di Domenico Moro - L'ordinenuovo
Una delle questioni più importanti, per chi voglia operare politicamente in un qualsiasi Paese, è capirne la natura. Uno degli aspetti più importanti a questo scopo è stabilire quale sia la collocazione del Paese nell’economia-mondo, per usare un termine caro a Wallerstein. In termini marxisti, bisogna scendere dall’astrattezza del modo di produzione capitalistico alla sua concretizzazione, cioè alla formazione economico-sociale storicamente determinata. Secondo Wallerstein l’economia-mondo è spazialmente gerarchizzata, essendo divisa in tre zone: una alta, il centro, una media, la semiperiferia, e una bassa, la periferia1. Lenin definiva il capitalismo, giunto alla fase più alta di sviluppo, come imperialismo. Anche per Lenin l’imperialismo si divide in una metropoli imperialista, costituita da Stati centrali dominanti e da una periferia, costituita da Stati subalterni e dipendenti dai primi.
Quindi che tipo di formazione economico sociale è l’Italia e come si colloca nella gerarchia spaziale dell’economia mondiale? Negli ultimi anni si è diffuso un giudizio dell’Italia come paese periferico, in riferimento alla posizione occupata nell’area euro. Secondo alcuni l’Italia sarebbe addirittura una semicolonia e la sua classe dominante non una vera classe capitalistica ma una sorta di borghesia “compradora”, cioè una borghesia che fa gli interessi del capitale estero. Il termine di borghesia compradora è tipico dei Paesi periferici dove svolge il ruolo di agente commerciale – comprador – di imprese la cui sede è all’estero. L’uso di termini come periferia, semicolonia e borghesia compradora trovano terreno fertile nelle contraddizioni europee, e sono utilizzati da chi ritiene il nostro Paese e le sua classe dirigente politica ed economica sostanzialmente subalterni e proni agli interessi di altri Paesi.
L’uso di questa terminologia è, però, sbagliato e fuorviante. È senz’altro vero che la Germania (o l’asse franco-tedesco a seconda delle interpretazioni), svolge un ruolo egemonico economicamente e, in parte, anche politicamente nella Ue. Tuttavia, definire l’Italia una semicolonia e la sua classe dirigente economica una borghesia “compradora” è una forzatura che nasconde la realtà. La realtà è che l’Unione europea e l’unione economica e monetaria europea sono state volute fortemente dalla classe dominante italiana per i propri interessi e cioè per imporre quelle controriforme capitalistiche che altrimenti non sarebbero state realizzate. Interessi, quindi, non di una borghesia intermediaria e commerciale, ma di una borghesia industriale e finanziaria inserita nel mercato europeo e mondiale con un ruolo importante dal punto di vista della produzione e delle esportazioni sia di merci che di capitale. Questo naturalmente non toglie che all’interno dell’Europa non ci sia una gerarchia, così come non toglie che ci sia uno scontro in atto tra le varie frazioni del capitale europeo e gli Stati che le rappresentano.
Ad ogni modo, quando si impiegano delle categorie bisogna evitare facili incasellamenti. L’imperialismo attuale è intimamente connesso con quello dell’epoca di Lenin ma allo stesso tempo è diverso, perché non si basa sul controllo territoriale diretto della metropoli sulla periferia come nel periodo coloniale, ma su un controllo soprattutto indiretto, economico, politico e tecnologico. All’inizio del XIX secolo il centro metropolitano produceva prodotti industriali che andavano alla periferia e quest’ultima produceva prodotti agricoli e minerari che andavano verso la metropoli. Anche allora era diffusa l’esportazione di capitale e di attività industriali dal centro alla periferia, dove, per varie ragioni, il profitto è più alto. Gli investimenti industriali, però, all’epoca riguardavano soprattutto la costruzione di ferrovie e il settore minerario. Oggi, le catene della produzione manifatturiera si estendono globalmente attraverso i paesi centrali e semiperiferici e talvolta periferici. L’aspetto dell’uso forza militare rimane fondamentale, ma viene utilizzato in ultima istanza, spesso nella forma della coalizione imperialista. Dal punto di vista economico, l’Imperialismo attuale è quello delle multinazionali, anche se di recente, prima a causa della crisi della globalizzazione e dello sviluppo del protezionismo e, poi, della crisi del coronavirus, si assiste a un revival del ruolo dello Stato, come sostegno e difesa del proprio capitale multinazionale.
