Come ogni Venerdì, ecco il settimo dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo".
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di Leonardo Sinigaglia
7-Multipolarismo e comunità umana dal futuro condiviso, parte 2
Gli scontri interni al campo socialista, uniti alla degenerazione ideologica esemplificata dal nichilismo storico e all’incapacità di reggere il confronto economico con l’Occidente, contribuirono all’indebolimento dell’Unione Sovietica, che non sopravvisse alle “riforme” di Gorbaciov. Il disfacimento dell’Unione privò il mondo di un grande argine allo strapotere statunitense. La Repubblica Popolare Cinese, con cui a partire dal 1972 gli Stati Uniti avevano normalizzato le relazioni diplomatiche, era ancora economicamente e militarmente troppo arretrata per rappresentare un ostacolo, e l’Occidente coltivava persino l’illusione che questa avrebbe seguito la strada dell’URSS, accettando una “evoluzione pacifica” verso il liberalismo e la piena restaurazione del capitalismo.
Per l’Occidente si aprì un periodo di stabilità, sviluppo e innovazione, che nel resto del mondo fu però segnato dalla tragedia di conflitti senza fine, incertezza, instabilità e insicurezza. La definizione scientifica più precisa e valida della nuova fase venutasi a creare è stata fornita dal grande studioso marxista cinese Cheng Enfu, presidente della Scuola di Marxismo e dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali. Per rappresentare la specifica fase contemporanea caratterizzata dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione del capitale monopolistico egli ha introdotto il termine “neoimperialismo”[1]. Di questo egli ha individuato le cinque caratteristiche principali:
A partire dalla stagflazione degli Anni ‘70 una marcata concentrazione del capitale si è associata ad una sua più grande internazionalizzazione, con le aziende che, per tutelare i propri margini di profitto, hanno spostato i propri investimenti oltreoceano. Il numero delle multinazionali è cresciuto, ed esse sono diventate gigantesche, capaci di torreggiare persino sull’economia di intere nazioni. Il controllo sulla produzione e sui mercati ha permesso di far accelerare l’accumulazione di capitale, catalizzata anche dalla promozione della liberalizzazione degli investimenti e dall’abbattimento di ogni tipo di barriera, che ha costretto sempre più aziende piccole, medie e grandi alla bancarotta o alla fusione con le multinazionali.
Il capitale finanziario, fusione del capitale bancario con quello industriale, ha potuto svilupparsi pienamente solo venute meno le barriere tecniche e politiche a un più stretto collegamento tra gli investimenti internazionali, la finanza e i mercati. A partire dagli Anni ‘70 la globalizzazione a trazione statunitense e la finanziarizzazione dell’economia hanno permesso uno sviluppo senza precedenti del capitale finanziario.
Non a caso oggi la maggior parte dei soggetti multinazionali che controllano monopolisticamente l’economia sono banche, che, attraverso partecipazioni azionarie e fusioni sono capaci di controllare istituti minori e, a cascata, le principali arterie dell’economia mondiale. Il processo di concentrazione del capitale ha raggiunto livelli esorbitanti, come descritto da una ricerca di alcuni accademici svizzeri nel 2011: “Nel dettaglio, quasi il 40% del controllo sul valore economico delle multinazionali nel mondo è detenuto, attraverso una complicata rete di rapporti di proprietà, da un gruppo di 147 multinazionali centrali, che ha quasi il pieno controllo su se stesso. I principali azionisti all’interno del nucleo centrale possono quindi essere considerati una “super-entità” economica nella rete globale delle società. Un ulteriore fatto rilevante a questo punto è che il 75% del nucleo principale sono intermediari finanziari”[2].
Le politiche volte alla liberalizzazione finanziaria hanno letteralmente svuotato l’economia reale a favore della finanza speculativa, e hanno messo a disposizione del centro imperialista uno strumento di predazione rivolto contro le classi subalterne e i paesi periferici. La corsa alla deregolamentazione ha rimosso le più significative barriere all’attività finanziaria. Un momento importante fu il venir meno della separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, una norma diffusasi in tutto il mondo a seguito della crisi del 1929: ad esempio, Il governo Amato nel 1993 si mosse in questo senso, abolendo tramite il “Testo Unico” la Legge Bancaria del 1936; sei anni dopo fu seguito dal presidente americano Clinton, che promulgò l’abolizione del Glass-Steagall Act del 1933.
L’economia reale fu letteralmente svuotata a favore della finanza speculativa, e l’espansione del capitale finanziario verificatasi negli ultimi decenni è strettamente connessa alla deindustrializzazione che ha attraversato l’Occidente. Il capitale, non trovando sbocchi sufficientemente profittevoli di natura produttiva, venne destinato ad attività speculative. Gli stessi profitti delle aziende non permettono più di coprire i crescenti debiti, ma unicamente di ricomprare le azioni emesse per gonfiarne artificialmente il valore e attrarre così nuovi investimenti: 449 delle 500 aziende elencate dallo Standard & Poor’s 500 Index hanno utilizzato tra 2003 e 2012 ben 2.400 miliardi di dollari per ricomprare le proprie azioni, ossia il 54% dei loro ricavi[3]. La sovraestensione dell’economia finanziaria a detrimento dell’economia reale, unita alla stagnazione economica, ha portato persino il consumo a dover essere sostenuto dal credito, mentre le bolle azionarie attirano sempre più investimenti nell’economia finanziaria.
Grazie ai lasciti del sistema stabilito a Bretton Woods nel 1944, gli Stati Uniti possono scambiare direttamente la loro moneta per beni reali, lavoro e risorse, affrontando così il loro deficit economico e fiscale. Il ruolo centrale del dollaro nell’economia mondiale favorisce il trasferimento delle ricchezze dai paesi debitori a quelli creditori, in primis verso gli Stati Uniti d’America. Persino la Repubblica Popolare Cinese, nonostante il suo enorme sviluppo, è ancora vittima di questo meccanismo: essa vende agli USA beni a basso costo e le sue risorse, venendo pagata in dollari che possono essere utilizzati solo per comprare beni virtuali o buoni del Tesoro americani, fornendo così credito agli USA. Al contrario, gli Stati Uniti esportano, in Cina come altrove, servizi o beni ai quali non si può aggiungere valore.
Il ruolo del dollaro garantisce agli Stati Uniti il monopolio internazionale del credito, permette di sostenere la concentrazione di capitali tramite il finanziamento di acquisizioni e fusioni, e si pone concretamente come freno allo sviluppo delle economie del resto del mondo, non in ultimo luogo tramite la crescente inflazione provocata dalla massa sempre più grande di dollari messi in circolazione. Similmente, anche il controllo dei brevetti agisce in questo senso, prevenendo il trasferimento tecnologico e garantendo uno strumento per imporre il rispetto delle sanzioni.
