Italia, una democrazia azzoppata

Come sta la democrazia italiana?

Definire lo stato di salute di una democrazia è complicato perché è difficile trovare i parametri adatti a questa ardua impresa. Alcuni criteri di utilizzo usati nell’articolo verranno enunciati successivamente ma restano limitati e limitanti. Questo perché la base della crisi della democrazia e delle istituzioni rappresentative è innanzitutto un sentimento e i sentimenti non sono riconducibili a dati oggettivi. Nel caso dell’Italia l’antipolitica è il fondamento di questa flessione della democrazia. Questo disgusto per i politici è una diretta conseguenza di Tangentopoli. A quasi trent’anni di distanza la furia moralizzatrice del 1992, degna di Catone il Censore, può essere definita chiaramente come un’opera strutturata di ricambio forzato della classe dirigente. Sia chiaro, i politici della Prima Repubblica erano spesso corrotti e rispondevano a interessi clientelari ma avevano una visione di ciò che doveva essere l’Italia. Mani Pulite ha dissolto quella classe dirigente che aveva ricostruito il Paese e ha minato la fiducia dei cittadini nella politica. Al posto dei novecenteschi partiti di massa ci sono formazioni personalistiche senza radicamento territoriale e senza nemmeno la volontà di averlo. Le colpe sono sia dei cittadini sia della classe dirigente. I primi rifiutano oramai totalmente l’interesse per la Cosa pubblica mentre la seconda è trasformista e di bassissima qualità. L’antipolitica infatti è nata e si è diffusa in un ambiente favorevole. A ciò si aggiunge il fatto che sia un concetto generalizzante e in linea di massima facile da assimilare e comprendere ed ecco spiegata la velocità di diffusione del “morbo”. Ma questo sentimento mette in difficoltà la democrazia perché aumenta la distanza tra governati e governanti oltre a rendere i cittadini meno coinvolti e meno fiduciosi nelle istituzioni e quindi nella democrazia.

Elezioni e partiti

L’affluenza alle ultime comunali è stata sintomatica della disaffezione dei cittadini alle elezioni. Soprattutto nelle aree periferiche e più povere i dati sono stati allarmanti. La colpa è anche e soprattutto dei pentastellati che hanno cavalcato l’antipolitica per poi finire ad essere più realisti del re. L’allontanamento della popolazione dall’istituzione del sindaco, la più vicina tra le emanazioni della democrazia e quindi teoricamente quella che dovrebbe interessare di più, è preoccupante. Ma anche nelle ultime elezioni politiche si è registrato il dato più basso di sempre come affluenza pur non toccando quei picchi in negativo che si aspettavano in molti. Ma se i cittadini si stanno allontanando dalla massima espressione di democrazia, cioè il voto, è anche e soprattutto colpa di ciò che rimane di quelli che un tempo si chiamavano partiti. Essi oramai sono spariti nonostante non abbiano esaurito il proprio compito storico e nonostante il loro ruolo all’interno delle democrazie sia imprescindibile. Adesso esistono soprattutto “movimenti” o pseudo partiti. In entrambi i casi si tratta di contenitori vuoti utili solo a dare una parvenza di apparato a conglomerati politici che vivono solo in funzione del loro leader. Non aiuta il fatto che i partiti siano oramai appiattiti su posizioni identiche e che le uniche divergenze si concentrino su tematiche secondarie e non strutturali. La politica sta diventando sempre di più spettacolo e i suoi caratteri personalistici hanno preso il sopravvento sulle idee. Un “partito” vive finché il suo leader, spesso aiutato da sapienti esperti di marketing, riesce ad esercitare un fascino carismatico sugli elettori. Terminato l’idillio, il “capo” viene superato e cade nel dimenticatoio politico. A ciò si aggiunge l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, approvato dal governo Letta ed effettivo dal 2017. Questa legge, abbastanza demagogica, ha reso i partiti vulnerabili agli interessi di determinate lobby e all’attacco dei gruppi di pressione che usano i partiti stessi per ottenere vantaggi.

Ruolo del Parlamento

Essendo l’Italia una repubblica parlamentare è necessario prendere in esame quest’ultima istituzione per cercare di capire lo stato di salute della democrazia. E la situazione non è ottimale. Si parta dal referendum del settembre 2020 che ha visto la vittoria del “Sì” e ha avvallato la decisione di tagliare il numero dei parlamentari. Il referendum aveva intenti chiaramente populisti perché il taglio non garantisce alcun risparmio considerevole ma semplicemente rende il Parlamento più lento nel legiferare e più manovrabile. Ma soprattutto viene diminuito il numero di persone che vengono elette dai cittadini. Inoltre il Parlamento è svilito anche dalla pratica del cosiddetto “cambio di casacca”. Alla data del 11 settembre 2021 sono stati ben 267 i parlamentari che hanno cambiato partito o, e sono la maggioranza, sono finiti nel gruppo misto. Quest’attività è sempre più comune, disorienta l’elettore e svaluta il ruolo stesso del Parlamento. Il cambio di casacca è diretta conseguenza dell’infimo livello della classe dirigente e della crisi profondissima dei partiti. Se questi ultimi infatti sono solo funzionali al loro leader e non hanno ideologie ben chiare, sono anche interscambiabili. A questi trasformismi si accompagna l’uso sempre più frequente dei voti di fiducia. Essi sono particolari votazioni in cui il governo lega il proprio destino a quel determinato voto. È una pratica perfettamente costituzionale ma il suo abuso è un segnale di pericolo perché di fatto consiste nel forzare la mano al Parlamento. O quest’ultimo si prende la responsabilità davanti al Paese di iniziare una crisi di governo oppure accetta il volere dell’esecutivo. Delle due solo la seconda è percorribile. Infatti la prima opzione è sempre più malvista dall’opinione pubblica che parte dal presupposto errato che i problemi dell’Italia siano da imputare ai suoi governi deboli. Questa fallace opinione ignora la Storia e la Costituzione. Ciò accade perché la prima insegna che l’Italia andava bene economicamente nonostante cambiasse molti governi. Mentre la seconda è fatta appositamente per evitare che ci siano esecutivi troppo forti. In questo senso la svolta personalistica della politica, accentuata incredibilmente durante il governo Draghi, stride con i voleri dei Padri costituenti.

