Una delle ragioni per cui ho sviluppato, fin da ragazzo, una forte simpatia per i russi (anche a prescindere dal fatto che all’epoca erano sovietici), è che quando fanno le guerre pagano sempre un prezzo molto alto. Per loro le guerre non sono passeggiate o esibizioni, come per gli americani: sono un sacrificio. Nel primo conflitto mondiale ebbero quasi quattro milioni di vittime; nel secondo, più di 25 milioni. Anche adesso in Ucraina stanno subendo in pochi mesi perdite più alte che gli Stati Uniti nei vent'anni di brutale occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq.
Quale migliore garanzia, al di là delle chiacchiere e della propaganda, che non si faranno coinvolgere in un conflitto se non perché attaccati o minacciati? Gli americani, invece, che garanzie offrono? Nei due conflitti mondiali ebbero, rispettivamente, 100mila e 400mila morti; e nel Pacifico, per non rischiare qualche soldato in più, non esitarono a usare bombe atomiche. Immaginate cosa sarebbe successo se fossero stati loro, i paladini della democrazia, ad avere perdite di decine di milioni di uomini: non avrebbero esitato a distruggere l’intero pianeta. Con la totale indifferenza che spinse il generale Curtis LeMay a sostenere apertamente nel 1968 che piuttosto che cercare una soluzione diplomatica con Hanoi gli Stati Uniti avrebbero dovuto «bomb them back to the stone age», bombardarli fino a farli tornare all’età della pietra. Tipica arroganza di chi non sa cosa sia la sconfitta e la sofferenza perché non le ha mai provate. In Vietnam infatti per ogni soldato americano caduto combattendo in un paese altrui e quasi agli antipodi (13mila chilometri di distanza) vennero trucidate decine di cittadini di quel paese dai bombardamenti indiscriminati da alta quota (per non rischiare). Una percentuale da rappresaglia nazista.
In ogni periodo storico ci sono persone, comunità, nazioni, popoli più forti e meno forti; c’è chi prevale e chi subisce, non so se sia inevitabile ma è sempre stato così. Tuttavia i prepotenti pagavano un prezzo; originariamente, spiegava Hegel, i padroni si distinsero dai servi perché disposti a mettere in gioco la loro vita in cambio del potere, mentre gli altri rinunciavano al potere pur di conservare la vita. Oggi non più. I padroni del mondo non intendono mettere in gioco nulla, tanto meno la loro vita. Come la NATO che nel 1999 uccise qualche migliaio di serbi senza perdere neppure un soldato: e tutti a lodarne l’efficienza, felici di stare dalla parte degli Übermensch.
Invece io penso che chiunque stravinca sia moralmente riprovevole e assolutamente non affidabile (a ben guardare si tratta della stessa cosa); per capire gli altri bisogna temerli almeno un po’ e possibilmente molto, ossia considerarli simili a noi o addirittura più forti; chi invece di senta o, peggio, si sappia molto superiore, inclina inevitabilmente verso il delirio di onnipotenza e verso l’abuso.
Non mi illudo che questo ragionamento venga condiviso da tutti o da tanti, neppure fra i deboli. Trent’anni di neoliberismo hanno creato masse di edonisti che per consolarsi della loro insignificanza confondono il successo con la virtù e si accontentano di idolatrare i vincenti. Il culto delle celebrity, da Fedez a Briatore, da Cristiano Ronaldo a Valentino Rossi, è l’oppio dei popoli digitalizzati e induce ad ammirare coloro che dominano sempre e che comunque cadono in piedi, qualunque cosa facciano. I superbi alla Ibrahimovic, che Dante avrebbe sbattuto all’Inferno e costretto a inchinarsi sotto il peso di enormi macigni, sono invece esaltati dai giornalisti come supereroi proprio in quanto superbi. Vi piace tutto questo? Buon per voi. A me no e ciò ci rende irriducibili avversari in una lotta che ancora non è ma sarà all’ultimo sangue (presumo il mio ma lo venderò caro).