La caratteristica più evidente di questa nuova fase imperialista è la ripartizione tra un egemone e una serie di paesi ad esso strettamente collegati, che compongono il “centro imperiale”. Il centro di questo è il G7, che funge da piattaforma di coordinamento, strettamente connessa per l’esecuzione delle sue decisioni a enti internazionali come l’FMI, la WTO e la Banca Mondiale. L’ordine internazionale così costituito non è nient’altro che un alleanza di alto livello dei principali monopoli capitalisti, controllata dagli Stati Uniti per perseguire i propri interessi strategici. A partire degli Anni ‘70 queste strutture sono state le principali promotrici della controrivoluzione neoliberale, imponendo il Washington Consensus a livello internazionale e condannando così interi paesi al sottosviluppo, a vantaggio di pochi creditori, direzionando verso Washington il plusvalore. La NATO è lo strumento di pressione militare di questa alleanza. Creata in funzione anticomunista nel 1949, a partire dalle illegali aggressioni contro la Jugoslavia e l’Iraq essa è diventata espressamente uno strumento offensivo e dalla portata globale, caratteristiche accentuate negli ultimi anni con la persistente volontà americana di creare una “NATO del Pacifico” e integrare sempre più paesi extraeuropei nell’alleanza.
Il neoimperialismo non è altro che un nuovo stadio dell’imperialismo, segnato da una maggiore concentrazione di capitale e dalla monopolizzazione delle risorse, dei mezzi di produzione, delle conoscenze, delle reti logistiche da parte del capitale finanziario monopolistico. L’acutizzazione delle tendenze già descritte da Lenin all’inizio del secolo scorso ha portato al saccheggio sia della classe lavoratrice che dell’economia di interi paesi.
Il controllo dei prezzi e la creazione di bolle speculative permette l’intenso sfruttamento dei paesi stranieri; la privatizzazione dei beni pubblici e statali garantisce che la ricchezza collettiva cada nelle mani di pochi speculatori; il dominio nella finanza, nel commercio, nella sfera dell’informazione e in quella bellica permette di accentuare la divisione gerarchica tra centro e periferia. Si tratta di un meccanismo di polarizzazione visibile tanto all’interno delle società occidentali quanto a livello globale. Gli Stati Uniti esercitano una funzione parassitaria sull’economia mondiale: la ricchezza prodotta viene diretta verso i patrimoni dei pochi oligarchi della finanza che controllano la Casa Bianca.
Questo natura parassitaria viene occultata retoricamente, ma emerge con sempre più forza nelle manifeste contraddizioni tra l’elogio del libero mercato e la guerra economica condotta contro paesi strategicamente “pericolosi”, tra la professione di fede democratica e “doppi standard” applicati a livello internazionale, tra vocazione “libertaria” e sistematica occupazione dei centri culturali, dei media, della sfera dell’informazione, del mondo accademico e del cyberspazio, tra “difesa della pace” e ricorso a ogni strumento di guerra, ibrida o diretta, per sostenere la propria egemonia. Tutto ciò indica come l’imperialismo sia ancor più moribondo e decadente rispetto ai tempi di Lenin, e suggerisce che, al di là dei rovesci subiti da alcuni paesi socialisti nel secolo scorso, la tendenza storica generale non sia mutata.
Lo stadio definito da Cheng Enfu come “neoimperialista” si può dire inizi con il 1991, inaugurando l’era in cui il progetto egemonico di Washington raggiunge il suo apice. Ma proprio la realizzazione di questo progetto egemonico si accompagna alla sempre più marcata comparsa delle spinte contrarie, quelle verso la multipolarizzazione del mondo e la democratizzazione dei rapporti internazionali.
A seguito del crollo dell’Unione Sovietica e dei paesi ad essa alleati, gli Stati Uniti poterono imporre violentemente il proprio dominio al resto del mondo, come testimoniano sia le ferocissime campagne militari, che dall’Iraq alla Serbia costarono milioni di morti, sia l’imposizione, più o meno sorridente, di misure economiche liberiste e del paradigma del Washington Consensus, politiche atte a favorire gli interessi della finanza di Wall Street a detrimento della stragrande maggioranza della popolazione. La globalizzazione a trazione statunitense, che almeno dal Nixon Shock in poi si era retta sempre più sulla speculazione e sulle capacità “dissuasive” date dal potenziale bellico statunitense, poté imporsi globalmente come unico modello concepibile, la vera e propria “fine della Storia” a cui ogni paese si sarebbe dovuto inesorabilmente adeguare.
Questa visione, popolarizzata dal teorico sostenitore dell’imperialismo occidentale Francis Fukuyama, avrebbe accompagnato la coscienza delle oligarchie occidentale per gli anni a venire. Ma intanto la talpa scavava, e si preparava ad uscire fuori: la globalizzazione guidata da Washington non aveva solo integrato i mercati mondiali, ma aveva unito davanti a un comune oppressore, infinitamente arrogante e affamato, la stragrande maggioranza dell’Umanità. Sarebbe stata solo una questione di tempo prima che emergesse una guida politica capace di condurre la lotta anti-egemonica.
I presupposti erano già pienamente visibili. La Repubblica Popolare Cinese, dopo aver efficacemente soppresso il tentativo di sovversione liberale avvenuto nel 1989, continuava la sua poderosa ascesa economica, collegando strategicamente la propria economia a quelle occidentali e frustrando così ogni progetto sanzionatori; la Federazione Russa resisteva al tentativo di ridurla a uno stato semi-coloniale messo in campo dagli USA a partire dalla presidenza Eltsin e, accanto agli oligarchi e dei vari svendi patria, continuavano a godere di grande potere i settori legati alle forze armate, ai servizi di sicurezza e all’economia pubblica; l’Iran, uscito con grandi danni dalla guerra imposta contro l’Iraq, poteva avviare un grande rafforzamento economico, politico e militare. Accanto a questi paesi si andava a costruire un ampio fronte, unito dalla comune volontà di difendere la propria indipendenza e di ribellarsi, per quanto inizialmente in maniera assai cauta, a paradigmi internazionali marcatamente squilibrati a favore di Washington.
Il pericolo strategico era reale, come previsto da Brzezinski nel 1997, stesso anno in cui la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese firmarono una dichiarazione congiunta sulla costruzione di un mondo multipolare e di un nuovo ordine internazionale: “ “Potenzialmente, lo scenario più pericoloso sarebbe quello di una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iran, una coalizione “antiegemonica” unita non dall’ideologia ma da rivendicazioni complementari. Ricorderebbe per dimensioni e portata la sfida posta una volta dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta la Cina sarebbe probabilmente a guidare e la Russia seguirebbe”[4]. Le bombe cadute su Belgrado, Kabul e Baghdad, le “rivoluzioni colorate” esplose in tutta l’Eurasia, gli squadroni della morte schierati dalle multinazionali americane contro i sindacalisti sudamericani e le riforme strutturali imposte dal Fondo Monetario Internazionale capaci di mettere in ginocchio interi paesi avrebbero creato il terreno necessario a far crescere questa “coalizione antiegemonica”. In questo contesto, gli Stati Uniti, nel loro attacco globale all’autodeterminazione e alla sovranità popolare, avevano allora come unico obiettivo salvaguardare il proprio progetto egemonico scongiurando l’avvento di nuovi concorrenti e il rafforzamento degli esistenti. I paesi “ribelli” dovevano essere puniti: dal Venezuela del presidente Chavez, contro il quale furono organizzati innumerevoli tentativi di golpe, alla Jamahiriya libica, a più riprese attaccata e alla fine distrutta, all’Iraq, anch’esso annientato e occupato militarmente.
