di Alessandra Riccio
Ma è normale che un Capo di Stato, una delle personalità più importanti della seconda metà del novecento, una persona che ha mantenuto la sua vita personale lontano dalle luci della ribalta, inviti un giornalista straniero e la sua famiglia a mangiare un gelato a casa sua in una tranquilla domenica familiare? Io, giornalista e corrispondente di stampa estera all’Avana, ho visto come era la casa di Fidel Castro solo quando i Minà, di ritorno da un ennesimo viaggio a Cuba, mi hanno mostrato le foto della loro visita all’anziano leader, già ammalato e già in ritiro.
Per un sacco di tempo tutta la stampa accreditata sull’isola, tutti i giornali (perlomeno quelli occidentali) si sono disperati per avere qualche foto della misteriosa Delia, la moglie che gli aveva dato quattro figli maschi. Mi trovavo all’Avana negli uffici del corrispondente di “El País”, giornale spagnolo letto in tutti i paesi di quella lingua, quando al malcapitato corrispondente toccò una sonante lavata di capo via telefono da Madrid perché non riusciva ad ottenere una foto di Delia. Da sempre la stampa internazionale voleva sapere dove viveva il líder máximo, con quale donna, circondato da quali lussi, da quali vizi, da quali debolezze.
Perché, allora, invitare a casa proprio un giornalista? Me lo spiego solo pensando che il vigile e inevitabilmente sospettoso Fidel, si fidava a tal punto di quel giornalista, il primo europeo ad intervistarlo a lungo e per due volte in anni ormai lontani, da ammetterlo tranquillamente nell’intimità della sua casa, sicuro di aver invitato una persona leale e perbene, forse un amico. Ed infatti, Minà non ha trasformato quell’incontro in uno scoop, non ha venduto notizia e foto, non ha fatto merce di un incontro privato e ci ha guadagnato anche una segnalazione da parte della maestra di sua figlia, preoccupata per l’immaginazione debordante della ragazzina: nel suo tema “Una domenica che non dimenticherò mai”, aveva scritto: “quel giorno che sono andata con la mia famiglia a mangiare un gelato da Fidel”.
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Non vedevo Gianni da un paio d’anni. L’ho rivisto qualche settimana fa in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Napoli nell’austera Antisala dei Baroni, e l’ho rivisto circondato da molto affetto, molta simpatia e rispetto anche da un pubblico giovane che non ha vissuto un’epoca in cui giornali e televisione avevano, in gran parte, il senso della deontologia e molto entusiasmo –specie in televisione- per un mezzo per noi nuovo e in parte da inventare. Inevitabilmente ho ripensato alla sua carriera di giornalista famoso, alle trasformazioni che lo hanno condotto da animoso cronista sportivo, a sensibile scopritore di anime belle oltre i talenti, a narratore di storie sempre appassionanti ed esemplari nella sua ormai lunga esperienza di documentarista, fino alla sua decisione di rilevare, editare e dirigere una rivista di nicchia –“Latinoamerica”- che pretendeva di raccontare l’America Latina oltre le repubbliche di banane, oltre il folclore e dentro la drammatica e controversa storia del novecento.
Ho conosciuto più da vicino Minà dopo essere stata invitata a partecipare ad una puntata di “Storie” dedicata allo scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Era una trasmissione in seconda serata, se non mi sbaglio, quieta e tranquilla, dove il conduttore favoriva la conoscenza dei personaggi invitati e delle loro storie. La serata con i coraggiosi genitori di Ilaria Alpi ha segnato, in qualche modo, l’ostracismo della RAI verso uno dei suoi migliori giornalisti; uno dei migliori, ma politicamente scorretto e quindi, scomodo. In quel tempo Gianni Minà aveva convinto Robert Redford a produrre la bella storia del giovane Ernesto Guevara e del suo amico Alberto Granado in giro per l’America Latina sulla mitica motocicletta La Poderosa. Il film fu un successo (e lo è ancora), ma a Minà non bastava. Sapeva che quella storia filmata aveva un testimone, Alberto, ancora vivo e lucidissimo. Con lui Minà è andato dietro alla troupe cinematografica, si è trascinato l’anziano ma arzillo Granado su altipiani andini e nel caldo tropicale, rievocando un viaggio iniziatico che ebbe le conseguenze che sappiamo per fare di Ernesto il Che.
Il lavoro dietro la macchina da presa che Minà ha fatto con Granado mi sembra l’esempio del suo modo così particolare di fare giornalismo: stare dietro e stimolare la parola, il ricordo, l’emozione che passano al lettore/spettatore che quasi non avverte la mediazione, si sente destinatario della testimonianza, del racconto, della vicenda. Ho questa impressione anche quando riguardo le famose interviste a Fidel o la straordinaria conversazione con Hugo Chávez, nel bel porticato di Miraflores, il Palazzo di Governo del Venezuela. Minà è seduto su una poltrona di fronte al Presidente, ogni tanto un sorso d’acqua, un goccio di caffè. Chávez racconta di sé e della sua avventura fino ad arrivare al governo, delle sue idee, delle sue realizzazioni, dei suoi nemici e dei suoi amici, delle sue speranze per il futuro dove un altro mondo è possibile.
