di Vincenzo Costa*
Il jukebox ha tagliato il corpo sociale come una lama. E' diverso il modo di sentire del ragazzo da oratorio o del ragazzo cresciuto in una cameretta da quello dei ragazzi del jukebox.
Jukebox significava ascoltare musica al bar, con altri, a seconda di chi aveva qualche lira da mettere dentro, di solito perché non avevi un apparecchio per ascoltarla in altro modo. Si ascoltava musica diversa perché si abitavano mondi diversi, erano diversi i corpi, si sentiva diversamente.
Il mio ultimo incontro col jukebox fu nell'83, a Rho, dove ero approdato in attesa di sapere se avrei potuto fare o no l'università. Nel frattempo, e nell'angoscia dell'incertezza, facevo lavoretti, manovale, imbianchino, picchiandomi con un ragazzo egiziano che mi aveva fregato un lavoretto.
Le strade di Rho avevano un sapore strano, respiravi la solitudine come respiravi la puzza di quella città, un po' dormitorio un po' industriale e in crescita.
Ragazze manco a parlarne, chi le vedeva, non si conosceva nessuno. Un pomeriggio mi ritrovai a pensare: beh, mi piacerebbe avere qualcuno con cui parlare almeno. Ma niente. Le prime settimane erano camminate nel deserto.
Erano settimane senza vento, il tempo immobile, teso ma sfilacciato. Un'aria cupa, e il terreno che sembrava franare sotto i piedi.
E allora fai amicizia coi primi che capita, al bar, davanti al jukebox. Altri ragazzi del sud in cerca di lavoro, un ragazzo zingaro che si drogava con la benzina, sempre con uno straccio bagnato di benzina che una puzza da impazzire, qualche spacciatore.
Papà mi aveva raccomandato di tenermi lontano dai guai, che "con le carte macchiate sei fregato per la vita", ma i guai ti cercano sempre loro. Così una sera mentre camminavo mi sento chiamare (da Pino jachino, che qualche mese fa se ne è andato da questo mondo) e mi trovo coinvolto in una scazzottata che alla fine Ragnar Lotbrok dell'inizio di Vikings al confronto era più presentabile. Coi guai che ne conseguono.
E in tutti un misto di ansia, paura e speranza. In fondo era un altro tempo. Per quanto fossimo tutti ragazzi di paese, sradicati da una cultura contadina, per quanto grande fosse la paura, il senso di confusione, c'era la certezza che comunque sarebbe stato meglio, che peggio non poteva essere.
E tutti attorno al jukebox, alle canzoni del 1983. Non canzoni in inglese, che nessuno sapeva una parola di inglese, e per la verità anche l'italiano non era molto praticato. Si parlava in siciliano o in calabrese. Canzoni senza cultura, da industria culturale, Scialpi, Mimmo Cavallo (stancami musica, altre chicche che nessuno credo conosca nella mia bolla). La cultura dei ragazzi del jukebox
Musica da niente, musica da ragazzi da jukebox, ma avevo un senso di vicinanza alla vita, di esserci immerso. Reattivo sino al midollo, in perenne stato di allerta, con quella musica dentro la testa, la stessa musica che avevano in testa gli altri.
La musica che genera un "noi".
Poi iniziò l'università, altre cose si imposero, altre strade si aprirono, altre amicizie, che mi portavano dentro orizzonti differenti.
Dimenticai i ragazzi del jukebox, quasi vergognandomi di loro. Non vidi più un jukebox, né i ragazzi da jukebox. Quelle solitudini, quegli odori, quelle rabbie svanirono, inghiottite nell'abisso dell'oblio.
A volte mi chiedo se insieme al jukebox non svanì il mio mondo, un mondo che neanche avevo potuto assaporare perché a vent'anni non ti fermi mai, bruci tutto come se non lasciasse traccia. Divori sensazioni, legami, amori. Li vivi senza assaporarli, e subito sei divorato da altro. Alla fine neanche più ricordi, nell'oblio si perdono persino le strade che percorrevi.
Se sei colto e hai letto Proust a riportarti il tempo perduto e' un biscotto, ma se sei rimasto un ragazzo da Jukebox solo Scialpi riporta in vita quel mondo. L'ascolti e' quel mondo e' ancora lì, era sepolto dentro di te, ti chiama ancora, ti dice "tu mi appartieni".