La costruzione dell’unipolarismo americano, il “nuovo ordine mondiale” di G.W. Bush, vide parallelamente emergere un’opposizione sempre più aperta, galvanizzata anche dalla grande crisi economica apertasi nel biennio 2007-2008, che diffuse ancora di più a livello internazionale le critiche e le contestazioni alla globalizzazione a trazione statunitense. Le economie emergenti necessitavano di margini d’azione che l’egemonismo statunitense non poteva concedere, e per questo si organizzarono in strutture multilaterali come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, fondata nel 2001, oppure i BRICS, creati nel 2009. I primi segnali di un cambiamento di fase significativo si ebbero nel 2008, quando sotto la presidenza di Barack Obama l’interesse americano si spostò dal Medio Oriente al Pacifico, secondo la dottrina di contenimento nota come Pivot to Asia. La Cina veniva identificata come uno dei principali avversari strategici, cosicché l’attenzione statunitense dovette spostarsi a Est per tentare l’accerchiamento, facendosi forze sui propri possedimenti semi-coloniali in Giappone, Corea del Sud e sull’isola di Taiwan, strappata al governo del Kuomintang grazie a rivoluzioni colorate in tutto e per tutto simili a quelle organizzate nell’Europa orientale. Nello stesso tempo non diminuì la pressione sul settore mediorientale, con lo scatenarsi delle “primavere arabe”, aventi il triplice obiettivo di distruggere governi ostili, indebolire la presenza russo-iraniana nella regione araba e rompere i legami fra i due lati del Mediterraneo.
Libia, Tunisia, Egitto, Yemen caddero nel caos. La Siria, sede dell’importante base navale russa di Tartus, sembrò sul punto di cedere, con aspri combattimenti a pochi chilometri dagli uffici del presidente Bashar al-Asad, ma grazie all’intervento militare diretto della Federazione Russa e dell’Iran le milizie jihadiste collegate ad Israele e Stati Uniti e lo Stato Islamico furono ridotte a controllare poche roccaforti. Solo la zona di Idlib e la parte ad est dell’Eufrate, occupata dalle forze curde filo-americane e dalle stesse truppe statunitensi, rimasero in mani nemiche. L’intervento nel conflitto siriano da parte della Federazione Russa segnò la prima sconfitta strategica dell’egemonia statunitense, che non riuscì a “pacificare” la regione sotto la sua bandiera. L’intero Medio Oriente sarebbe stato strappato al controllo di Washington grazie a un progressivo rafforzamento dell’Iran e dei movimenti di resistenza nei vari paesi, dalla Palestina all’Iraq.
Accanto alla strategia di contenimento della Cina vi era quella dell’aggressione diretta contro la Federazione Russa. Con il golpe di Euromaidan, che mise al potere in Ucraina un regime ultra-nazionalista fondato sul revanscismo anti-russo e sull’esaltazione dei collaborazionisti nazisti della Grande Guerra Patriottica, venne creata la testa di ponte necessaria alla lotta contro Mosca, che, nei piani degli imperialisti, sarebbe dovuta essere rinforzata da regimi similari che altre “rivoluzioni colorate” avrebbero portato al potere in Bielorussia e Kazakhstan, dove, però, i tentativi di destabilizzazione vennero repressi. Dal Donbass al Pacifico, passando per la Siria, si aprì così la linea del fronte principale tra multipolarismo e unipolarismo. Principale, ma non unica: l’Africa e il Sud America divennero anch’essi focolai di conflittualità, basti pensare a golpe come quello “bianco” contro Lula o quello militare, dalla momentanea efficacia, contro Morales, o ancora all’Operazione Gedeone che, nella mente di Trump e dei suoi consiglieri, avrebbe dovuto abbattere il Venezuela bolivariano.
Il primo punto di questo fronte a deflagrare in una guerra aperta è stato quello ucraino, con l’intervento russo nel febbraio del 2022 a sostegno delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk. Questo intervento, reso inevitabile dalla manifesta indisponibilità da parte dell’Occidente ad arrivare a qualsiasi mediazione e dal carattere sempre più aggressivo del regime di Kiev è stato un catalizzatore dei processi internazionali in corso, portando l’Occidente ad essere sempre più isolato a livello mondiale e diseguale al suo interno, con gli Stati Uniti capaci ora di imporre cocenti umiliazioni come l’imposizione di regimi sanzionati autolesionisti e l’attentato al Nord Stream 2 ad alleati subalterni un tempo aventi notevoli spazi d’autonomia come la Germania. Allo stesso tempo il resto del mondo ha visto aumentare i legami e le forme d’integrazione, sia a livello politico, con una crescita dei partenariati strategici, sia economico e finanziario, con la mirabile espansione dei BRICS e l'accelerazione del processo di de-dollarizzazione. Le politiche anti-russe dei paesi occidentali, adottate in ossequio agli ordini della Casa Bianca, hanno portato a un progressivo scollamento persino in campo atlantico, con la crescente indisposizione di paesi come la Turchia, l’Ungheria e la Slovacchia a vedere i propri interessi nazionali sacrificati sull’altare di una guerra per procura contro la Federazione Russa.
L’esplosione del conflitto aperto in Ucraina e Donbass non è stata che l’inizio. Parallelamente sono cresciute le tensioni nella penisola coreana e nel Mar Cinese Meridionale, con paesi come il Giappone e le Filippine e autorità come quelle di Seoul e di Taipei progressivamente preparata materialmente (e psicologicamente) al conflitto armato con la Repubblica Popolare Cinese. Nel continente africano numerosi paesi sono riusciti a sottrarsi al controllo neocoloniale di Parigi e Washington, sia tramite colpi di Stato militari fortemente appoggiati dalla popolazione, come nei casi di Niger, Burkina Faso, Guinea e Mali, sia tramite regolari elezioni, come nel caso del Senegal.
L’appoggio di Russia, Cina e Iran è stato centrale per frustrare i tentativi di riconquista da parte delle forze occidentali, come nel caso delle minacce di intervento armato francese contro il Niger attraverso l’esercito nigeriano. Nell’America Latina la resistenza all’imperialismo statunitense, sostenuto dalla borghesia compradora locale, ha permesso a Nicaragua, Cuba e Venezuela di stroncare diversi tentativi di sovversione e di “rivoluzioni colorate”, mentre le elezioni in Colombia e Brasile hanno permesso di cacciare i più ardenti sostenitori della sudditanza del continente al dominio di Washington. Anche in questa regione la collaborazione economica con il “campo multipolare” è stata essenziale a innescare percorsi di sviluppo per anni bloccati dalle sanzioni e dalla guerra economica promossa dagli USA, come nel caso del Venezuela. Grazie all’operazione Tempesta di al-Aqsa lanciata nell’ottobre 2023 dalla resistenza palestinese e sostenuta dall’Iran e dalle forze di resistenza della regione, da Hezbollah ad Ansarallah, una pedina chiave del sistema egemonico statunitense come l’entità sionista è stata messa portata a una crisi possibilmente irreversibile, che si manifesta sia nella sempre più brutale violenza contro la popolazione civile palestinese, sia nell’instabilità politica.
