di Francesco Erspamer
Vittoria di Meloni? Successo di Schlein? Con rispettivamente il 29 e il 24 per cento dei voti di un corpo elettorale dimezzato dall’astensione? In sostanza si considerano le padrone d’Italia con il 14 e il 12 per cento dei consensi, fra tutte e due poco più di un quarto degli aventi diritto. Gli altri preferirebbero altro.
Purtroppo non lo otterranno mai se si limitano a non votare o a votare senza essersi impegnati nei mesi e anni precedenti. La politica non si fa nei seggi una volta ogni due o tre anni, informandosi pochissimo, riflettendo meno, limitandosi a guardare il proprio tg preferito o ad ascoltare qualche manipolatore quasi sempre multimilionario (voi però li chiamate «influencer» o «celebrity» senza neppure scandalizzarvi di cosa i due termini implichino: una resa incondizionata del pensiero). La politica si fa quotidianamente, iscrivendosi a un partito (e se non c’è quello che vi rappresenta, fondandolo), lavorando al suo interno, partecipando alle attività sindacali, vivendo civilmente e moralmente, lottando sui luoghi di lavoro e nelle proprie comunità e prima ancora rafforzandole, le proprie comunità, perché contrariamente a quanto vi dicono buona parte dei politici e tutti i giornalisti e gli intellettuali che chiacchierano in tv, come individui non contate niente.
Cosa significa comunità? Significa rinunciare a parecchie libertà personali, prima fra tutte la mitica mobilità liberista, in cambio di solidarietà; significa preferire le riforme, cioè i cambiamenti nel rispetto delle tradizioni e della propria cultura, alle mode e al nuovo fine a sé stesso, soprattutto se definibile solo con un anglicismo. Significa criticare e protestare ma anche apprezzare e difendere ciò che consideriamo un valore, pur imperfetto e migliorabile, in particolare il sistema statale e pubblico, senza considerare un diritto umano inalienabile avere una scuola come quella finlandese, stipendi come quelli danesi, una sanità come quella che avevamo e a cui avete rinunciato perché ai vincenti o aspiranti tali il privato all’americana piace di più e comunque non vogliono pagare tasse in proporzione al loro reddito (e non vengono impiccati se evadono su larga scala).
Di conseguenza questa è la mia interpretazione delle elezioni. Un terzo circa degli italiani è totalmente soddisfatto del neoliberismo e continuerà a giocare con la finta alternativa destra-sinistra e a infervorarsi per questioni fasulle quali quella dei migranti (che nessuno davvero ha intenzione di fermare, benché sarebbe facile) o dei pronomi personali maschili e femminili o dei transessuali, esattamente come da tempo avviene nel loro paese-guida, ossia gli Stati Uniti (o in alternativa nei più fedeli satelliti di Washington, i paesi del Nord Europa).
Un altro terzo si lamenta ma di fatto accetta passivamente il destino manifesto che gli viene proposto a reti unificate; vive di intrattenimento mediatico, mode e tendenze importate, sport, viaggi, in una parola di virtualità. E poiché la virtualità è la caratteristica primaria della società neoliberista, anche questi italiani non muoveranno un dito, per non dire il cervello, per opporsi al modello dominante. Neppure però si opporrebbero a un cambiamento virtuoso, se ritenuto vincente.
Resta un terzo, che è comunque un sacco di gente e che sarebbe pienamente sufficiente per salvare l’Italia e il pianeta. Ma deve uscire dalla sua rassegnazione e dal suo pessimismo; non perché non siano giustificati ma perché sono anch’essi espressione dell’individualismo dominante. Non è difficile: basta rinunciare all’edonismo come presunta condizione «naturale», basta uscire dalla biopolitica, che è la politica della vita come unico scopo dell’esistenza, dunque una politica della sopravvivenza individuale a qualsiasi costo. È la dialettica hegeliana del servo e del padrone, secondo la quale diventa padrone chi è disposto a rischiare la vita e diventa servo chi pur di conservarla si arrende ai soprusi; senza accorgersi, il servo, che ad arrendersi poi può perdere anche la vita, appena non serve più al padrone, e neppure che il padrone in realtà la vita non l’avrebbe mai davvero rischiata. Ancora più limpida la frase di Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita la perderà»; e non solo in una prospettiva eterna, già qui sulla Terra, perché l’incapacità di sacrificarsi (etimologicamente: rendere sacro) conduce alla schiavitù, allo scoraggiamento, alla depressione, all’autodistruzione.
C’è tanto da fare, tanto da costruire, tanto da progettare e prima ancora tanto da pensare, collettivamente, attraverso la conversazione e la cooperazione. Perché non vi pare divertente, oltre che giusto? Personalmente preferisco di gran lunga fare questi discorsi in presenza che a distanza, in società piuttosto che su quello strumento di asocialità che sono i «social». Non c’è politica senza una polis, solo evasione, artificialità, solipsismo, consumismo.