Come ogni Venerdì, ecco il quarto dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".
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di Leonardo Sinigaglia
4-La questione nazionale, seconda parte
La sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi diede un intenso sviluppo alla riflessione sulla questione nazionale e sul patriottismo all’interno del mondo comunista, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici.
Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti ad opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l'indignazione delle masse contro Versailles”[1]. Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese” , e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale.
Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”[2].
Prese di posizioni corrette e coraggiose, purtroppo in ritardo rispetto agli eventi e non condivise da quella parte di partito ideologicamente deviata. Per questo motivo Dimitrov insistette particolarmente sull’identità tra i comunisti e i veri patrioti del proprio paese:
“Beninteso, è necessario denunciare ovunque e in ogni occasione davanti alle masse e dimostrare loro concretamente che la borghesia fascista, con il pretesto di difendere gli interessi nazionali generali, conduce la sua politica egoistica di oppressione e di sfruttamento del proprio popolo e di saccheggio e asservimento di altri popoli. Ma non dobbiamo limitarci a questo. E’ in pari tempo necessario dimostrare, con la lotta stessa della classe operaia e con l'azione dei partiti comunisti, che il proletariato, insorgendo contro ogni forma di asservimento e di oppressione nazionale, è l'unico vero combattente per la libertà nazionale e l'indipendenza del popolo. Gli interessi della lotta di classe del proletariato contro i suoi sfruttatori e oppressori del proprio paese non ostacolano affatto il libero e felice avvenire della nazione. Al contrario, la rivoluzione socialista significherà la salvezza della nazione e le aprirà la strada verso altezze più elevate. Per il fatto stesso che la classe operaia, nel momento presente, crea le sue organizzazioni di classe e rafforza le sue posizioni, per il fatto che difende contro il fascismo i diritti democratici e la libertà, che essa lotta per l’abbattimento del capitalismo, essa, per questo stesso fatto, lotta già per un tale avvenire della nazione. Il proletariato rivoluzionario lotta per salvare la cultura del popolo, per liberarlo dalle catene del decadente capitalismo monopolistico, dal barbaro fascismo che la violenta. Solo la rivoluzione proletaria può evitare la distruzione della cultura e portarla al suo massimo splendore come cultura veramente nazionale – nazionale nella forma e socialista nel contenuto – che si realizza sotto i nostri occhi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sotto la direzione di Stalin[3]”.
Pensando al caso italiano, anche per quanto riguarda il nostro paese abbiamo la dimostrazione materiale di come la sottovalutazione e l’incomprensione della questione nazionale condanni inevitabilmente alla sconfitta. Una certa miopia politica camuffata per “ortodossia” spinse gran parte della prima dirigenza del Partito Comunista d’Italia a rimanere estranea al movimento dell’occupazione delle terre da parte dei reduci, alla lotta antifascista di formazioni quali gli Arditi del Popolo e a mantenere al minimo i contatti con De Ambris e D’Annunzio, che da Fiume lasciavano intravedere la possibilità di costruire una seria opposizione al fascismo proprio facendo leva sulla protesta contro la pace di Versailles, oltre che farsi aperti portatori di una “Lega dei popoli oppressi” che avrebbe unito, dall’Irlanda ai paesi arabi, colonie e semi-colonie contro le potenze imperialiste, con sguardo rivolto alla Russia sovietica.
L’internazionalismo astratto si mostrò per quello che era, vigliaccheria e capitolazionismo, spalancando le porte al fascismo incombente. La mancanza di volontà di pensarsi come parte del processo storico nazionale è stata una causa importante dell’incapacità da parte di comunisti e socialisti dell’inizio del XX Secolo di proporsi concretamente come classe dirigente del paese: non puoi dirigere ciò che non conosci e non valorizzi.
Non è un caso che proprio chi più coerentemente pose all’ordine del giorno l’evoluzione concreta del proletariato in classe dirigente, si pensi alla stagione dell’occupazione delle fabbriche e ai consigli di fabbrica, ossia Antonio Gramsci, non avesse il minimo dubbio nel collocare l’internazionalismo come prodotto di un’affermata tradizione nazionale, come ripresa e superamento delle conquiste della plurimillenaria civiltà italiana, cristiana e latina, e la classe lavoratrice come erede e continuatrice di questa:
“Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare? Questo sbocco è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. [...] L’elemento «uomo», nel presente italiano, o è uomo-capitale o è uomo-lavoro. L’espansione italiana è dell’uomo-lavoro, non dell’uomo-capitale e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. [...] La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata”[4]. Un’interpretazione della “missione storica” del popolo italiano che si può dire derivata da quella mazziniana: “E quando lo saranno – quando avrete assicurato a voi tutti il pane del corpo e quello dell’anima – quando liberi, uniti, intrecciate le destre come fratelli intorno a una madre amata, moverete in bella e santa armonia allo sviluppo delle vostre facoltà e della missione Italiana – ricordatevi che quella missione è l’unità morale d’Europa: ricordatevi gl’immensi doveri ch’essa v’impone. L’Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte. La vita d’Italia fu vita di tutti. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima, quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all’altro le terre cognite e le prepararono all’Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando, domati dalla potenza della natura, dalle grandi memorie e dall’ispirazione religiosa, i conquistatori settentrionali, il genio d’Italia s’incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola Unità nell’anima ai 55 popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio ed il pensiero delle Nazioni”[5].