E’ chiaro che davanti a noi vi sia una vera e propria Terza Guerra Mondiale combattuta in maniera ibrida e su numerosi fronti che, per quanto non ancora segnata da confronti militari diretti tra le principali potenze, rischia costantemente escalation incontrollabili dati dall’ostinata volontà degli Stati Uniti di non rinunciare a una egemonia nei fatti già minata dallo stesso percorso storico. Questa testardaggine non è dovuta unicamente all’intransigentismo ideologico del suprematismo occidentale di cui sono infarcite le menti delle classi dirigenti di questa parte del mondo, un’ottica delirante che porta a vedere il mondo come ripartito tra un “giardino ordinato” e una “giungla selvaggia”, ma anche alla necessità per il capitale finanziario di Wall Street e della City di Londra di lottare sino alle estreme conseguenze per tutelare la sua stessa esistenza, ormai totalmente dipendente da quel regime speculativo e di sfruttamento costruito tramite la globalizzazione a guida statunitense. Come ribadito più volte dal presidente Biden, gli Stati Uniti si auto-rappresentano come l’unica “nazione indispensabile”[5], secondo una nota formulazione della Albright. La realtà dei fatti però è in crescente contraddizione con questa formulazione. Stiamo vivendo un’epoca di trasformazioni profonde, e gli Stati Uniti devono decidere se riconoscersi come un paese normale, uno tra molti, o semplicemente scomparire nella loro attuale configurazione.
L’ordine internazionale esistente fino a pochi anni fa, lo stato di totale subordinazione dell’Umanità alla tirannia delle lobbies di Washington, ha fatto il suo tempo. In questa fase di lotta e trasformazione non è permessa nessuna vigliacca “equidistanza”, e qualsiasi chiacchiera sugli “opposti imperialismi” deve essere smascherata per quello che è: becero opportunismo, tradimento a favore dell’imperialismo.
Una buona parte dei partiti “comunisti” occidentali, dai resti del trotskismo organizzato sino alle sigle che orbitano attorno al KKE, camuffano la propria reale posizione reazionaria tramite una fraseologia massimalista basata sul “nénéismo”: essi rifiutano la realtà per quello che è, e scelgono di sostenere un immaginario “terzo campo” che dovrebbe liberarli dal gravoso fardello dell’analisi concreta della situazione concreta e dalla faticosa necessità di mostrare il coraggio politico che dovrebbe essere connaturato a chi si propone come avanguardia di quella classe che vorrebbe abolire e superare l’esistente e condurre l’intera umanità verso una nuova fase del suo sviluppo. Essi preferiscono riciclare analisi formulate un secolo fa in condizioni completamente differenti dalle attuali sostenendo che se si sono rivelate corrette ai tempi devono esserlo altrettanto oggigiorno.
Il loro sofismo è nettamente opposto al metodo materialista dialettico in quanto non considera le cose da tutte le angolazioni, nella loro complessità e nei percorsi di trasformazione, ma prende postulati corretti solo in determinate condizioni e li rende assoluti. Ragionando sulla degenerazione della Seconda Internazionale, Vladimir Lenin pose sotto attacco proprio i metodi sofistici con cui si pretendeva di giustificare una guerra imperialista attraverso il ricorso agli schemi della guerra nazionale proposti da Engels e Marx in un contesto differente.
Gli opportunisti della Seconda Internazionale pretendevano di giustificare la militanza a favore di questo o quello schieramento imperialista chiamando in causa una natura nazionale della guerra esistente solo nella narrazione propagandistica della grande borghesia. Similmente gli opportunisti moderni pretendono di condannare la lotta per la costruzione di un mondo multipolare categorizzandola come manifestazione di “contraddizioni inter-imperialiste". Ai vari “compagni” occidentali manca la comprensione degli ultimi 80 anni di Storia! Dove sarebbero i rapporti di dominazione e sfruttamento imposti dalla Russia? Dove sarebbero i protettorati indiani, i popoli piegati dal saccheggio brasiliano o decimati dalle mira espansionistiche cinesi? Dove sarebbero le vittime dell’imperialismo iraniano? Fantasie che possono esistere solo nelle menti più annebbiate dalla propaganda borghese e dal suprematismo occidentalista, tra chi è ben protetto dagli effetti distruttivi dell’egemonismo americano. Al contrario l’azione internazionale di paesi come Russia, Cina e Iran ha ampliato gli spazi di autonomia e autodeterminazione dei popoli, contribuendo a costruire percorsi di sviluppo basati sull’auto-rafforzamento e a difendere, o riconquistare, l’indipendenza nazionale. Dall’Africa alla Palestina, dalle Isole Salomone all’America Latina tutto ciò è perfettamente chiaro alla stragrande maggioranza dell’Umanità, che guarda con crescente interesse a progetti come la Via della Seta e all’integrazione economica in seno ai BRICS sulla base dei concreti risultati ottenuti dall’esperienza di collaborazione economica con Mosca e Pechino.
Tenendo presente la traiettoria storica del sistema imperialista, il suo passaggio da una molteplicità di centri di potere concorrenti ed equivalenti a una stretta gerarchizzazione in seno allo stesse economie capitalistiche avanzate, costrette a piegarsi alla volontà dell’egemone anche a prezzo della loro stessa tenuta, appare chiaro come la situazione contemporanea non possa minimamente essere paragonata a quella del 1914, e, di conseguenza, è perfettamente comprensibile come lo scontro internazionale in atto non mostri nessuna somiglianza con la Prima Guerra Mondiale.
Quella che è in corso non è una guerra per una diversa spartizione del mondo tra blocchi imperialisti, non è uno scontro per decidere chi opprimerà più nazioni, ma una guerra di liberazione internazionale condotta da un fronte eterogeneo e con non poche contraddizioni contro il prodotto storico dell’epoca dell’imperialismo: gli Stati Uniti d’America. Parlare attualmente di imperialismo brasialiano, indiano o, ancora peggio, di un imperialismo russo o cinese non è solo errato da un punto di vista teorico, in quanto nessuno di questi paesi, nemmeno quelli dalla più marcata dirigenza borghese, vive grazie all’azione parassitaria sul resto del mondo, ma è anche in profonda antitesi alla realtà per come è: nessun altro Stato al di fuori degli USA è capace di esercitare quella violenza internazionale inseparabile dalla natura materiale di uno Stato imperialista, nessun altro paese vive in maniera così cristallina ed esemplare ogni privilegio di un’esistenza parassitaria garantita dal controllo della finanza speculativa e dall’egemonia del dollaro. Parlare di “opposti imperialismi”, per quanto retoricamente possa sembrare sintomo di “ortodossia marxista”, nei fatti dimostra unicamente una dissociazione dalla realtà, l’incapacità di comprendere la situazione reale nella quale si opera politicamente e un ossessivo culto del libro che porta a valutare il presente solo alla luce del passato, quasi che ogni sviluppo della Storia non possa che essere il ripetersi ciclico di ciò che è già avvenuto, in una prospettiva ben distante da quella del materialismo dialettico, ma anzi profondamente metafisica, un idealismo volgare figlio della decadente borghesia occidentale.
