Gli interessi europei nel Mar Rosso

17 Gennaio 2024 15:13 Geraldina Colotti

All’operazione Prosperity Guardian, lanciata dagli Stati uniti il 19 dicembre scorso “per salvaguardare il commercio nel Mar Rosso”, hanno aderito 44 paesi, compresi i 27 dell’Unione Europea. Nella prima dichiarazione della coalizione multinazionale che ha condannato gli attacchi degli Houthi yemeniti contro le navi cargo israeliane o in transito verso Tel Aviv, non si parlava di reazioni armate. In una successiva dichiarazione, datata 3 gennaio 2024 e firmata da 10 stati, fra cui Germania, Danimarca e Paesi Bassi (tre membri Ue), il riferimento alla rappresaglia è però esplicito.

Tuttavia, i 73 raid che, nella notte tra il 12 e il 13 gennaio, hanno bombardato 5 regioni dello Yemen controllate dagli Houthi (che sostengono la resistenza palestinese), uccidendo 5 combattenti e ferendone altri 6, sono stati sferrati solo dalle forze armate nordamericane e da quelle britanniche. A sostenerli, il Canada il Bahrain e un unico paese europeo, i Paesi bassi. Gli altri membri della Ue, a partire dalla Spagna, si sono sfilati, e hanno mostrato irritazione nei confronti di tedeschi, danesi e olandesi che volevano portarsi avanti, firmando la dichiarazione del 3 gennaio.

Non che questo significhi un minor appoggio alla politica bellicista della Nato da parte dei paesi Ue, come ha ben dimostrato il conflitto in Ucraina e il sostegno inveterato alla bulimia armata di Zelensky. Infatti, tutti si sono affrettati a ribadire in ordine sparso il “diritto degli Usa a difendere il traffico mercantile nel Mar Rosso”. Si tratta piuttosto di beghe di cortile tra vassalli, che pensano di garantire meglio i propri interessi nell’area fidando su una presenza già consolidata, e in vista di un qualche accordo più vantaggioso.

C’è poi un calcolo a livello di politica interna, sulla quota di interventismo che è possibile fare ancora digerire all’”opinione pubblica” in vista delle elezioni europee di giugno, dopo la politica di suicidio economico adottata con le sanzioni alla Russia e i costi sopportati dai settori popolar europei. Per questo, anche il governo dell’ultra-atlantista Meloni ha dichiarato che decisioni simili devono comunque passare per l’approvazione del Parlamento (salvo escamotage che continuino ad esautorarne le funzioni).

La Ue è già attiva con l’operazione Atalanta in una vasta area del Mar Arabico e dell’Oceano Indiano, varata nel 2008 “per contrastare la pirateria”. E poi c’è la missione militare Agenor che, dal 2019, pattuglia lo stretto di Hormuz ed ha un ancoraggio nella base francese di Abu Dhabi. Francia, Germania e Italia sarebbero disponibili a fornire una loro nave già presente nell’area per una nuova attività di complemento alla Prosperity Guardian.

Di questo si discuterà martedì 16 a Bruxelles in una riunione dei rappresentanti diplomatici degli stati membri, e probabilmente anche nella riunione dei ministri degli Esteri, prevista per il 22 gennaio. Già a fine dicembre, la Ue aveva discusso se estendere il mandato della missione navale Atalanta per pattugliare il Mar Rosso, ma la Spagna aveva messo il veto. Intanto, dopo i bombardamenti anglo-statunitensi sullo Yemen, la Russia ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Gli interessi commerciali nell’area sono giganteschi. Attraverso il canale di Suez, e più in generale dal Mar Rosso, di solito passa circa il 12% del commercio globale, il 9% di prodotti legati al petrolio. Da lì transita, per esempio, tutta la componentistica delle auto, il petrolio, molti dei prodotti che vengono acquistati online. Per la vicinanza dei suoi porti e per essere un grande esportatore e importatore di materie prime, l’Italia è uno dei paesi interessati alla transitabilità del canale di Suez. Il commercio che passa da lì vale per l’Italia 150 miliardi di euro all’anno.

