Inefficienze e ingiustizie si perpetuano

di Michele Blanco*

L’Italia è un paese socialmente fragile, molto più oggi rispetto a pochi anni fa. Gli ultimi anni sono stati difficili e complessi. L’aumento dei costi dell’energia, in particolare dei carburanti, i rincari dei prezzi con inflazione molto alta, che colpisce principalmente i beni di prima necessità, necessari per sopravvivere (pasta, pane, alimenti in generale), l’incremento dei tassi di interesse, che colpiscono chi ha mutui da pagare, solitamente per l’acquisto della prima casa, hanno iniziato ad avere effetti negativi e preoccupanti sulla struttura sociale ed economica del nostro paese. Anche chi lavora stabilmente, in molti casi, ha grandi difficoltà ad avere una vita tranquilla e serena per il fatto che i salari, da molti anni, sono bassi.

L’Italia è sempre più una realtà altamente polarizzata economicamente e socialmente, con il rafforzamento dei ceti privilegiati, delle classi sociali più ricche, lo “sfarinamento” del ceto medio e l’enorme ingrossamento e impoverimento dei ceti medio-bassi e popolari, che hanno sempre meno disponibilità economiche. L’ISTAT -dati settembre 2023- ha confermato la caduta del reddito prodotto (il PIL) nel secondo trimestre. Anzi, ha rincarato la dose: -0,4% invece di -0,3%. I dati disponibili sul terzo trimestre non sono buoni. Nel mese di luglio l’occupazione è scesa e in agosto il clima di fiducia delle imprese si è indebolito, confermando una tendenza in corso da diversi mesi.

Molti sociologi ritengono che da un punto di vista della struttura sociale l’Italia potrebbe essere suddivisa in cinque classi principali. Il dato è stato ricostruito in base al metodo di ricerca dell’autocollocazione delle persone nei diversi segmenti. Un metodo che permette di cogliere come si sentono realmente le persone, quale ritengono sia il proprio posizionamento nella scala sociale. L’autocollocazione è molto utile nelle scienze sociali, perché permette di tenere insieme tutti i fattori dell’esistenza familiare, dal reddito alle concrete esperienze di vita e le reali possibilità di spesa, dallo stile di vita allo status sociale e economico a cui si aspira.

In vetta alla piramide sociale troviamo la upperclass; si tratta di persone che si collocano tra i ricchi, i benestanti e il ceto alto e medio-alto. Questo segmento, in questi anni complessi, è cresciuto di diversi punti, passando dal 4% di media negli scorsi anni al 6-7% odierno. Il ceto medio è, invece, in costante oscillazione. Al termine della prima fase della pandemia (autunno 2020), quando anche negozi e botteghe artigiane avevano subìto le chiusure, il numero di persone che si percepiva solido e parte del ceto medio era sceso fino al 26%. Poi la ripartenza è arrivata.

Nel 2021 la ripresa si è consolidata e con l’inizio del 2022 una quota significativa era tornata a sentirsi stabile e certa. Le persone che si collocavano nel ceto medio avevano sfiorato quota 40%. Ma il contesto di grande incertezza innescato dalla guerra russo-ucraina e lo scatto inflattivo, diretta conseguenza della guerra, ha ridotto certezze e i relativi livelli di stabilità, facendo oscillare, nell’autunno 2022, il dato del ceto medio intorno al 30%. Dato che ci dovrebbe fare riflettere è la crescita netta che si registra tra i segmenti sociali in difficoltà. Complessivamente tra il 58% e il 66% degli italiani mostra segnali di crisi e difficoltà economica e sociale, con un incremento del 7% rispetto all’inizio del 2022, ultimo dato certo disponibile. In pochi mesi abbiamo assistito a un doppio processo di scivolamento: dal ceto medio alla middle class in fall, ovvero in quella parte della società la cui posizione sociale è in discesa e il reddito non consente lussi (in questo segmento si autocollocano tra il 35% e il 39% delle famiglie).

