di Leo Essen
Nel 1983, in due puntate (20 e 22 febbraio), appare sul Manifesto uno Statement sul post-terrorismo, scritto da Paolo Virno e pensato in carcere insieme agli AutOp del 7 aprile: Do you remember revolution?
Non abbiamo nulla a che spartire con il terrorismo – è ovvio! Siamo stati «sovversivi» [virgolette di Virno, forse a rimarcare la distanza dal Bier], e solo i giudici hanno omologato sovversione e terrorismo – il teorema è noto.
Non abbiamo nulla a che fare col PiCcismo. Soprattutto [qui si esprime il carattere européenne degli autop], soprattutto, non entriamo in una logica oppositiva [dialettica – lo spauracchio è Hegel] e non ci esprimiamo per differenza con i piccisti – pertanto, gli autop sono Autonomi.
Infine, pietra tombale su un’esperienza durata non più di 5-6 anni (73-74/79), con il Caso Moro «si rompe definitivamente l’unità del movimento, finisce l’Autonomia Organizzata». Poi, a sentire i più (?), si apre l’era degli aperitivi – gli anni Ottanta.
Il valore dello Statement non sta nella presa di distanza dal Bier, ancora comprensibile nel clima di carcerazione dei primi anni Ottanta, ma sta nella chiara esposizione della filosofia politica autop.
Bisogna dire che le differenze col PotOp sono marginali. Il cuore delle riflessioni proviene dai quaderni rossi, dunque da una matrice piccista e psista, dove il vecchiume proletarista è rappresentato dal fabbrichismo e dal lavoro salariato – il lavoro produttivo (alla Marx).
Ciò che differenzia quest’esperienza cosiddetta movimentista – di area e di circolo – dal potop è «il localismo», la profonda distanza da ogni intenzione di «presa dello Stato», da ogni «centralizzazione». «È letteralmente impossibile tracciare una storia unitaria dell’autonomia romana e di quella milanese, o di quella veneta e di quella meridionale.»
Con l’AutOp «si consuma una rottura con l’intera tradizione del movimento operaio, con l’idea stessa di “presa del potere”, con l’obiettivo canonico della “dittatura proletaria”, con i residui bagliori del “socialismo reale”, con qualsivoglia vocazione gestionale.»
«La nuova soggettività di massa è un alieno per il movimento operaio: linguaggi e obiettivi non comunicano più. La stessa categoria dell’“estremismo” ormai non spiega nulla, e anzi confonde e intorbida. Si può essere “estremisti” solo rispetto a qualcosa di simile: ma è proprio tale “somiglianza” che viene rapidamente meno. Chi cerca continuità, chi ha a cuore l’“album”, può rivolgersi solo all’universo separato delle “organizzazioni combattenti” marxiste-leniniste.»
Questo inquadramento – comprese le virgolette – che separa l’autop dal movimento operaio – dal lavoro e dal lavoro produttivo – non serve a distinguere dalla famiglia comunista e marxista o marxista-leninista, da tutta la galassia di gruppi piccoli e grandi che si definiscono per differenza con lo Stato borghese, con il Capitalismo, con il lavoro improduttivo, e che trovano la propria identità per differenza, per differenza col fascismo, per differenza con il potere, per differenza con la destra, per differenza con il patriarcato, per differenza e reazione a un nemico, eccetera. L’autop è un alieno – Virno lo scrive chiaramente. Non comunica più. Non prende posizione, perché ogni posizione è opposizione (determinatio negatio est). Questo inquadramento iscrive l’AutOp – in questa versione di Virno – nel più vasto e seducente contesto européenne del rifiuto del pensiero della differenza – di più, della decostruzione del pensiero della differenza; quando è evidente che rifiutare – dire no – a una macina hegeliana è impossibile, ridicolo. I would prefer not to – ripeterà Deleuze; e Derrida, nel 67, coprirà la differenza col lenzuolo di quella A visibile ma non udibile, indirizzando verso l’hantologie.
«Il movimento femminista, con la sua pratica di comunità e di separatezza, con la sua critica della politica e del potere, con la sua aspra diffidenza per ogni rappresentazione istituzionale e “generale” di bisogni e desideri, col suo amore per le differenze, è emblematico della nuova fase. Ad esso, esplicitamente o meno, s’ispireranno i percorsi del proletariato giovanile a metà degli anni 70. Lo stesso referendum sul divorzio è una spia di grande significato sulla tendenza all’“autonomia del sociale”.»