Suez non è solo uno snodo cruciale dal punto di vista economico, ma anche geopolitico giacché consente inoltre il passaggio di mezzi militari imponenti come le portaerei, essendo il più lungo canale del mondo senza chiuse: uno dei quattro principali punti di passaggio obbligati, a livello globale, in grado di evitare alle navi di circumnavigare interi continenti.

Oltre al petrolio diretto dall’Arabia e dal Golfo fino al Nord Europa, transitano da Suez anche decine di milioni di tonnellate all’anno di cereali, minerali e metalli. Circa 50 imbarcazioni al giorno e un ricavo di 8,6 miliardi di euro all’anno per l’Egitto, che controlla i flussi in transito e che, per limitare i danni, ha offerto sconti fino al 20% alle navi in viaggio verso l’Europa, ma senza risultati. Gli attacchi della resistenza yemenita hanno indotto le quattro principali compagnie di trasporto occidentale - la compagnia svizzera MSC, la francese CMA CGM, la danese Maersk e la tedesca Hapag Lloyd- a circumnavigare l’Africa, passando dal Capo di Buona Speranza. E altre 18 compagnie hanno preso la medesima decisione.

Questo significa che, per trasportare petrolio dal Medioriente verso l’Europa si dovranno percorrere 9.600 chilometri in più, mettere in conto una spesa addizionale di oltre 300.000 euro in carburante, un ritardo di almeno 10 giorni nella consegna, e un aumento dei costi valutato oggi fino al 170% in più.

Secondo Port Watch, la piattaforma del Fondo Monetario Internazionale che monitora il commercio marittimo, il traffico di merci sul Mar Rosso è diminuito del 53% rispetto al 7 gennaio dello scorso anno e, da metà novembre, ha registrato numeri inferiori al 33,4%, con ulteriori ribassi a partire da dicembre.

In Germania, Tesla, il colosso delle auto elettriche, guidato da Elon Musk, ha dichiarato che sospenderà la produzione nella gigafactory di Berlino-Brandeburgo, dal 29 gennaio al 12 febbraio, a causa della mancanza di componenti dovuta all’allungamento dei tempi di consegna, e che per questo ci saranno tra le 5.000 e le 7.000 auto in meno del previsto.

Intanto, i media europei si dedicano a demolire la forza e la credibilità degli houthi yemeniti. Un movimento sciita, nato tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento nello Yemen del nord, unico luogo al mondo dove si pratichi quella corrente dell'Islam sciita conosciuta come zaidismo. Un movimento che si definisce antimperialista e antisionista, alleato dell’Iran e di Hezbollah che, oltre alla capitale, controlla grosse porzioni di territorio del martoriato paese, uno dei paesi più poveri della penisola arabica.

Un paese che, prima della caduta dell’Unione sovietica e del dilagare del tribalismo su cui hanno soffiato l’imperialismo nordamericano e i suoi alleati, per ventitré anni, alla fine del secolo scorso, ha costruito l’unico stato apertamente socialista di tutto il mondo arabo. Nell’allora Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Rdpy, anche nota come Yemen del Sud, un paese di due milioni di abitanti), ci fu una riforma agraria, pari diritti per le donne, lotta all’analfabetismo e deciso aumento del livello di vita delle masse popolari.

Sulle ceneri di quelle speranze, oggi la determinazione degli houthi sta dando un messaggio di resistenza e di riuscita contro la potenza militare più forte del pianeta. Tacciono, invece, i media, sull’arroganza con la quale, mentre bloccano ogni risoluzione per fermare il massacro di Gaza, gli Stati Uniti piegano a proprio vantaggio l’interpretazione delle norme internazionali, per risolvere in termini militari “il diritto di difendere le navi”. Dietro la retorica dei “diritti umani”, fra il denaro e la vita dei bambini, la bilancia pende a favore del primo.

(Articolo scritto per Cuatro F)

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