di Antonio Di Siena
Oggi quelli del centrodestra italiano ricordano con commozione Silvio Berlusconi a un anno dalla morte. E lo faranno, ovviamente, condendone la commemorazione con una tonnellata di ipocrisia. A reti unificate celebrandone le figure di politico e imprenditore, ricordando tutto di lui. Certamente i pregi, e magari anche qualche difetto. Tutto tranne una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche, quando disse che da presidente del Consiglio non sarebbe mai andato a parlare con Zelensky “perché stiamo assistendo alla devastazione del suo Paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili. Sarebbe bastato che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe accaduto”.
Parole scomode, pesanti come macigni che gettano nell’imbarazzo più completo l’intero governo - specialmente forzisti ed ex missini che a Berlusconi devono politicamente tutto - e che quindi, date le circostanze, è meglio confinare nel dimenticatoio. E allora tocca a me tirarle fuori, nonostante non sia mai stato un estimatore del cavaliere. Non tanto per trasformarlo in ciò che non è stato, d’altronde “l’amico” Gheddafi lo bombardò proprio il suo governo. Ma perché c’è cameriere e cameriere, e c’è amico e amico. Una distinzione che Berlusconi comprendeva benissimo.
I suoi successori evidentemente molto meno.
E finisce che il declino delle classi dirigenti di un paese ormai inesorabilmente condannato al ruolo di provincia americana è talmente ingravescente che si finisce per rimpiangere addirittura Berlusconi.
Un po’ come i nani della Seconda Repubblica che fanno sembrare gigante pure il peggior bandito della Prima.
Perché possiamo dire tutto ma, se proprio mi devo far andar bene un governo di destra, dovendo scegliere tra Meloni e Berlusconi non esito un istante e scelgo il secondo. Soprattutto se in ballo c’è la terza guerra mondiale.
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