Il tentativo dell’Asse di costruire una propria egemonia planetaria fondata sull’instaurazione di un regime coloniale (se non schiavile) nell’Unione Sovietica e in Cina riaprì la questione nazionale anche nell’Occidente travolto dalle armate hitleriane, ponendo all’ordine del giorno la necessità concreta di lottare per l’indipendenza nazionale in un contesto in cui questa era fondamentalmente minacciata. La vittoria di Hitler non avrebbe significato infatti unicamente un mutamento nei rapporti di forza tra i paesi imperialisti, ma una violenta e totale dominazione dei popoli di tutto il continente.
La sconfitta dell’Asse ad opera dell’Unione Sovietica, delle nazioni alleate, , degli eserciti cinesi e delle forze patriottiche di resistenza impedì la realizzazione di un tale scenario, ma l’ascesa degli Stati Uniti a potenza egemone del sistema capitalista e i loro progetti di estendere tale egemonia a livello planetario non poterono che riaffermare la necessità di per i comunisti di continuare a porre all’ordine del giorno la lotta per la liberazione nazionale, non solo nei paesi coloniali e semi-coloniali, ma anche nella stessa Europa capitalista, come espressamente raccomandato da Stalin:
“Prima la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l’indipendenza della nazione e li poneva “al di sopra di tutto”. Ora non vi è più traccia del “principio nazionale”, oggi la borghesia vende i diritti e l’indipendenza della nazione per dei dollari. La bandiera dell’indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto”[6].
La questione dell’indipendenza nazionale si venne a porre con grande importanza anche in Italia, trovatasi suo malgrado nel campo atlantico. La grande borghesia italiana, seppur mossa per un certo periodo dall’ambizione di trasformare l’Italia in una potenza imperialista, non riuscì mai ad emanciparsi completamente né dalla necessità di sussidi pubblici, né dall’influenza determinante del capitale straniero, che fosse francese, inglese o tedesco, tanto che nel 1919, dalle colonne de L’Avanti!, Gramsci potè affermare: “L’Italia è diventata un mercato di sfruttamento coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni, tutto fuorché uno stato indipendente e sovrano. […] Quanto più la classe dirigente ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione una personalità storica indipendente"[7]. Ma a seguito del biennio ‘48-’49 la situazione conobbe un cambiamento determinante, con la concreta riduzione dell’Italia a un protettorato, una semi-colonia dell’impero statunitense.
Il Partito Comunista Italiano, memore delle lezioni del passato e attento all’esempio dato dall’Unione Sovietica, seppe per tutti gli Anni’ 30 e ‘40 porsi correttamente come guida della lotta per la liberazione nazionale, contribuendo a organizzare i volontari garibaldini in Spagna ed Etiopia, preparando così il terreno per la Guerra di Liberazione Nazionale del’43-’45. E’ proprio in questa occasione che i comunisti, a guida dei più grandi contingenti partigiani, seppero dare maggiore prova del loro patriottismo e del loro diritto a proporsi come unica forza politica capace di portare avanti lo sviluppo storico della nazione italiana dopo il conclamato fallimento del sistema liberal-capitalista, sfociato nella anti-nazionale dittatura fascista e nella catastrofe bellica. I comunisti italiani mostravano come ci fosse perfetta identità tra essere forza rivoluzionaria, progressiva, internazionalista e patriottica. Luigi Longo lo ribadì:
“Si vogliono dare lezioni di patriottismo a noi comunisti; ma nessuno può dare lezioni di patriottismo a noi; perché, noi comunisti, siamo i soli che abbiamo sempre difeso gli interessi vitali del nostro popolo e della nostra Patria. Non ci possono certo dar lezioni di patriottismo i fascisti e i monarchici che hanno portato il nostro paese alla catastrofe. Sono essi che hanno ridotto l’Italia, da potenza libera e indipendente da che era, a paese occupato di cui si discutono le frontiere e la stessa unità. Non ci possono certo dare lezioni di patriottismo le classi dirigenti italiane, che hanno fatto, fino a ieri, il bello e il cattivo tempo, e che ci hanno dato il fascismo, la guerra e la catastrofe finale. Sono queste classi dirigenti che, ieri, per egoistici interessi di casta, hanno asservito l’Italia alla Germania nazista, e che, oggi, sono pronte a cercare un nuovo padrone che le garantisca contro le richieste di una maggiore giustizia sociale e contro la democrazia”[8].