La narrazione basata sugli “opposti imperialismi” non trova riscontri pratici, e si fonda essenzialmente sulla decontestualizzazione e sul citazionismo libresco. Essa deriva essenzialmente dalla visione propria di quella che è stata chiamata “sinistra compatibile”: l’ordine imperialista può essere respinto a parole, ma qualsiasi contrasto materiale ad esso deve essere bollato come altrettanto negativo, se non peggiore, dello status quo, ottenendo così una perfetta simbiosi tra massimalismo fraseologico e prassi reazionaria. Tale orientamento ha chiare radici “atlantiche”, fondandosi sull’operato del Congress for Cultural Freedom, fondato dalla CIA negli Anni ‘50 per promuovere una “contro-egemonia controllata” all’interno della sinistra in funzione anticomunista, rappresentata eminentemente dalla Scuola di Francoforte.
Questa versione annacquata e distorta del marxismo è perfettamente compatibile con il progetto egemonico statunitense e, come notato da Carlos L. Garrido nel suo essenziale lavoro sul feticcio della purezza del marxismo occidentale, “non è un caso che si possano trovare solo “marxisti” che sono più critici del socialismo che del capitalismo all’interno del mondo accademico e dei media”[6]. Non è un caso che queste formazioni “rivoluzionarie”, dagli anarchici più movimentisti ai “maoisti”, passando per la galassia trotskista, possa vegetare nell’indifferenza del potere borghese, mentre invece formazioni dall’estetica assai meno dirompente e dalla fraseologia più moderata siano investite da vere e proprie campagne diffamatorie, se non da violenze e repressione politica, per una collocazione concreta in opposizione all’egemonismo statunitense, come testimoniano numerosi casi, da quello del Partito Comunista Americano negli Stati Uniti all’opposizione patriottica moldava, da Sahra Wagenknecht in Germania allo SMER slovacco. E non è nemmeno un caso che queste formazioni “rivoluzionarie” finiscano inevitabilmente ad essere subalterne rispetto alla “sinistra” imperiale. E’ arcinoto che in Italia, come nel resto dell’Occidente, la galassia antagonista e disobbediente non è che l’ala movimentista del centrosinistra, la sua “guardia plebea a buon mercato”, come giustamente rilevato da Costanzo Preve, pronta a mobilitarsi a comando contro gli i nemici indicati loro da Bruxelles e Washington, siano questi presunti “fascisti”, “populisti”, “razzisti”, “omofobi” o semplicemente normali cittadini non abbastanza entusiasti del “sogno europeo” e del suo corollario di precarizzazione e di distruzione di ogni solidità familiare, relazionale, sociale e identitaria.
Che cos’è la lotta per il multipolarismo? La lotta per il multipolarismo non è altro che una particolare manifestazione della lotta di classe, che vede la stragrande maggioranza dell’Umanità, ossia chi svolge funzioni produttive e vive del proprio lavoro, contrapposta a una ristrettissima cerchia di speculatori e finanzieri, una borghesia che, arrivata all’estremo del suo percorso storico, è materialmente concentrata, al di là di ogni formalità burocratica, in un nocciolo duro innestato sull’asse Washington-Londra-Bruxelles.Da un lato abbiamo appunto la borghesia compradora e il capitale imperialista statunitense, con quello dei suoi imperialismi subalterni e relative strutture, Unione Europea in primis, dall’altro la saldatura di interessi fra le classi subalterne (lavoro dipendente e precario, piccola borghesia, lavoratori autonomi, pensionati, disoccupati…) e settori di borghesia nazionale che in questa fase rivendicano la lotta per l’indipendenza e contro l’egemonia.
Ciò è sia visibile nei paesi attualmente coinvolti nel processo multipolare, sia dovrebbe rappresentare l’orizzonte d’azione politica nei paesi laddove al potere vi è la borghesia compradora e le cricche legate all’imperialismo americano. Rinnegare la lotta di classe espressa dal multipolarismo significa concretamente porsi nel campo della reazione e dell’imperialismo, significa praticare un social-sciovinismo euro-atlantista mascherato da marxismo ortodosso, significa tradire la classe lavoratrice a favore del grande capitale. Nulla di nuovo per chi è già abituato da decenni a spacciare la subalternità ideologica al liberalismo e all’egemonia di Washington come affermazione di qualche “identità rivoluzionaria”.
Quello che abbiamo davanti non è una “ridefinizione delle sfere d’influenza”, ma la costruzione di un nuovo ordine internazionale basato su nuovi paradigmi. Ciò non è frutto del caso, ma dell’evoluzione storica e della volontà politica degli attori coinvolti. La manifestazione teorica più conseguente di ciò viene ancora una volta dal Partito Comunista Cinese, con l’elaborazione del concetto di Comunità umana dal futuro condiviso e l’opera concreta per la sua costruzione.
Questo concetto, che si ritrova con insistenza nei documenti politici cinesi, rappresenta la più chiara visione attualmente prodotta sulle tendenze dei tempi attuali e sulla strada che l’Umanità dovrebbe percorrere: una grande ristrutturazione dei rapporti internazionali e dei modelli di sviluppo, l’adozione di strumenti democratici di risoluzione delle contraddizioni, la preminenza della cooperazione mutualmente vantaggiosa e ad ampio respiro sulla competizione e sulla conflittualità. Ciò potrà essere reso possibile solo dall’abbattimento del sistema imperialista egemonico degli Stati Uniti e l’edificazione al suo posto di una nuova architettura internazionale priva di egemoni. Ciò però non significa certo una diversa “fine della Storia”: contraddizioni continueranno ad esistere, persino marcate, ma ciò che sarà cambiata sarà la fase storica: la vittoria del multipolarismo porterà alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, ambiente in cui il socialismo potrà svilupparsi ed estendersi, progressivamente e come conseguenza del moto politico di rinnovamento globale e dell’immensa liberazione delle forze produttive dalle catene dell’imperialismo, a livello planetario, in un contesto segnato a livello internazionale dalla compresenza di indipendenza e interdipendenza come poli non conflittuali delle relazioni tra popoli e Stati.
Parlando alla settantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, Xi Jinping espose con chiarezza questa necessità di rinnovamento: “Tutti i paesi, congiuntamente, devono tenere in mano le redini del destino del mondo. Tutte le nazioni, senza eccezioni, devono essere uguali: il grande non può schiacciare il piccolo, il forte non può opprimere il debole, il ricco non può avvantaggiarsi a danno del povero. Il principio della sovranità non si estrinseca solamente nell’inviolabilità della sovranità nazionale, nell’integrità territoriale e nella non interferenza negli affari interni dei singoli paesi, deve estrinsecarsi anche nel diritto di ognuno di scegliere liberalmente il proprio sistema sociale e il proprio modello di sviluppo economico, così come deve estrinsecarsi nel rispetto dovuto alle azioni messe in atto da ogni paese per promuovere lo sviluppo economico e sociali e migliorare il tenore di vita della propria popolazione”[7].