Il capitale e la borghesia italiani hanno lottato sin dall’Unità per inserirsi all’interno del centro metropolitano. Malgrado le sue debolezze, povera di materie prime e inizialmente anche di capitali, e giunta ultima all’unità nazionale e alla corsa alle colonie, l’Italia è riuscita a passare dalla semiperiferia al centro imperialista, a costo di gravi sofferenze per i lavoratori italiani e per le popolazioni coloniali, tra l’inizio del XX secolo e la seconda guerra mondiale. La sua debolezza economica e militare, specie se confrontata con la capacità industriale e militare di Inghilterra, Germania e soprattutto Usa, non toglie che dal punto di vista qualitativo l’Italia sia stata un Paese imperialista al pari degli altri. Anzi, la sua appartenenza al centro si è confermata con l’espansione economica post-bellica degli anni ’60. Già all’inizio del XX secolo l’Italia presentava una forte concentrazione monopolistica di capitale industriale al Nord e una tendenza imperialista industriale verso i Balcani, l’Africa del Nord e il Corno d’Africa2. I prodotti finiti della manifattura già nel 1913 rappresentavano nelle esportazioni italiane la quota maggiore (31,8%), che crebbe ulteriormente durante gli anni ’30 (41,7% nel 1938), mentre la quota di esportazioni di materie prime greggie e lavorate diminuiva contestualmente3. La stessa scelta di partecipazione alla Prima guerra passando dalla alleanza con la Germania e l’Austria a quella con il Regno Unito e la Francia, più che alle rivendicazioni sui territori irredenti, fu dovuta alla volontà di partecipare alla nuova spartizione delle colonie, che sarebbe seguita alla fine della guerra, e in particolare all’espansione economica nei Balcani, che prevedeva il controllo dell’Adriatico4. Il fascismo, fra le altre cose, fu l’espressione della volontà di entrare definitivamente nel novero delle potenze centrali, sia con l’impulso allo sviluppo industriale, grazie alla combinazione di Stato e monopoli privati, sia con la creazione di uno “spazio vitale mediterraneo” italiano.
L’Italia, semmai, presenta la peculiarità specifica di essere divisa in due parti, una, il Centro-Nord, che fa parte a tutti gli effetti del centro e una parte, il Sud che rappresenta una sorta di semiperiferia rispetto al Nord dell’Italia. Ma, dal momento che il peso del Centro-nord è preponderante, come Paese nel suo complesso, l’Italia appartiene al centro del sistema economico capitalistico.
È difficile parlare di Italia come Paese semicoloniale e semiperiferico, visto che, se andiamo a guardare la bilancia dei conti correnti, cioè lo stato delle transazioni di merci, servizi, redditi da lavoro e da capitale e trasferimenti correnti, possiamo osservare che il surplus di conto corrente nei dodici mesi terminanti a marzo 2020, secondo la Banca d’Italia6, è stato di 57,7 miliardi di euro (il 3,2% del Pil), migliorato ulteriormente rispetto al corrispondente periodo del 2019, grazie soprattutto all’aumento dell’avanzo mercantile (da 46 a 62,3 miliardi di euro). Per un confronto con altri Stati, considerati appartenenti al centro, vediamo le statistiche Ocse: nel 2019 il Regno Unito presenta un deficit della bilancia dei conti correnti del -3,78% sul Pil, la Francia del -0,67% e la Spagna del -2,0%, viceversa l’Italia registra un surplus del +2,96%. Solo la Germania, fra i Paesi maggiori dell’Europa, fa meglio dell’Italia con +7,13%7.
L’imperialismo non è una politica, ma uno stadio di sviluppo del capitalismo, che può quindi esprimersi in modo apertamente violento o usare mezzi pacifici, a seconda dei casi. Questo stadio di sviluppo si distingue, secondo Lenin, per alcune caratteristiche economico-strutturali: la concentrazione e centralizzazione dei mezzi di produzione e del capitale, la fusione del capitale bancario con quello industriale e il formarsi sulla base dell’unione di questo capitale finanziario di una oligarchia finanziaria, l’importanza dell’esportazione di capitale in confronto a quelle di merci, il sorgere di associazioni internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo e la compiuta ripartizione della terra tra le maggiori potenze capitalistiche8.