Ancora più profonda l’identificazione tra patriottismo e internazionalismo operata nei contesti coloniali e semi-coloniali, dove la lotta per il socialismo, dovendo in primis abbattere l’ostacolo dato dalla dominazione straniera, non conobbe mai degenerazioni “anti-patriottiche” e il manifestarsi del nichilismo nazionale. Il Partito Comunista Cinese è uno degli esempi più calzanti di questa identità, da vedersi non come una “somma” o un congiungimento, ma una manifestazione pratica della nuova realtà portata dalla rivoluzione socialista, come affermato da Mao Zedong:
“Sin dagli albori della storia non è mai stato possibile fondare le relazioni tra le nazioni su una tale identità di interessi, su un tale rispetto e fiducia reciproci, su una tale assistenza e ispirazione reciproca quali sono in vigore tra i paesi socialisti. Questo perché i paesi socialisti sono paesi di un tipo completamente nuovo in cui le classi sfruttatrici vengono rovesciate e i lavoratori sono al potere. Nelle relazioni tra questi paesi è praticato il principio dell’integrazione tra patriottismo e internazionalismo”[9].
Questa visione risulta oggi completamente assente all’interno della “sinistra occidentale”, ma è più viva che mai negli Stati socialisti o in quelli dove le forze comuniste godono di una grande influenza sociale. Qui il patriottismo viene visto come un’insostituibile virtù dei cittadini e una necessità per ogni vero comunista, e non deve sorprendere che, davanti all’intensificarsi della lotta “tra due -ismi” a livello internazionale data dallo sviluppo del multipolarismo e dalla crisi dell’egemonismo statunitense, la Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione di Xi Jinping, abbia promosso nell’ottobre del 2023 la Legge per l’Educazione Patriottica, per rafforzare lo spirito patriottico tra i giovani e promuovere il ringiovanimento nazionale.
Nelle parole dello stesso Xi Jinping, l’amore per la propria patria non è solo “il più profondo e duraturo sentimento al mondo”[10], ma anche una “potente sorgente di forza per difendere la nostra dignità e l’indipendenza nazionale”[11] su cui basarsi per la realizzazione del sogno cinese e per sviluppare sempre più il sistema socialista con caratteristiche cinesi.
L’attuale processo di multipolarizzazione altro non è che una guerra di liberazione internazionale che si compone anche delle singole lotte di liberazione dei vari paesi contro l’egemonismo di Washington, ossia la dittatura terroristica internazionale dei cartelli finanziari che controllano il regime nordamericano. L’unipolarismo statunitense ha portato a un’elisione senza precedenti della sovranità e dell’indipendenza delle nazioni, asservendo in una gerarchizzazione totale e ineludibile tutti i popoli della Terra, portando così l’imperialismo nella sua fase apicale. L’abbattimento dell’ordine internazionale unipolare è condizione essenziale per poter garantire un libero sviluppo politico e sociale dei vari popoli.
Finché l’impero di Washington avrà potere e influenza, finché il Dollaro, la sua forza militare e il suo “soft power” continueranno a godere della forza che hanno oggi, nessun paese al mondo potrà dirsi totalmente indipendente e sicuro nella sua condizione. La sovranità illimitata che Washington si attribuisce deriva precisamente dall’azzeramento della sovranità degli altri paesi, che possono sopravvivere solo nei temi, modi e termini decisi dal centro egemonico. L’opposizione a questo ordine di cose è presentata alle varie opinioni pubbliche come qualcosa di intrinsecamente “pericoloso”, “destabilizzante” o “irrazionale”. Solo “autocrati” affamati di potere e “fondamentalisti” di varia risma potrebbero concepire un’esistenza diversa rispetto a quella passata sotto al tallone di Washington.
Tale propaganda può funzionare in primo luogo perché nei paesi occidentali e in quelli più controllati dal regime unipolare è stato sapientemente spinto il nichilismo storico come rimedio a qualsiasi pulsione alla dignità e al coraggio. Il nichilismo storico è la tendenza a considerare in maniera astratta e decontestualizzata o a ripudiare interi periodi della Storia di una nazione o di una civiltà. Esso trova un ambiente favorevole sia nell’aperto liberalismo, sia nei vari gruppi che, da destra e “sinistra”, millantano posizioni “antisistema”. Si tratta di una potente arma dell’egemonia, strumentale nel distruggere la consapevolezza storica e sociale del popolo, portandolo ad abbandonare la fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità.