La costruzione di un mondo dove cooperazione, non ingerenza, pluralismo di culture, civiltà, sistemi politici e sociali non significa, è bene ripeterlo, la fine di ogni conflitto o contraddizione. Sarebbe antidialettico e antimarxista affermarlo. Il mondo multipolare, la comunità umana dal futuro condiviso, continueranno a conoscere scontri e tensioni, perché continuerà ad esistere, ancora per un certo tempo, il sistema capitalistico, e questo anzi avanzerà compiutamente là dove esistono ancora rapporti di produzione arretrati e condizioni semi-coloniali. Ma queste contraddizioni non saranno più di tipo antagonistico -poiché se trattate nel modo dovuto, ossia attraverso un nuovo sistema di governance globale indirizzato alla costruzione di una comunità umana dal futuro condiviso, le contraddizioni tra i vari paesi e le loro classi dirigenti, potranno trasformarsi in contraddizioni non-antagonistiche-, non porteranno alla creazione di rapporti di dipendenza e subalternità, poiché la fase in cui si sarà entrati sarà completamente diversa e inedita: con il superamento del sistema imperialista si sarà nella prima fase della concreta instaurazione del socialismo su scala planetaria. Il socialismo ha occupato sino a questo momento una posizione subordinata nella sua contraddizione con il capitalismo. L’abbattimento del sistema unipolare rappresenta il momento della trasformazione in cui i due aspetti di questa contraddizione vedono la propria relazione invertirsi.
La comunità umana dal futuro condiviso è l’ambiente in cui il socialismo cresce nella sua predominanza, preparando la strada al salto qualitativo rappresentato dal passaggio alla società comunista, e il capitalismo gradualmente scompare su scala mondiale. Lo studioso marxista cinese Yu Pei dà una precisa descrizione di questa relazione: “L'idea di una comunità globale con un futuro condiviso è l'incarnazione della teoria marxista dell'emancipazione umana in queste nuove condizioni storiche e identifica un obiettivo e una direzione per le future iniziative dell'umanità. In questo senso, la costruzione di una comunità globale con un futuro condiviso è una tappa che dobbiamo attraversare se vogliamo realizzare in futuro “una comunità di individui liberi”. Il comunismo è un risultato inevitabile dello sviluppo sociale: questo obiettivo è lontano ma non senza speranza, e la ragione della sua eventuale realizzazione può essere trovata sia nella storia che nella realtà[8].
Questa direzionalità politica smentisce l’analisi di chi vede nella promozione del multipolarismo null’altro che una riedizione della teoria kautskyana del “superimperialismo”. Questa descrive la possibilità di una “coesistenza pacifica” di vari sistemi imperialisti impegnati in uno sfruttamento congiunto del mondo, senza più la necessità per questi di far ricorso alla guerra come strumento di competizione. Ciò non ha nulla a che vedere con il multipolarismo, che si fonda sulla coesistenza tra diversi Stati, sistemi politici e sociali in un contesto regolato da una governance globale che prevenga ogni progetto egemonico.
La lotta per il multipolarismo, che ha la costruzione di una Comunità umana dal futuro condiviso come finalità, è una vera e propria guerra di liberazione su scala internazionale. Un qualcosa di inedito, poiché inedita è la situazione che vede l’apice della dominazione statunitense sul mondo e al contempo l’apice della resistenza a questa dominazione.
La contraddizione tra questi due elementi è sempre più matura, e porterà al superamento del sistema imperialista stesso. Il campo “unipolarista” ha al suo vertice la piramide finanziaria di Wall Street, e alla sua base la borghesia compradora dei vari paesi subalterni e gli apparati collaborazionisti e clientelari locali. Il campo multipolare è assai più eterogeneo, sia dal punto di vista sociale che statale. Esso vede la convergenza degli interessi delle masse lavoratrici del mondo che, tranne nei settori di “aristocrazia operaia” cooptati dal sistema imperialista, hanno tutto da guadagnare dall’abbattimento del Washington Consensus e dall’apertura di spazi per esercita la propria sovranità democratica, con quelli della borghesia nazionale dei vari paesi, tanto del Sud del Mondo quanto, in certa parte, dell’Occidente subalterno alla guida predatoria statunitense.
Questa composizione di classe è ben visibile nei paesi che sostengono, più o meno apertamente e coerentemente, la multipolarizzazione del mondo: dove vi è una maggiore dipendenza dal capitale imperialista e forza politica della borghesia nazionale l’appoggio alla trasformazione multipolare sarà più debole e incostante, dove le forze progressive espressione della classe lavoratrice e della tendenza allo sviluppo giocano un ruolo decisivo l’impegno a favore del multipolarismo è aperto e sincero. Nel primo gruppo possiamo annoverare paesi come la Turchia, l’India o l’Arabia Saudita, mentre il secondo raccoglie il vero “nucleo” del processo di trasformazione ora in atto, di cui i più influenti rappresentanti non possono che essere la Repubblica Popolare Cinese, la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran[9].
Il processo di trasformazione ora in corso non lascerà immutati nemmeno questi attori. Essi ne usciranno profondamente modificati, con la fazione interna ad essi più vicina alla borghesia compradora e all’imperialismo americano fortemente ridimensionata se non del tutto eliminata. E’ il caso, tra gli altri, della Russia, dove le esigenze belliche necessariamente stanno portando a una maggiore presenza dello Stato nell’economia e allo scontro con certi “oligarchi” e centri di potere i cui interessi sono strettamente all’Occidente e alla sottomissione a questo.
Come già rilevato giustamente da Alexander Dugin, per vincere il conflitto in corso la Russia dovrà trasformare questa in una “guerra popolare”, mobilitando le masse anche ideologicamente, una tendenza che è stata confermata dai fatti anche con la nomina di Andrei Belousov, sostenitore della direzione pubblica dell’economia, al Ministero della Difesa. Ma è anche il caso di tutti gli Stati “mediani”, dove si verificherà una polarizzazione interna che non sarà unicamente lo scontro fra diversi settori di Capitale, ma lo scontro fra gli interessi delle classi subalterne e di settori di borghesia nazionale contro quelli dell’imperialismo e della borghesia compradora, con in ballo quindi una modifica dei rapporti di forza a favore del popolo lavoratore.
Questa inedita configurazione internazionale si presta a un paragone piuttosto calzante non già alle teorie kautskyane, ma alla rivoluzione cinese, dove la vittoria fu garantita da un Fronte Unito guidato dal PCC ed espressione della convergenza di interessi di più classi e partiti, un felice e fruttuoso adattamento della strategia del Fronte Popolare al contesto cinese promosso da Mao Zedong portato avanti a partire dalla seconda metà degli Anni ‘30 sino ai giorni nostri.
