, ex presidente cilena), ma del report prodotto non si ha ancora traccia.
È stato lampante il silenzio scelto dagli altri organismi internazionali come l’Unione Europea che attraverso una votazione ha optato per una linea di non ingerenza negli affari cileni, mentre qualche giorno fa la vice-ministro agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale Marina Sereni (PD) ha affermato di essersi personalmente recata a Santiago. La vice ministro se da un lato ha dichiarato di aver provato “impressione” per i carri armati sulle strade della capitale dall’altro ci ha tenuto a dichiarare che in nessun modo il governo di destra di Piñera è paragonabile a quello di Pinochet, rimarcando i ritmi di crescita economica da dopo la dittatura e la capacità del Paese di agire come attore internazionale.
Inoltre è circolata fin da subito la notizia di un possibile centro di detenzione segreto: negli scorsi giorni l’informazione è stata confermata dall’ex deputato democristiano Sergio Velasco de la Cerda, secondo il quale l’esercito (e il governo che lo copre) è tornato a riutilizzare Tejas Verde, una delle peggiori case di tortura della dittatura pinochettista.
Ad un mese e mezzo dallo scoppio delle proteste la situazione in Cile è peggiorata: quasi 30000 soldati per le strade che non si fermano ad arrestare chi sta protestando ma, alla vecchia maniera, attaccano indiscriminatamente civili fermi agli autobus che vanno a lavorare, ragazzini a scuola, gente che si trova a passare nel posto sbagliato al momento sbagliato: esattamente come nel 1973 si tenta di esasperare il più possibile i cittadini affinché arrivi unanimamente un desiderio di “riappacificazione” che consentirà al governo di continuare con le sue politiche le quali, ribadiamo, sono la causa del malcontento e non sono state, ad oggi, messe in discussione né dall’interno né dall’esterno.
In tempi in cui si sente parlare di antipolitica o di fine della politica la mobilitazione cilena, col suo carico di sangue e repressione, è estremamente politica ed il fatto che queste proteste si siano sviluppate nel Paese neoliberista per eccellenza del subcontinente mette ancora una volta in dubbio – qualora ve ne fosse il bisogno – la stabilità del sistema liberista unipolare in America Latina. Dal nostro punto di vista è impossibile considerare lo scoppio dei casi Cile e Bolivia una mera coincidenza temporale e non invece risposte sistemiche alla vittoria di Alberto Fernández alle presidenziali in Argentina e alla scarcerazione di Luis Ignacio Lula da Silva in Brasile.
“Il Cile è stato la culla del neoliberismo: ora sarà la sua tomba”, recitavano moltissimi cartelloni tenuti in bella vista dai manifestanti cileni prima che si scatenasse l’inferno. Sarà il tempo però a dirci se si tratterà dell’ennesimo colpo di coda o del rigurgito di un passato che ancora brucia sulla pelle dei latinoamericani.
*L'articolo è pubblicato su Nuova Società
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