La lotta contro il nichilismo storico riflette la lotta di classe in un particolare settore ideologico. Il Presidente Xi Jinping e tutto il Partito Comunista Cinese sono non a caso da anni impegnati in una serrata lotta contro il nichilismo storico, correttamente individuato come uno degli strumenti che favorirono il crollo dell’Unione Sovietica, portando prima alla denuncia di Stalin, quindi di Lenin, della stessa rivoluzione e della dittatura del proletariato. Ma il nichilismo storico può essere utilizzato come arma non solo per abbattere il potere comunista e fomentare la sovversione ideologica nel contesto di una società socialista: esso agisce anche nei paesi sottoposti alla dominazione imperialista per delegittimare e denigrare la Storia di questi, presentandola sotto la sua luce peggiore e negando i suoi successi.
Concretamente, il nichilismo storico trova applicazione anche nella negazione di tutte le conquiste storiche di un popolo, alimentando la narrazione che lo vorrebbe eternamente condannato a un ruolo subalterno perché “incapace di gestirsi”, “non abbastanza disciplinato” o in altro modo internamente viziato da qualche mancanza impossibilitante. Ciò porta a vedere il dominio di Washington come “condizione naturale” preferibile alla barbarie generata da “popoli bambini” lasciati a se stessi. La lotta contro il nichilismo storico, promosso da destra e da “sinistra”, è quindi un parte importante della lotta antimperialista.
Il mondo multipolare che sta venendo costruito rappresenterà la negazione dell’egemonismo. Ciò non sta a significare l’avvento di un’era di “protezionismo radicale” con ogni paese, o gruppo di paesi, chiuso e ripiegato su se stesso, ma la formazione di un nuovo ordine internazionale segnato da una dialettica tra indipendenza e interdipendenza, rappresentato dal concetto proposto dal presidente Xi Jinping di Comunità umana dal futuro condiviso, fondato sull’uguaglianza della sovranità dei vari paesi, il rispetto reciproco e la cooperazione mutualmente vantaggiosa, oltre che la coesistenza armoniosa di diverse civiltà e culture. Lo sviluppo capitalistico ha fatto segnare la questione nazionale da due tendenze: da un lato quella alla lotta per l’indipendenza nazionale e alla costruzione di Stati nazionali; dall’altro quella al venir meno delle barriere tra gli Stati e la creazione di una vita economica internazionale, ossia della globalizzazione.
Queste due tendenze, all’indipendenza e all’interdipendenza, rappresentano per l’imperialismo due opposti inconciliabili, ma non è così per il socialismo: “Per l'imperialismo queste due tendenze rappresentano contraddizioni inconciliabili; perché l’imperialismo non può esistere senza sfruttare le colonie e trattenerle con la forza nel quadro dell’“insieme integrale”; perché l’imperialismo può unire le nazioni solo attraverso le annessioni e le conquiste coloniali, senza le quali l’imperialismo è, in generale, inconcepibile. Per il comunismo, al contrario, queste tendenze non sono che due facce di un'unica causa: la causa dell'emancipazione dei popoli oppressi dal giogo dell'imperialismo; perché il comunismo sa che l’unione dei popoli in un unico sistema economico mondiale è possibile solo sulla base della fiducia reciproca e dell’accordo volontario, e che la strada per la formazione di un’unione volontaria dei popoli passa attraverso la separazione delle colonie dall’insieme imperialista integrale attraverso la trasformazione delle colonie in Stati indipendenti”[12].
Nella costruzione di un mondo multipolare non possiamo che vedere l’ultimo sostanziale passo verso l’emancipazione dei popoli dal sistema imperialista, che, venendo meno, aprirà le porte a un’epoca segnata dalla piena vittoria della rivoluzione sociale.
[1] G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 17.
[2] Comitato Centrale del KPD, Dichiarazione programmatica per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco, Die Rote Fahne, 24 agosto 1930.
[3] G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 69.
[4] A. Gramsci, Risorgimento, Quaderno IX, 127.
[5] G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo, Katechon Edizioni, Fermo, 2023, pp. 55-56.
[6] I. Stalin, Discorso al XIX Congresso del PCUS, in Verso il Comunismo, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1952, p. 8.
[7] A. Gramsci, Italiani e cinesi, in L’Avanti!, 18 luglio 1919.
[8] L. Longo, Nessuno può dare lezioni di patriottismo ai comunisti, supplemento a Quaderno del propagandista, febbraio 1946.
[9] Mao Zedong, Speech at Moscow Celebration Meeting, in People's China, 1 dicembre 1957.
[10] Xi Jinping, Discorso a un simposio con gli studenti dell’Università di Pechino, 2 maggio 2018.
[11] Xi Jinping, Discorso alla cerimonia commemorativa per il centenario del Movimento del 4 Maggio, 30 aprile 2019.
[12] I. Stalin, Foundation of Leninism, Parigi, Foreign Languages Press, 2020, p. 67.
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