Il Fronte Unito nacque come alleanza, guidata politicamente dal Partito Comunista Cinese, delle classi rivoluzionarie, ossia proletariato, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale, unite nell’opposizione all’imperialismo, in particolare a quello giapponese, che all’epoca rappresentava per la nazione cinese la contraddizione principale: “Qual è il compito tattico fondamentale del Partito? La creazione di un vasto fronte unito nazionale rivoluzionario, non altro. Quando la situazione della rivoluzione cambia, occorre mutare di conseguenza la tattica e i metodi di direzione della rivoluzione. Il compito dell'imperialismo giapponese, dei collaborazionisti e dei traditori della patria è trasformare la Cina in una colonia; il nostro compito è invece trasformare la Cina in uno Stato libero, indipendente, che goda dell'integrità territoriale. [...] Se finora il nostro governo è stato basato sull'alleanza degli operai, dei contadini e della piccola borghesia urbana, da oggi in poi esso dovrà essere un governo che comprenda anche quegli elementi delle altre classi che vogliono partecipare alla rivoluzione nazionale. Oggi il compito fondamentale di un tale governo è quello di opporsi al tentativo dell'imperialismo giapponese di annettere la Cina. Questo governo sarà molto largo e includerà non solo coloro che sono interessati alla rivoluzione nazionale e non alla Rivoluzione agraria, ma anche, se lo vogliono, coloro che non sono in grado di lottare contro gli imperialisti europei e americani per i vincoli che li legano a essi, ma che sono pronti a lottare contro l'imperialismo giapponese e i suoi lacchè”[10].
Venivano così compresi nel Fronte Unito non solo i proletari e i contadini, i più saldi nella lotta per l’indipendenza nazionale e politicamente più affidabili, ma anche diversi settori borghesi che mostravano comportamenti più ambigui e meno univoci, ma che erano comunque portati, per un insieme di interessi materiali e coscienza patriottica, ad opporsi almeno alle manifestazioni più violente e umilianti dell’imperialismo. La garanzia della direzionalità della lotta era data dal controllo politico del PCC, che avrebbe impedito qualsiasi deviazione verso compromessi di convenienza, eterna tentazione degli strati medio-alti di borghesia.
Anche se con le ovvie differenze date dal diverso contesto d’applicazione e dalla diversa, e più complessa, natura dei soggetti coinvolti, l’attuale lotta per il multipolarismo può essere vista come un’applicazione su scala internazionale del medesimo principio. E’ chiaro come gli interessi del popolo lavoratore siano contrapposti a quelli dell’imperialismo statunitense, che attraverso la speculazione, l’austerità, la predazione della ricchezza pubblica, la negazione dei diritti sociali, le guerre e la miseria esso ha per loro rappresentato sempre una forza esclusivamente regressiva, ma è altrettanto importante notare come la globalizzazione a guida statunitense abbia sistematicamente negato gli interessi di settori relativamente ampli di borghesia, quelli più legati al contesto nazionale e meno competitivi sui mercati globali.
La corsa al riarmo e le prospettive di disaccoppiamento economico ha inoltre non solo ulteriormente danneggiato questi, ma esteso gli effetti nocivi anche a quelli più strettamente legati alle economie emergenti. Se si pensa al piano internazionale, appare ancora più chiaro come le esigenze di sviluppo, sicurezza e stabilità che accomunano tutti i paesi del mondo siano negate materialmente dalla prassi predatoria dell’imperialismo statunitense e dalle sue catene economiche, politiche e ideologiche. Ne nasce una convergenza d’interessi che, per quanto parziale, è decisiva e risponde alla principale contraddizione della nostra epoca.
Non sorprende quindi come nel fronte per il multipolarismo vi siano paesi e organizzazioni estremamente diversificati, da Hezbollah al Venezuela, dalla Russia al Niger, dalla Corea popolare al Burkina Faso, dalla Siria al Nicaragua, dal Brasile all’Algeria. A chi spetta la direzione politica di questo movimento? E’ innegabile che i grandi successi politici, economici e scientifici della Repubblica Popolare Cinese propendano per una crescente attrattività di questa e dell’esempio dato dal suo modello a livello internazionale.
Scrivendo a Kautsky nel settembre del 1882, Friedrich Engels espose l’idea per cui un Occidente socialista avanzato avrebbe traghettato il resto del mondo arretrato verso il progresso esclusivamente tramite meccanismi economici, senza bisogno di interventi armati o coercitivi di nessun tipo[11]. Vladimir Lenin, parlando ai delegati della X Conferenza Panrussa del PCR(B) nel maggio del 1921, affermò come lo sviluppo economico fosse divenuto fondamentale in un contesto di progressiva crisi del mondo capitalista, tanto da dover esercitare la principale influenza sulla rivoluzione internazionale tramite esso[12]. La Repubblica Popolare Cinese, avendo occupato le “alture dominanti” dell’economia mondiale, essendo divenuta l’unica vera superpotenza manifatturiera al mondo, guidando lo sviluppo scientifico e avendo garantito un valido esempio nella lotta alla povertà e al sottosviluppo, è pienamente in grado di ricoprire il ruolo di “magnete” a livello internazionale per guidare pacificamente e senza imposizioni l’evoluzione in senso socialista dell’Umanità. Il crescente interesse di partiti politici e governative statali di ogni continente al sistema del socialismo con caratteristiche cinesi non ne è che una prova.
L’analisi dei fatti dimostra come la lotta per il multipolarismo sia concretamente la lotta per l’indipendenza nazionale e la lotta per il socialismo. Sostenere la lotta per il multipolarismo significa appoggiare materialmente lo sviluppo del socialismo, osteggiarla, al di là dell’apparenza identitaria, significa combattere contro lo sviluppo verso il socialismo dell’Umanità. Gli interessi delle masse popolari occidentali non sono distinti rispetto a quelli della classe lavoratrice internazionale, e attualmente si identificano concretamente con la lotta per il multipolarismo. Questa lotta è quindi da sostenere, senza se e senza ma, senza distinguo, ma con un posizionamento chiaro e politicamente ragionato. Con l’inasprimento delle contraddizioni e la sempre più rapida evoluzione dei processi la chiarezza è fondamentale e necessaria, non è più possibile tergiversare e nascondersi dalla realtà.
All’interno dello scenario italiano non vi sono istituzioni o forze organizzate di massa apertamente e coerentemente schierate per il multipolarismo. Vi sono alcuni soggetti associativi “corpuscolari” che esprimono certe posizioni, mentre le masse, ogni qualvolta vi siano movimenti di protesta e di scontento, inevitabilmente arrivano più o meno coscientemente a porre la questione dell’indipendenza nazionale dal giogo statunitense, e quindi della multipolarizzazione del mondo. La Chiesa Cattolica, nella sua complessità interna, ha espresso qualche cauta apertura sotto il pontificato di Bergoglio alla democratizzazione delle relazioni internazionali e a una nuova configurazione della struttura di potere mondiale. Ciò però non si è tradotto in un impegno a sostegno di ciò da parte della vasta rete associativa connessa al Vaticano, probabilmente anche per attriti interni alla curia romana.
Al contrario, le forze sostenitrici dell’unipolarismo e dell’egemonismo statunitense sono presenti e dotate di un’influenza strabiliante, frutto di una penetrazione pluridecennale nel mondo accademico, nella cultura, nella società civile, nei media, nelle istituzioni, nei partiti e nella burocrazia. Dalla destra alla “sinistra compatibile” movimentista, passando per gli apparati sindacali, le associazioni di categoria, le cooperative e le varie fondazioni, vi è una sostanziale uniforme, per quanto esteticamente differenziata, adesione al progetto egemonico di Washington, portata avanti sia sulla base di un convincimento ideologico, sia su quella di interessi clientelari da tutelare. Nel nostro contesto nazionale in cui l’ortodossia atlantista è stata imposta a furia di complotti, attentati, rapimenti e omicidi, spicca per fedeltà servile il Partito Democratico e la relativa rete organizzativa, dalla CGIL all’Arci, dall’ANPI alle varie cooperative dei più svariati settori.