Assistiamo ancora allo scivolamento dalla classe media in difficoltà al ceto fragile, ovvero quella parte di famiglie che arrivano a fine mese con pochissimi soldi a disposizione: in questo segmento si collocano tra il 15% e il 19% delle persone, ma non tutti riescono ad essere sinceri per autocollocarsi tra le persone bisognose che non hanno soldi, anche se lavorano, e non arrivano alla fine del mese. Infine, la “classe lavoratrice”, working class, come la vecchia definizione data dai sociologi anglofoni, le persone che in Italia si sentono veramente povere, che oscilla tra il 6% e l’11% (tra i 4 e i 6 milioni di persone che si percepiscono senza mezzi termini come indigenti). Lo scatto inflattivo e il caro bollette si è scaricato maggiormente sui ceti popolari e medio- bassi. Gli incrementi dei prezzi sono stati maggiori, in termini percentuali, nei beni più difficili da tagliare, necessari, come quelli alimentari.

Un quadro che, in termini previsionali, conduce a ipotesi di riduzione anche consistenti del reddito disponibile per le famiglie. Il 20% degli italiani arriva a prevedere per il prossimo futuro una riduzione del reddito tra il 10% e il 20%, mentre il 21% ipotizza un calo compreso tra il 20% e il 30%. Il 13% delle famiglie, infine, pensa che la decurtazione di reddito potrebbe essere tra il 30% e il 50%. La quota di quanti prevedono tagli così consistenti sale dal 13% al 24% nei ceti popolari, mentre in quel che resta del ceto medio e nella classe sociale più ricca, abbiamo ovviamente una maggiore stabilità. Quanti prevedono un reddito stabile o in aumento sono mediamente il 15%, ma nei ceti benestanti e medi si sale al 23%. Nel nostro paese le disuguaglianze sono da decenni in costante crescita, ma la situazione attuale rischia di peggiorare e portare ad un pericoloso allargamento della forbice sociale con l’aumento delle ingiuste disuguaglianze, incompatibili con una nazione che si possa definire seria e civile.

Ma se a questo quadro non idilliaco aggiungiamo le false attestazioni di meritocrazia, la situazione si fa ancora peggiore. Infatti l’Italia è il Paese dell’Unione Europea dove i laureati faticano di più a trovare lavoro, quando lo trovano esso non è adeguato ai livelli di studio conseguiti e lo stipendio è la metà o meno se confrontato con quello degli altri Paesi. A livello europeo, circa 8 giovani in possesso di laurea su 10 hanno ottenuto un’occupazione in una fascia di tempo che va da 1 a 3 anni dal conseguimento del titolo di studio più alto. Si tratta però di un dato che varia significativamente da Paese a Paese.

Tra gli stati membri, l’occupazione più alta si registra in Lussemburgo, dove il 93,4% dei lavoratori che hanno ottenuto recentemente il titolo ha un posto di lavoro. Il Paese che invece riporta l’incidenza minore è l'Italia (65,2%), Fonte EUROSTAT. In un quadro educativo in cui diventa sempre più fondamentale insegnare l’importanza dell’apprendimento permanente a qualsiasi età, le università continuano a giocare un ruolo importante per garantire un’occupazione. A livello europeo, ci sono delle iniziative per sostenere e indirizzare l’ambito dell’istruzione superiore per fornire le competenze che sono direttamente spendibili sul mercato del lavoro.

Un quadro che non si può risolvere a colpi di mancette, come molti dei governi che si sono succeduti hanno mostrato di fare. Un discorso a parte è stata l’introduzione del Reddito di cittadinanza, che è presente in tutte le nazioni europee con importi spesso più importanti di quelli che erano finora previsti nel nostro Paese: introdotto per la prima volta in Italia nel 2019, esso ha spostato, come mai prima, nella storia della nostra nazione, 8 miliardi di euro l’anno dalla fiscalità generale ai due decimi più poveri della distribuzione del reddito, riuscendo, come non avveniva dagli anni ‘90 del secolo scorso, ad ottenere una riduzione della disuguaglianza tra il 20% della popolazione più ricca e il 20% dei più poveri nel Paese. Ma tutto questo, evidentemente, era qualcosa di troppo positivo per le persone povere e l’attuale governo ha provveduto ad eliminare questa misura che a qualsiasi persona di buon senso sembrava utile.

Sono quindi necessarie azioni sul lungo periodo per garantire un accesso all’ occupazione produttiva, occorre un ripensamento complessivo del modello di welfare e, soprattutto sul fronte del lavoro, una strategia orientata alla stabilità lavorativa, alla qualità degli stipendi e alla totale de-precarizzazione per tutti i lavoratori.

*Articolo pubblicato su "La Fonte periodico dei terremotati o di resistenza umana", aprile 2024, Anno 21, n. 4, pp. 10-11.

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