Non c’è dubbio che l’interlocutore –Minà- sa porre le domande giuste, sa interloquire, è preparato all’intervista, conosce a fondo la questione di cui si tratta, ma la sua grande dote è quella di non farci accorgere della fatica che c’è dietro quell’intervista e di farcela godere come se fossimo stati noi a sederci al fresco, su quella poltrona. Eppure, questo suo modo va controcorrente, l’intervista è lunga, non è facilmente commerciabile, gli spettatori si stancano, i tempi attuali esigono ritmo e azione. Minà è testardo e non cede, paga, ci rimette ma non cede: questo è il suo giornalismo.
La sua avventura con la rivista “Latinoamerica” ne è una riprova. Perché all’apice di una carriera brillante, il giornalista Minà decide di imbarcarsi nell’inedita avventura di farsi editore e dirigere una rivista? Goffredo Fofi che è stato creatore e animatore di tante riviste, da “Ombre rosse” a “Linea d’ombra”, da “Lo Straniero” all’attuale “Gli Asini”, ha confessato recentemente che fare le riviste gli ha consentito di incanalare la sua irrequietezza, di aiutare la sua ansia di capire, di soddisfare il suo volontarismo etico per cui quello che si è capito, bisogna condividerlo. Non so se tutte queste ragioni servono anche nel caso di Minà; certo, entrambi hanno profonde radici cristiane, entrambi danno un senso sociale al loro lavoro e hanno pure la stessa età.
A Minà non mancano ansia di capire e irrequietezza, ma soprattutto – nel momento in cui ha deciso di rilevare e rilanciare “Latinoamerica”, una piccola rivista di nicchia, obbedire all’imperativo di comunicare quello che lui ha capito e imparato del mondo, di tutti i sud del mondo. Un vero e proprio imperativo etico. Oggi rileggo in questi termini un’avventura durata quindici anni, cominciata nel duemila alla grande: restyling grafico magnifico, offerto da Maoloni, pioggia di contributi di firme straordinarie, 210 pagine nel primo numero, un’esagerazione per una rivista. Minà chiamava e gli amici della sua famosa agenda, rispondevano: Galeano, Sepúlveda, Frei Betto, Chico Buarque, ma anche padre Zanotelli, Silvia Baraldini (ancora in carcere a Roma), Walter Veltroni. Era il 2000, ricominciavamo con la rivista quando cominciava il Terzo Millennio e il nuovo secolo e in America Latina cominciava anche la rivoluzione chavista in Venezuela e il continente desaparecido tornava alla ribalta con una straordinaria successione di presidenti con idee e comportamenti davvero nuovi in America Latina e nel mondo: Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia, Lula in Brasile, Correa in Ecuador e Chávez, il più audace e creativo di tutti. Dietro a Chávez e alle sue idee, Cuba e Fidel Castro, l’isola ribelle che non aveva –e non ha- ceduto allo strangolamento del blocco imposto dagli Stati Uniti. Il continente riemergeva e Minà sentiva il dovere di farlo sapere e di farne conoscere le originalità, le novità nelle diverse politiche dei diversi presidenti di paesi così diversi ma assolutamente concordi sul rispetto della sovranità delle singole nazioni e, al contempo, della opportunità di unirsi in un’alleanza antimperialista. Un avvenimento simile, la rivoluzione sandinista in Nicaragua, aveva motivato, nel 1979, un gruppo di giornalisti, docenti universitari ed esperti a fondare la rivista adesso risorta a nuova vita.
Negli anni in cui ha lavorato per la casa editrice Sperling & Kupfler, Minà ha proposto e pubblicato testi di intellettuali e politici latinoamericani fondamentali per capire l’evoluzione di quel subcontinente, tra l’altro la riedizione di Le vene aperte dell’America Latina, di Eduardo Galeano, un testo così fondante che Hugo Chávez ne aveva fatto dono allo schivo presidente Barak Obama durante un incontro continentale.
Lo so, la grande popolarità di Gianni Minà affonda le sue radici in innovative trasmissioni televisive, nelle sue proposte di musicisti emergenti, nella sua simpatia per il controverso Diego Armando Maradona, per essersi lasciato strapazzare (e abbracciare) da un Massimo Troisi scatenato, perché ci ha travolto con “il bello della diretta”, perché –come se niente fosse, andava in trattoria con García Márquez e Robert De Niro, perché nella sua Agenda alla lettera F si leggeva Fidel.
Ma il mio Minà è anche quello che ha saputo vedere oltre la luce della ribalta; che dietro il talento sportivo di Cassius Clay ha visto e raccontato la tragedia del negro americano; che ha saputo raccontare, come pochi, Gabriella Ferri; che ascoltando le canzoni e i racconti di Vinicius de Moraes e di Chico Buarque de Hollanda ha saputo andare oltre la bossa nova e portare in primo piano il dramma delle dittature militari nel Cono Sur, l’eroismo delle Madres de la Plaza de Mayo. E ha sempre preferito raccontare la speranza piuttosto che rimestare nel dolore. Ha affrontato perfino, lui pigro e certamente non atletico, l’insopportabile umidità della Selva Lacandona per raccontarci, insieme a Manuel Vázquez Montalbán, la speranza di un nuovo, originale movimento, lo zapatismo.
Questo è il mio Minà, quello che ho riabbracciato giorni fa a Napoli, città che lo riconosce e lo ama e che lo ha voluto suo “cittadino onorario”.
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