di Giulio Di Donato
Niente di nuovo sul fronte politico: il sistema sembra destinato a un riequilibrio intorno alle coordinate abituali, attorno cioè ad un bipolarismo tradizionale asfittico e privo di una contesa reale, che non focalizza il campo sui nodi politici fondamentali, ma su tematiche di comodo che vengono strumentalmente agitate allo scopo di aggirare le vere questioni di fondo.
Come probabile, il teatrino triste della politica italiana seguirà nei prossimi anni il copione paludoso di sempre, fatta salva la parentesi “populista” pre e post 2018. Con le due coalizioni chiamate ad attingere al consueto bagaglio di idee e proposte. Resta l’incognita dell’area 5S, che ci auguriamo sia capace di rilanciare le ragioni di una sua piena autonomia politico-culturale. Il discorso pubblico verrà quindi monopolizzato, per la gran parte, da una disputa urlata su diritti civili, sicurezza e immigrazione.
Attorno a questi problemi si infiammerà una contesa propagandistica tra un punto di vista restrittivo/conservatore e uno liberal-progressista. Anche rispetto a questo terreno – giova ribadirlo – rimarrà ai margini una posizione terza, critica tanto verso i primi, quanto verso gli eccessi e le ipocrisie dei secondi. Più in generale, non ci sarà spazio per parole di semplice buon senso, che ad esempio ci dicano che non c’è nulla di ineluttabile nell’immigrazione: governarla si può, con razionalità e realismo (come per altro, è questione di quantità, di proporzioni, di ritmi, di intensità, di regole e di equilibri), nel segno della sostenibilità interna e della solidarietà internazionale.
Che ci ricordino un dato difficilmente contestabile: è sulle periferie del nostro paese che vengono scaricati i costi economici, sociali e culturali dell’immigrazione. Per costi culturali si intende che non siamo tutti “attrezzati” allo stesso modo per sostenere le sfide del multiculturalismo e della familiarizzazione con “l’altro”, tanto più quando l’altro è assai diverso da noi. Per molte persone, ad esempio, il proprio angolo più o meno ristretto di vita (il proprio paese, il proprio quartiere, la propria città) è il mondo intero: chi frequenta la realtà delle periferie delle città medio-grandi può facilmente imbattersi nel disorientamento di chi ha visto in pochi anni mutare radicalmente la geografia del proprio contesto vitale, senza aver avuto il tempo necessario per metabolizzare al meglio quei cambiamenti, che, se avvengono seguendo ritmi sostenibili, possono diventare anche fonte di indubbio beneficio e arricchimento. D’altra parte non c’è una “italianità” monolitica da difendere ossessivamente, quasi fosse un’essenza metafisica da preservare da qualsiasi tipo di contaminazione.
Di tutto questo pare non esserci ancora piena consapevolezza a sinistra. Prevale l’idea che il popolo non sia in grado di prendere coscienza dei propri interessi da sé e che per far maturare tale coscienza sia indispensabile il lavoro pedagogico di avanguardie illuminate. Peccato che oggi si abbia unicamente a che fare con l’aristocraticismo perbenista di avanguardie elitarie che si attribuiscono il compito di rappresentare i ceti popolari senza esserne minimamente parte, senza stabilire con essi una «connessione sentimentale» autentica e fedele, senza riconoscere gli elementi di verità presenti nei loro discorsi; in altre parole, senza aderire alla sua vita più intima e concreta, attraverso una «compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità». Ancora oggi si dovrebbe – con Gramsci – «rimanere a contatto coi “semplici” e in questo contatto trovare la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Invece l’atteggiamento prevalente del mondo intellettuale progressista è «di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana […] Vede con occhio severo tutto il popolo, trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo».
D’altronde, se si ritiene che il popolo sia una massa informe e irrazionale, facile preda delle peggiori suggestioni e per questo incapace di percepire correttamente la realtà, non c’è niente da capire e niente da fare. Bisogna solo spiegare al popolo stesso che le sue preoccupazioni sono infondate, bisogna solo “educarlo” perché sappia cogliere le mille opportunità che la “società aperta occidentale” gli offre, nel segno del catechismo liberal-progressista e del dogma delle quattro libertà fondamentali di movimento (di merci, capitali, servizi e persone).
Naturalmente, all’interno di questo discorso vanno considerate le conseguenze di politiche decennali di polverizzazione sociale di matrice neoliberale, con il loro carico di nuove angosce e frustrazioni, e la presenza di un immaginario sempre più (ma mai del tutto) colonizzato dalla dimensione mediale/virtuale. Così come bisogna evitare qualsiasi adesione irriflessa al senso comune popolare, che non resta mai uguale a se stesso, ma può essere utilmente orientato in termini progressivi.
Ma se è doveroso criticare il becero uso politico-mediatico, cui ricorre solitamente la destra, di questioni complesse e scivolose quali ad esempio l’immigrazione, è altrettanto vero che questa presa di distanza non può spingersi fino al punto di negare, come fanno molti a sinistra, l’esistenza stessa dei problemi che le persone comuni, quelle più in difficoltà soprattutto, sentono come prioritari.
Tutto questo significa restare indifferenti rispetto ai grandi mali del mondo? Tutt’altro. Il punto di partenza è nazionale, ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale, scriveva sempre Antonio Gramsci. Il primo passo è allora la conquista delle leve di comando nei singoli Paesi attraverso una proposta politica in grado di generare consenso oltre l’ambito dei ceti medio-alti riflessivi (difficilmente l’utopia ultra liberal delle frontiere aperte può riuscire in questo intento). Il passo successivo è adoperarsi a livello di cooperazione internazionale tra Stati per rimuovere le cause profonde delle migrazioni forzate (su tutte la povertà estrema e le politiche di guerra dell’Occidente). Fuori da questo disegno ci sono solo la chiacchiera moralistica, la fuga impolitica nell’astratto e i gesti, comunque preziosi, di solidarietà concreta dei singoli.
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