Ci concentreremo, riguardo all’Italia, sulla concentrazione della produzione, sull’integrazione di industria e finanza, e sull’esportazione di capitale. Nell’insieme dell’economia tra 2001 e 2018 le imprese oltre i 500 addetti, pur essendo appena lo 0,1% del totale, sono passate dal 21,2% degli addetti al 22,8%9. Ci sono, inoltre, due considerazioni da fare. La prima è che nell’insieme delle imprese ci sono settori che non sono tipicamente parte della produzione capitalistica e sono caratterizzati da piccole dimensioni, come il piccolo commercio e l’artigianato, che in Italia resistono negli interstizi della società capitalistica meglio che altrove. La seconda è che, come è tipico del modello italiano di struttura imprenditoriale, le micro, piccole e medie imprese spesso sono parte di gruppi o comunque subalterne e fornitrici monocliente di imprese più grandi. Il 5% delle imprese è organizzato in strutture di gruppo che occupano un terzo degli addetti complessivi (5,6 milioni di dipendenti)10. Inoltre, tra tutte le imprese del censimento permanente dell’Istat il 32,5% ha rapporti di commessa e il 25,4% ha un rapporti di subfornitura con altre imprese, dati che nella manifattura salgono rispettivamente al 46,1% e al 39%11. Per avere una idea più chiara sul processo di concentrazione osserviamo il settore della manifattura, dove, nel periodo della crisi, tra 2008 e 2017, si è svolto un processo di forte concentrazione. Le imprese più grandi, al di sopra dei 250 addetti, pur essendo lo 0,3% del totale, passano dal 32,6% al 39,7% del valore aggiunto complessivo e dal 26,8% al 30,7% dei dipendenti complessivi12.
La concentrazione è particolarmente intensa nel settore bancario e assicurativo. Nel settore bancario ci sono due grandi semimonopolisti, Unicredit e Banca Intesa, la quale proprio in questo periodo sta portando avanti un progetto di acquisizione della quarta banca italiana, Ubi, operazione che creerebbe un notevole monopolista. Il settore assicurativo vede il mercato dominato da tre compagnie: le Assicurazione generali, uno degli maggiori gruppi d’Europa e vera cassaforte del capitalismo italiano, Allianz, e Unipol. Anche l’aspetto della integrazione tra capitale industriale e finanziario (bancario e assicurativo), che per Lenin è uno dei presupposti strutturali dell’imperialismo, è molto presente in Italia ed collegato alla concentrazione del potere economico italiano nelle mani di pochi gruppi e famiglie industriali. Mediobanca, la principale banca d’affari italiana, anche se non è più così centrale nel capitalismo italiano come all’epoca di Cuccia, continua a svolgere un ruolo importante, perché vi partecipano alcune tra le famiglie di industriali più importanti in Italia (Berlusconi, Benetton, Gavio, Doris, Della Valle), riunite in un accordo di consultazione, e perché possiede il 13% delle Generali, nel cui capitale sono presenti altre importanti famiglie italiane di industriali (Caltagirone, Benetton e De Agostini). Un esempio di integrazione tra capitale industriale e finanziario è Del Vecchio, patron di Luxottica, che è il primo azionista di Mediobanca con il 9% delle azioni, ed è presente anche in Generali (4,5%) e Unicredit (2%). Recentemente, Del Vecchio ha chiesto l’autorizzazione alla Bce per salire al 20% di Mediobanca, il che, attraverso la partecipazione in Generali, lo porterebbe a rafforzare la sua capacità di controllo della finanza italiana e a costruire un polo finanziario italiano con al centro Mediobanca e le Generali.