La non subordinazione della questione femminile alla questione dello sfruttamento. L’Autonomia della questione femminile dalla questione del lavoro produttivo e del lavoro in generale. La separatezza – dunque, il detournement della Differenza tentato da Virno – segna l’inizio di quel percorso che si concluderà nel 1990 con Gender Trouble, e dunque con l’archiviazione del femminismo differenzialista.
Separatezza da franco tiratore, perché «il potere è visto come una realtà estranea che non serve né conquistare né abbattere, ma solo ridurre, tenere lontano. Il punto decisivo è l’affermazione di sé come società alternativa, come ricchezza di comunicazione, di libere capacità produttive, di auto-imprenditorialità. Conquistare e gestire propri “spazi” [overdose di virgolette, ossessione per il dislocamento, il detournement e la deconstruction] – questa diviene la pratica dominante dei soggetti sociali per i quali il lavoro salariato non è più il luogo forte della socializzazione – ma puro e semplice “episodio”, contingenza, disvalore.»
L’operaio massa esaurisce il suo ruolo ricompositivo e offensivo. Dal 74 al 76 c’è un aumento della violenza. L’obiettivo non è lo Stato o la conquista del Potere. Il modello è la notte del black-out newyorkese. È il saccheggio, la soddisfazione pronta del bisogno. La riduzione della tariffa. L’occupazione della casa. Non pagare il biglietto al cinema e ai concerti, salire sul tram e vidimare il chewing-gum). Si tratta di una violenza che «non prefigura alcuna “rottura rivoluzionaria” [qui non si capisce se le virgolette marcano una classica citazione, o se depotenziano, stornano, decostruiscono, parodiano, eccetera, la rottura, il salto, la crisi, la rivoluzione stessa. Oppure se sono il seme di quella guerriglia semiologica che ha portato dritti dritti alla narratologia inconcludente e irrequieta degli anni Novanta]».
«Nei confronti di Arrigo che confessa una rapina, la Corte si scatena: lo vogliono “pentito”. Arrigo è pentito, ma rifiuta di mettersi le virgolette». Siamo dentro il processo 7 Aprile, un processo in cui le virgolette pesano. In cui la semiotica ha il suo peso; in cui a essere processati, e processati da (cito) una medietà funzionale, burocratica, di cultura mediocre, vetero-italica, con modesta infarinatura di modernizzazione anglosassone, moderatamente politicizzata, con freddezza amministrativa e ridondanze burocratiche, ed estremo ritualismo, e mancanza di libertà dell’intelligenza, e legittimità recepita dalla macchina e non dall’intelligenza, e mai un comportamento imprevisto, tutto prevedibile, appendici della macchina, li compatisco, [la paratassi è di Negri]; in un processo in cui, dicevo, ad essere processato è (cito) l’eroismo della conoscenza, Arrigo introduce il discorso sui movimenti, sullo sviluppo del 68 – e non viene capito. I giudici sono prigionieri di un linguaggio: il “brigatese” [tra virgolette] semplificato, d’aeroporto.
Arrigo rifiuta le virgolette e rifiuta il “brigatese” – un linguaggio che nella sua limitata razionalità strumentale [lingua da operaio specializzato, da catena di montaggio?] va stranamente bene ai giudici – e rifiuta di raccontare altro dalla verità. Perché la verità – apriti cielo! – non ha un suo altro – non si fa, non si costruisce, non si macchina – da questa parte della sbarra, la verità è. Dico: è. Invece, dall’altra parte della sbarra, la grammatica è sempre strumentale. La parola sempre funzionale, mai autonoma, libera, intellettuale – romantica. Da una parte c’è la vita viva, nuda e cruda, c’è (cito) l’historia rerum gestarum, la Geschichte, eccetera. Dall’altra parta ci sono la routine e la macchina che rendono appunto impossibile la storicizzazione, la messa a terra, il verbale storiografico, il monumento intellettuale. Da una parte c’è la libertà – (cito) differenza assoluta, invalicabile, nell’anima. E perciò non ci capiamo, non ci capite. Tento un discorso. Chissà che cosa capirete! Signor Presidente, la Pena è davvero una restaurazione – ripagare l’offesa, mediandola attraverso la norma, dialetticamente, in un tutto di valori omologhi. Non mi stupisce che lei apprezzi Hegel. La sua rabbia, l’incomunicabilità – l’intraducibilità – di linguaggio, tutto questo Lei scopre quando invece si trova di fronte il diverso – il tutt’altro. Tilt.
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