Governi tecnici

Nei giorni della crisi del governo Conte II e dell’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi si accese un breve ma intenso dibattito sui cosiddetti “governi tecnici” e sulla loro legittimità democratica. I dubbi su di essa sono molti. In primis i tecnici sono scelti laddove, secondo l’opinione pubblica, fallisce la politica. Ciò accade soprattutto in concomitanza di crisi sistemiche, basti pensare ai governi Monti e Draghi. Ma questo fallimento della politica è solo supposto e indimostrabile e quindi diventa un pretesto. I “tecnici” non sono espressione del Parlamento, e quindi del popolo italiano, e non devono nemmeno rendere conto del proprio operato alle successive elezioni visto che non hanno interesse a presentarsi. Inoltre gli stessi tecnici sono poco avvezzi alla politica e tendono ad un accentramento del potere nelle mani dell’esecutivo come dimostrato dal record di voti di fiducia del governo Monti. Anche le manovre che portano alla loro costituzione sono spesso opache. In questo caso è paradigmatico sempre il caso dell’esecutivo di Monti, nato dopo immense pressioni da parte dell’UE a guida franco-tedesca, dell’opinione pubblica e dell’allora presidente della Repubblica Napolitano. Berlusconi fu di fatto costretto alle dimissioni in maniera poco democratica. E nella stessa maniera poco democratica Draghi sta decidendo l’utilizzo del Piano nazionale di ripresa e resilienza visto che una commissione parlamentare ancora non c’è e i ministeri che usufruiranno maggiormente dei fondi europei sono in mano a fedelissimi del presidente del Consiglio. Il Pnrr è un sistema di prestiti, molti, e soldi a fondo perduto, pochi, che necessita di uno stretto controllo di coloro che sono stati eletti perché rischia di trasformarsi in una trappola. Capacità di controllo che il Parlamento non ha visto che è impaurito e succube di Draghi e di Confindustria. Come testimoniano le deliranti parole di Bonomi sul presunto assedio dei partiti al presidente del Consiglio. In conclusione la democrazia viene sconfitta quando nascono governi tecnici sostenuti da maggioranza troppo eterogenee, spaventate dalla necessità, imposta da poteri internazionali, di portare avanti politiche anti popolari.

Tocqueville e Marx

Per inquadrare meglio la crisi conclamata della democrazia italiana occorre rispolverare il pensiero di due pensatori antitetici. Il primo è Alexis de Tocqueville, ex punto di riferimento dei liberali. Il secondo è Karl Marx, ex saggio ispiratore della sinistra italiana. Tocqueville metteva in guardia dall’eccesso di individualismo che rischia di ammorbare la democrazia. I cittadini infatti non devono disinteressarsi alla Cosa pubblica ma partecipare ad essa. In caso contrario lo Stato si dilaterebbe eccessivamente diventando un enorme oppressore. Ma Tocqueville riteneva l’individualismo, che si sarebbe dovuto combattere con la partecipazione della popolazione alle istituzioni locali, un male insito nella democrazia. Ciò non è vero perché il personalismo è diretta conseguenza del capitalismo. Ed è qua che gli insegnamenti del più famoso cittadino di Treviri vengono in aiuto. Marx infatti metteva in guardia dal fatto che il “progresso” del libero mercato ha un effetto disgregatore sulla società. La classe media si proletarizza e le sempre più crescenti disuguaglianze mettono in pericolo anche l’odierna repubblica parlamentare. La situazione post pandemica testimonia conflitti sociali sempre più accentuati dovuti a una crisi economica che ha visto guadagni record solo per i grandi capitalisti. In queste contraddizioni economiche la democrazia italiana, già in affanno, rischia di diventare zoppa.

Conclusione

La democrazia italiana sembra essere in una fase calante tra gusto della tecnocrazia e ruolo sempre più minoritario del Parlamento, asse portante del nostro sistema istituzionale. Il primo punto è particolarmente sensibile visto che i governi tecnici, di fatto un unicum italiano, sono di dubbia democraticità. Ma anche la seconda tendenza è preoccupante. L’azione combinata del disinteresse dei cittadini e gli scandali che ammorbano una classe dirigente composta da molti impresentabili non aiutano a recuperare la fiducia nella democrazia italiana. A ciò si somma la crisi economica e le contraddizioni interne al capitalismo che minano ancora di più la tenuta sociale della nostra repubblica. Questa flessione della democrazia è stata causata anche dalla trasfigurazione della sinistra che ha perso identità e ha abbandonato i suoi tradizionali pilastri. Urgono soluzioni.

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