Negli ultimi anni abbiamo avuto vari esempi di centralizzazioni proprietarie, mediante acquisizioni/fusioni cross border (cioè internazionali), portate avanti da grandi imprese italiane, come Fiat, prima con Chrysler e ora con Psa, e Luxottica con Essilor, solo per citare quelle più famose. Nei primi tre mesi del 2020 le multinazionali italiane hanno finalizzato operazioni di fusione o acquisizione all’estero per 6,6 miliardi di euro (2,9 miliardi nello stesso periodo del 2019), mentre le operazioni dall’estero sono ammontate a soli 1,2 miliardi (2,4 nel 2019)13. Dunque, siamo arrivati a uno degli aspetti più importanti, per la collocazione “spaziale” dell’Italia, che è la crescita dell’esportazione di capitale all’estero. A questo proposito prendiamo in considerazione gli investimenti diretti all’estero (Ide) in uscita dall’Italia verso il resto del mondo14.
Lo stock degli Ide in uscita, tra 1980 e 2018, è cresciuto notevolmente, passando dall’1,5% al 26,3% sul Pil. L’Italia è esportatrice netta di capitale, in quanto gli Ide in uscita superano quelli in entrata, già dagli anni ’80 e stabilmente dagli anni ’90, nel 2018 lo stock degli Ide in uscita ha superato quello degli Ide in entrata di circa 118 miliardi di dollari. Malgrado l’Italia presenti uno stock di Ide inferiore (548 miliardi di dollari) a quelli di Francia (1.466 miliardi) e Germania (1.645 miliardi)15, la sua crescita media annua è stata maggiore nel periodo tra 1980 e 2018, raggiungendo il +12,03%, contro il +10,06% della Germania e il +11,4% della Francia. Nello stesso periodo lo stock di Ide italiani è passato dal 17% e 29,4% di quelli della Germania e della Francia a rispettivamente il 33,4% e 36,4%. C’è da notare che la crescita degli Ide italiani si è intensificata prima durante gli anni ’90, e poi subito dopo la crisi del 2007-2008, con un breve rallentamento tra 2014 e 2016 e un rialzo nel 2017 e 2018 (Fig.1). In entrambi i casi la crescita degli investimenti all’estero ha seguito una forte crisi economica (all’inizio degli anni ’90 e poi nel 2007-2008), e il calo del profitto nell’economia interna. Alla stagnazione nell’economia interna fa da contraltare l’aumento dell’attività dei capitali a livello internazionale, coerentemente con la teoria marxista che lega l’esportazione di capitale alla sovraccumulazione di capitale e quindi alla necessità di contrastare la caduta del saggio di profitto, investendo dove i profitti sono più alti o perché i salari e altri tipi di costi sono più bassi o perché il mercato è più ricco e consente margini più alti grazie a prezzi più alti. La dinamica illustrata nella Fig.2 è quella tipica di un Paese a capitalismo avanzato, con una tendenza all’aumento della composizione organica (il rapporto tra capitale investito in mezzi di produzione e capitale investito in salari) e una corrispondente caduta del saggio di profitto16.
Le multinazionali italiane negli ultimi anni, tra 2010 e 2017, sono passate da 22.081 a 23.727 con una crescita media annua di quasi l’1%. Il loro fatturato è salito da 434,6 miliardi di euro a 538,3 miliardi (+2,7% medio annuo), mentre gli occupati sono saliti da 1.605.146 a 1.794.501 (+1,4%)17. Malgrado le multinazionali a controllo italiano siano solo lo 0,5% delle imprese residenti in Italia, i loro addetti e il loro fatturato all’estero rappresentano rispettivamente il 10,9% e il 17% del totale italiano. I Paesi dove la presenza è maggiore in termini di addetti sono nell’ordine: gli Stati Uniti (286mila addetti), il Brasile (146mila), la Cina (140mila), la Romania (125mila), la Germania (107mila), e la Francia (75mila). Per quanto riguarda il fatturato al primo posto sono gli Stati Uniti (25,4% del totale), seguiti dalla Germania (11,7%)18. Alcuni pensano all’Italia come colonia delle imprese della Germania. In realtà, anche la presenza dell’Italia in Germania è massiccia, sicuramente con valori assoluti inferiori a quelli della presenza tedesca nel nostro Paese, ma che rispecchiano, grosso modo, le differenti dimensioni delle due economie, dal momento che il Pil della Germania è di un terzo più grande di quello italiano. Nel 2017 la Germania era presente in Italia con 1.016 imprese che impiegavano 156mila addetti e sviluppavano 87,1 miliardi di fatturato. L’Italia, invece, era presente in Germania con 1.671 imprese che impiegavano circa 107mila addetti e fatturavano 63 miliardi di euro. Non certo numeri da colonia19.