Per quanto il governo Meloni abbia manifestato la totale disponibilità delle forze della destra a svendere l’interesse nazionale e rischiare finanche il coinvolgimento in una guerra mondiale in nome della sottomissione a Washington, il Partito Democratico rimane sempre la “riserva strategica” sempre impiegabile dagli Stati Uniti per evitare qualsiasi sbandamento dell’Italia.
La residuale, ma rumorosa, area della “sinistra” disobbediente e dall’estetica massimalista, nonostante la distanza verbale, agisce essenzialmente come bassa manovalanza per il Partito Democratico, popolarizzandone le battaglie socio-economiche e operando una vera e propria “repressione preventiva” contro qualsiasi organizzazione o movimento politico possa distaccarsi dai canoni dell’accettabilità liberale.
E’ importante notare come la cosiddetta estrema sinistra guardò nel suo complesso con profonda ostilità a movimenti genuinamente popolari e dalle potenzialità progressive come quello dei Forconi del 2013, quello anti-europeista degli anni 2016-2019 e a quello di contestazione contro la gestione pandemica del 2021-2022. E serve altrettanto tenere a mente come questi “antagonisti” abbiano diretto le proprie violenze e la proprie contestazioni pubbliche principalmente contro gruppuscoli totalmente ininfluenti e semi-sconosciuti dell’estrema destra oppure contro personalità “colpevoli” di una diversa opinione su materie di costume, e quasi mai invece contro i soggetti politici responsabili, tra le altre cose, del golpe neonazista in Ucraina del 2014, della promozione dell’integrazione europea o della partecipazione dell’Italia alle campagne imperialiste degli USA.
La contestazione a questi gruppi, nei rari casi in cui avviene, è comunque sempre depotenziata, e animata, nel pieno stile della “sinistra compatibile”, da una parallela critica “nénéista” anche alle vittime dell’aggressione imperialista o a chi si sta difendendo da questa. Questo non rappresenta che uno dei numerosissimi segnali che indicano la reale collocazione politica della cosiddetta “estrema sinistra” in Italia: una forza reazionaria, anticomunista e subalterna all’imperialismo statunitense.
[1] Cheng Enfu, Lu Baolin, Five Characteristics of Neoimperialism-Building on Lenin's Theory of Imperialism in the Twenty-First Century, Monthly Review, Vol. LXXIII, n.1, 1 maggio 2021.
[2] S. Vitali, J. B. Glattfelder,S. Battiston, The Network of Global Corporate Control, in PLoS ONE 6, no. 10, 2011.
[3] W. Lazonick, Profits Without Prosperity, in Harvard Business Review, settembre 2014.
[4] Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, New York, Basic Books, 1997, p. 54.
[5] J. Biden, Remarks by President Biden on the United States’ Response to Hamas’s Terrorist Attacks Against Israel and Russia’s Ongoing Brutal War Against Ukraine, 20 ottobre 2023.
[6] C. L. Garrido, The Purity Fetish and the Crisis of Western Marxism, Dubuque, Midwestern Marx Publishing Press, 2023, p. 27.
[7] Xi Jinping, Creiamo insieme un nuovo partenariato di cooperazione reciprocamente vantaggioso e poniamo le basi per una comunità umana dal futuro condiviso, in Governare la Cina, Vol. II, Firenze, Giunti-Foreign Languages Press, 2019, p. 670.
[8] Yu Pei, A Global Community with a Shared Future from a Macro-Historical Perspective, in Qiushi Journal, n. 3 (2019).
[9] Alla “sinistra compatibile” occidentale sembrerà assurdo annoverare la cosiddetta “teocrazia” iraniana tra quei paesi dove la classe lavoratrice ha una decisiva influenza politica. Tale pregiudizio riflette la subalternità del marxismo occidentale alla narrazione liberale anche per quanto riguarda la Rivoluzione Islamica del 1979 e al percorso politico dell’Iran. L’appoggio delle masse popolari è stato una componente decisiva e fondamentale per l’instaurazione della Repubblica Islamica, la quale ha dato vita a un sistema sociale che risponde al concreto stato di sviluppo delle forze produttive del paese. Questo, per quanto contenga elementi di capitalismo, vede al contempo un importante ruolo giocato da strutture cooperative come le Bonyad, che controllano si stima attorno al 20% del PIL, e dall’espressione economica di organizzazioni civico-militari come i Basij, con i loro onnipresenti comitati di base, e le Guardie della Rivoluzione.
[10] Mao Zedong, Sulla tattica contro l’imperialismo giapponese, in Selected Works, Vol. I, Beijing, Foreign Languages Press, 1965, pp. 162-166.
[11] “Una volta riorganizzata l’Europa e l’America del Nord, ciò fornirà una potenza così colossale e un esempio tale che i paesi semi-civili seguiranno spontaneamente la loro scia. Solo le esigenze economiche saranno responsabili di ciò. Ma per quanto riguarda quali fasi sociali e politiche dovranno poi attraversare questi paesi prima di giungere anch'essi all'organizzazione socialista, oggi possiamo solo avanzare ipotesi piuttosto inutili. Solo una cosa è certa: il proletariato vittorioso non può imporre benedizioni di alcun tipo a una nazione straniera senza compromettere così la propria vittoria. Il che ovviamente non esclude affatto guerre difensive di vario genere”, F. Engels, Lettera a K. Kautsky, 12 settembre 1882.
[12] “L'attuale situazione internazionale è tale che si è stabilito una sorta di equilibrio temporaneo e instabile, ma pur sempre equilibrio; è il tipo di equilibrio in cui le potenze imperialiste sono state costrette ad abbandonare il desiderio di scagliarsi contro la Russia sovietica, nonostante il loro odio per lei, perché la disintegrazione del mondo capitalista avanza costantemente, l’unità diminuisce costantemente, mentre l’assalto Il numero delle forze delle colonie oppresse, che contano più di un miliardo di abitanti, aumenta di anno in anno, di mese in mese e perfino di settimana in settimana. Ma su questo punto non possiamo fare congetture. Ora esercitiamo la nostra principale influenza sulla rivoluzione internazionale attraverso la nostra politica economica. I lavoratori di tutti i paesi, senza eccezione e senza esagerazione, guardano alla Repubblica Russa dei Soviet. Questo è stato ottenuto. I capitalisti non possono tacere o nascondere nulla. Ecco perché colgono così avidamente ogni nostro errore e debolezza economica. La lotta in questo campo è ormai diventata globale. Una volta risolto questo problema, avremo sicuramente e finalmente vinto su scala internazionale. Ecco perché per noi le questioni dello sviluppo economico diventano di un'importanza assolutamente eccezionale. Su questo fronte dobbiamo vincere con una crescita costante e un progresso che deve essere graduale e necessariamente lento. Penso che grazie al lavoro della nostra conferenza raggiungeremo sicuramente questo obiettivo”, V. Lenin, Discorso al X Congresso Panrusso del PCR(B), 26-28 maggio 1921.
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