di Geraldina Colotti
Vi sono molti aspetti su cui porre l’attenzione a proposito del vertice dei Brics, in corso a Kazan, in Russia fino al 24 ottobre, ma uno li riassume tutti: il questionamento generale al predominio del “primo mondo” da parte di quello che, un tempo, veniva considerato il “terzo mondo”, e che ora si suole definire il “Sud Globale”. E se è buona norma, data la complessità delle dinamiche planetarie in corso, non prendere “la parte per il tutto”, dando per acquisite tendenze e proiezioni, la semplice trasformazione dell’acronimo dà conto dell’ampiezza e dell’importanza che va assumendo la nuova alleanza a livello globale.
Nati nel 2009 come Bric (Brasile, Russia, India, Cina), i quattro grandi paesi hanno aggiunto all’acronimo la S, per l’entrata del Sudafrica nell’alleanza. E quest’anno, quando la presidenza pro-tempore dell’organismo tocca alla Russia, sono diventati Brics+ con l’entrata di cinque altri paesi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran, Etiopia. Se si considera che 59 paesi hanno fatto domanda d’entrare, e che essi provengono dall’Asia, dall’Africa, dall’America latina, e anche dall’Europa dell’Est (la Serbia), si capisce che l’impatto dell’organismo attraverserà gli equilibri globali, considerando vieppiù che anche la Turchia, membro della Nato che aspira a entrare nella UE, ha chiesto di far parte dei BRICS+.
In America latina, a candidarsi sono importanti paesi membri dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, fondata da Cuba e Venezuela in contrapposizione all’allora progetto neoliberista degli Usa, l’Alca (Alleanza di libero commercio). Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela, i cui governi sono sopravvissuti al “picconamento” imperialista, che ha portato altri paesi membri alla destra, hanno un orientamento comune sia in termini di integrazione regionale (economico-finanziaria, politica e sociale) che di prospettiva ideologica.
Negli anni scorsi, durante l’onda forte dei governi socialisti e progressisti, erano a un punto avanzato sia la proposta di una moneta unica – il Sucre – che quella di una nuova architettura finanziaria, capace di articolare proposte alternative, e di sfuggire alla trappola del debito internazionale, e anche a quella dell’evasione dalle tasse, che avviene nei paradisi fiscali. Quel che resta dell’Alba, fa quindi storcere il naso a governi più moderati, mentre altri che prima facevano parte del blocco regionale, come l’Ecuador, sono ormai tornati al servizio degli Usa, e l’Argentina di Milei ha deciso di uscire dai Brics, in cui era entrata quando al governo c’era il progressista Alberto Fernández.
Certo, le nazioni occidentali controllano importanti organismi internazionali, come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, che prestano denaro ai paesi, vincolandoli a nefasti “piani di aggiustamento strutturali”. E, secondo i dati della Banca Mondiale, per quanto diminuito rispetto agli anni passati, il Pil combinato delle prime economie pesa ancora per almeno il 46% di tutto il Pil globale. Occorre, inoltre, considerare il diverso sviluppo delle singole economie emergenti che fanno parte dei Brics, le rivalità commerciali, e le differenze di orientamento politico nei rapporti internazionali con gli organismi occidentali da parte dei singoli stati.
Lo vediamo, per esempio, in questa occasione nei confronti del Venezuela che, come Cuba, è in attesa di entrare nei Brics, ma deve vedersela con le polemiche post-elettorali in cui è coinvolto il Brasile. Il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha raggiunto al vertice di Kazan la delegazione del suo paese che lo aveva preceduto, e che già aveva firmato importanti accordi commerciali. Fra questi, l’intesa fra la televisione nazionale e quella dei Brics, essendo la lotta al latifondo mediatico e alle censure imposte dagli Usa e dalle loro piattaforme, una battaglia comune a tutto il Sud globale. A margine del vertice, Maduro incontrerà il suo omologo russo, Vladimir Putin. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov ha però fatto sapere che considera opportuna una pausa di riflessione prima di allargare ulteriormente i Brics.
Nonostante gli ostacoli da superare, è indubbio che le potenzialità riunite, in termini economici e geopolitici, rendono manifesta la crisi di egemonia degli Usa a livello globale. Intanto, perché i nuovi entrati del 2024 hanno aggiunto altri 3.000 miliardi al Pil dei Brics, portando il dato complessivo a quasi 30.000 miliardi di dollari, ma anche perché si fa più concreta la prospettiva che il dollaro non sia più la principale moneta di scambio nel mondo, in quanto considerata la più solida e affidabile.
Per quanto concerne l’economia venezuelana, che ha dovuto aprire il mercato monetario per sfuggire alla morsa dell’inflazione indotta, un cambio di marcia nel senso di una progressiva de-dollarizzazione non potrà che rivitalizzare ulteriormente il motore della crescita, che già si è messo in marcia positivamente, basandosi sull’incremento della produzione nazionale. L’azione dei Brics sta, intanto, già facendo perdere forza alle “sanzioni”, usate come arma di guerra per imporre governi graditi agli Usa ai popoli che non si sottomettono, come Cuba e Venezuela.
Oggi, si calcola che oltre un terzo della popolazione mondiale soffra per l’imposizione di misure coercitive unilaterali e illegali, e che queste provengano principalmente dagli Usa (tra il 40 e il 50%), dalla Ue (tra il 25 e il 30%); e dal Regno unito (tra il 5 e il 10%). La de-dollarizzazione del commercio internazionale e l’abbandono delle piattaforme occidentali di interscambio valutario (a cominciare dal Swift), messa in moto in modo efficace dalla Russia, stanno privando gli Usa e i loro alleati di un mezzo di pressione insopportabile: che, come i dati dimostrano, è risultato anche un boomerang per le stesse economie capitalistiche occidentali, a cominciare da quelle europee.
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