Contrariamente a una opinione diffusa in certi settori politici e culturali, l’Italia è tutt’altro che un paese periferico, semiperiferico o semicoloniale. L’Italia appartiene al centro metropolitano all’interno del sistema imperialista. Gli indicatori che abbiamo visto, pur in modo rapido e parziale – il Pil pro capite, la bilancia dei conti correnti, gli Ide e la presenza delle multinazionali a controllo italiano all’estero – lo provano. Tuttavia, la formazione economico-sociale italiana presenta delle specificità e delle peculiarità importanti che possono aiutarci a definire con più precisione il suo posizionamento.
Le caratteristiche dei Paesi centrali e imperialisti sono sì presenti nella formazione economico-sociale italiana, ma in misura meno accentuata che in altri Paesi come la Germania e la Francia. La struttura economica dell’Italia si caratterizza per una notevole concentrazione del capitale in pochi grandi gruppi privati e semi-pubblici, anche se presenta un numero di micro-imprese e Pmi molto maggiore di quello di altri Paesi centrali. L’esportazione di capitale è cresciuta molto rapidamente ma in valore assoluto rimane significativamente inferiore a quella di altri Paesi centrali di dimensioni comparabili. Soprattutto ci sono due altre peculiarità di cui tenere conto. La prima è che l’Italia contiene al suo interno il Mezzogiorno, una zona semiperiferica o, per dirla con Arrighi, una sorta di “terra di nessuno” tra semiperiferia e centro, anche se Arrighi riferiva questo tipo di classificazione all’intera Italia20. La seconda è che lo Stato italiano presenta delle debolezze, sia sul piano diplomatico-politico sia sul piano militare, che non lo rendono completamente adeguato alle necessità di espansione del capitale italiano. Espansione economica e capacità di proiezione di forza politico-militare sono un binomio inscindibile anche oggi. La grande borghesia italiana è tutt’altro che una borghesia compradora ed è conscia dei limiti che la Ue impone all’Italia, ma è conscia anche dei limiti dello Stato italiano e ritiene di poter essere meglio tutelata in un ambito più vasto, sia questo la Ue e la Uem o la Nato. Del resto, non può essere altrimenti per un Paese che ha perso l’ultima guerra ed è disseminato di basi militari statunitensi. L’europeismo e l’atlantismo del grande capitale italiano nascono da questa situazione, non da altro. Un esempio della scarsa capacità dello Stato italiano di difendere gli interessi all’estero del suo capitale si è avuto con la guerra contro la Libia di Gheddafi, cui la Francia ha dato avvio proprio per soppiantare l’Italia, e in particolare l’Eni, in quel Paese. Del resto, il confronto imperialista tra Italia e Francia nel Nord Africa è vecchissimo e data dall’occupazione francese della Tunisia nel 1881, fatto che in Italia venne definito lo “schiaffo di Tunisi”, ed è continuato fino ad oggi, passando per il colpo di Stato in Tunisia appoggiato dall’Italia nel 1987 contro Bourghiba, che portò al potere Ben Alì, e alla sostituzione dell’influenza francese con quella italiana.
Come fece notare già Lenin il capitalismo è caratterizzato da uno sviluppo diseguale, che tende a modificare i rapporti di forza tra frazioni di capitale e tra gli Stati che ne sono espressione. Quindi, nulla è acquisito per sempre e le varie frazioni di capitale del centro e i loro Stati sono continuamente in lotta per mantenere o migliorare le proprie posizioni. Il capitale e lo Stato italiani non fanno eccezione. Oggi sono collocati, anche se nelle posizioni gerarchiche più basse, all’interno del centro imperialista, ma lottano in continuazione per mantenere e migliorare le proprie posizioni. In questa lotta rientra il revival della presenza dello Stato nell’economia, con le ricapitalizzazioni delle imprese ad opera della Cdp, i prestiti garantiti dallo Stato a multinazionali come Fca, e l’ampliamento del golden power, cioè la capacità in capo allo Stato di impedire acquisizioni di imprese strategiche dall’estero. E vi rientra anche il riarmo in atto da anni, che ha portato all’aumento della capacità militare di “proiezione di forza” – soprattutto con il rafforzamento della componente aeronavale – e alla partecipazione a numerose missioni militari all’estero, che spesso si sono tradotte in azioni di guerra, come in Somalia, Afghanistan, Iraq e Libia. Tutte queste operazioni sono state svolte per poter pesare di più a livello internazionale e per garantire la partecipazione del capitale italiano alla spartizione delle risorse di quei Paesi. Ad esempio, la presenza italiana in Iraq tra 2003 e 2006 era legata alla possibilità dell’Eni di rientrare nella spartizione del petrolio e in particolare a contratti preesistenti per dei pozzi nei pressi di Nassiriya, dove in effetti era dislocato il contingente italiano. Dal 2014 un nuovo contingente italiano è presente in Iraq, di cui una parte è stato destinato a difendere una diga nei pressi di Mosul per la quale la ditta italiana Trevi aveva vinto un contratto di manutenzione. Bisogna, infine, ricordare che un imperialismo o uno Stato imperialista “debole” è debole solo in termini relativi, cioè rispetto a un altro imperialismo. Soprattutto debole non vuol dire inoffensivo né tanto meno pacifico. Sono proprio gli imperialismi “deboli”, desiderosi di migliorare la propria posizione, o in decadenza a essere spinti a una maggiore aggressività sia all’interno, verso i propri lavoratori, sia all’estero, verso altri Paesi.
Note
1 Immanuel Wallerstein, La crisi come transizione, in AA. VV. “Dinamiche della crisi mondiale”, Editori Riuniti, Roma 1988.
2 Richard Webster, L’imperialismo industriale italiano tra 1908 e 1915, Einaudi, 1997.
3 Domenico Moro, L’internazionalizzazione dell’economia dell’Italia nel suo passaggio dalla semiperiferia al centro dell’economia-mondo, “Dialettica e Filosofia”, 26 febbraio 2018.
4 Gian Enrico Rusconi, L’azzardo del 1915. Come l’Italia decide la sua guerra, Il Mulino, Bologna 2009.
5 Eurostat, Regional economic accounts, Gross domestic product (GDP) at current market prices by NUTS 2 regions (nama_10r_2gdp).
6 Banca d’Italia, Statistiche, Bilancia dei pagamenti e posizione patrimoniale sull’estero, 20 maggio 2020. https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bilancia-pagamenti/2020-bilancia-pagamenti/statistiche_BDP_20200520.pdf
7 Oecd.Stat, Balance of payments BMP6, current account balance as a % of GDP.
8 Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p.128.
9 Istat, Censimento permanente delle imprese.
10 Istat, Conti economici delle imprese e dei gruppi d’Impresa, anno 2017, 14 ottobre 2019.
11 Istat Censimento permanente delle imprese.
12 Nostra elaborazione su dati Eurostat, Industry by employment size class (NACE Rev. 2, B-E) [sbs_sc_ind_r2]
13 Il Sole 24 ore, 21 aprile 2020.
14 Gli investimenti diretti all’estero sono quegli investimenti internazionali volti all’acquisizione di partecipazioni “durevoli” (di controllo, paritarie o minoritarie) in una impresa estera (fusioni e acquisizioni) oppure alla costituzione di una filiale all’estero (investimenti greenfield), che comportino un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nell’azienda e nella gestione della impresa partecipata o costituita.
15 Unctad, database.
16 Karl Marx, Il capitale, libro III, cap. XIII e XIV, Newton Compton Editori, Roma 1996.
17 Eurostat, Outward FATS, main variables – NACE Rev. 2 [fats_out2_r2].
18 Istat, Struttura e competitività delle imprese multinazionale, 22 novembre 2019.
19 Ibidem e Eurostat, Outward FATS, main variables – NACE Rev. 2 [fats_out2_r2].
20 Arrighi G., Semiperipheral Development, The Politics of Southern Europe in The Twentieth Century, Sage publication, Beverly Hills, London, Delhi, p. 247.
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