di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico
Da sempre sosteniamo che la crisi geopolitica in corso ha un'origine di natura economica e monetaria che risiede nell'enorme squilibrio del saldo delle partite correnti e della posizione finanziaria netta statunitense che ormai sta minando la stabilità del dollaro come moneta standard utilizzata per gli scambi internazionali.
Una crisi silente quella del dollaro perché chiara nelle sue motivazioni solo agli economisti (o agli appassionati di macroeconomia), ma devastante nelle conseguenze economiche e geopolitiche. Dopo vari tentativi con i quali l'Amministrazione Obama ha provato a far ragionare gli europei sulla necessità di sanare lo squilibrio commerciale e il gap di competitività tra le due sponde dell'Atlantico, gli americani sono passati alle vie di fatto (servendosi peraltro dei loro alleati più stretti di Varsavia e dei paesi baltici) orchestrando moti di piazza, di estrema destra, a Kiev che sono sfociati nel cambio di regime in Ucraina. Una mossa che non poteva non provocare una crisi aperta tra l'Occidente e Mosca che poi - finita la parentesi trumpiana a Washington - si è trasformata in una proxy war tra Occidente e Russia sul suolo ucraino con un corollario di sanzioni fortissime che hanno reciso il cordone ombelicale tra Europa (e soprattutto Germania) e Russia, minando così la competitività europea che era proprio l'obbiettivo primario che a Washington volevano raggiungere nella speranza di riequilibrare i propri conti con l'estero relativi al lato europeo.
Affinché l'obbiettivo americano possa aver successo è necessario però che si verifichi qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Europa anche nell'altro grande polo produttivo mondiale, l'Estremo Oriente dove Cina, Giappone, Corea del Sud, Taiwan hanno un enorme avanzo commerciale e di partite correnti con gli Stati Uniti. Infatti, non a caso, anche in questo quadrante dello scacchiere mondiale gli Stati Uniti stanno preparando una sorta di accerchiamento della Cina, denominato “Pivot to Asia” e che ha l'obbiettivo ufficiale di delimitare lo strapotere cinese sia dal punto di vista diplomatico che da quello economico. Il punto è che, esattamente come avvenuto tra Europa e Russia a causa della proxy war ucraina, anche qui ad essere colpiti dal conflitto non saranno solo i cinesi ma saranno anche gli alleati degli americani ridotti a fare da “cintura di contenimento” di Pechino per conto di Washington. In altre parole, a subire i costi di questa operazione non saranno solo i cinesi, ma anche i giapponesi, i sud coreani, i taiwanesi e i filippini. Ovvero, manco a farlo apposta, quelle nazioni che hanno il saldo della posizione finanziaria netta con un enorme attivo rispetto agli Stati Uniti e che a causa del conflitto si vedrebbero minata la loro competitività e reciso il cordone ombelicale con la Cina.
Tutto esattamente come vogliono a Washington per salvare l'egemonia mondiale del Dollaro che una volta risolto il problema in Estremo Oriente e in Europa dovrebbero risolvere “solo” la questione dell'aperta ribellione dell'Arabia Saudita entrata ormai nei BRICS e sostanzialmente alleata di Cina e Russia e quindi non più disponibile ad alimentare il meccanismo del Petrodollaro, fondamentale per garantire il Dollaro come moneta degli scambi internazionali.
Come si può intuire, questa enorme partita nello scacchiere mondiale nel quale Washington sta muovendo le pedine con l'obbiettivo di salvare la sua moneta non può finire prima di venti anni peraltro a costi economici ed umani esorbitanti.
Ed è in questo contesto di mobilitazione nazionale per salvare il dollaro che però proprio in USA sta nascendo l'ipotesi di provare a percorrere una strada alternativa a quella della guerra: provare ad attrarre capitali verso il dollaro attraverso le cryptomonete.
A lanciare questa ipotesi è stato il 13 Giugno di quest'anno un articolo sul Wall Street Journal dal titolo “Crypto Could Stave Off a U.S. Debt Crisis” [“Le criptovalute potrebbero evitare la crisi del debito degli Stati Uniti”] scritto da Paul D. Ryan. In questo interessante articolo l'autore sottolinea che “Le stablecoin sostenute da dollari forniscono la domanda per il debito pubblico statunitense e un modo per tenere il passo con la Cina” e che, conseguentemente, le stablecoin possono diventare un fattore attrattivo per il debito pubblico americano in un epoca di de-dollarizzazione e dunque di fuga dei capitali esteri dagli USA (il grande problema!).
Facciamo ora un passo indietro: cosa sono le stablecoin? Le stablecoin sono delle “cryptomonete” che si caratterizzano per due particolarità: sono cryptomonete secondarie, nel senso che vengono “costruite” accendendo degli Smart Contract nei quali si indica il valore equivalente in moneta di stato a corso legale per ogni singolo token. Dunque si tratta di cryptomonete in qualche modo equiparabili a degli assegni emessi da qualcuno e dove è indicato il valore e inoltre dove si dice che il token è pagabile a vista al portatore per quanto indicato. A cambiare è dunque il supporto su cui è “redatto” l'assegno/contratto/smart contract, non più la carta ma un codice cryptato (generalmente in uno standard chiamato ERC20) e registrato su una blockchain generalmente già esistente e che ha già una sua moneta “nativa” come per esempio la blockchain Ethereum che ha la sua moneta nativa Ether , ma dove possono essere – appunto - accesi anche degli Smart Contract che generano dei token ai quali può essere dato un valore di concambio in moneta di stato a corso legale sia essa il dollaro, o l'euro, o lo yuan, o il rublo ecc e dunque di fatto emettendo una stableoin.
Prendiamo per esempio la stablecoin USDT che viene emessa dalla società americana Tether tramite l'accensione di Smart Contract in delle blockchain preesistenti (e con una loro cryptomoneta nativa) quali Etheuram, EOS, Tron, Algorand e OMG Network ha stabilito che ogni token emesso vale 1 dollaro e che conseguentemente chi lo vuole detenere questa cifra (all'incirca) deve pagare. A sua volta la società Tether, in buona parte, deposita i dollari incassati, in dei conti titoli accesi presso le banche tradizionali dove vengono acquistati e detenuti titoli di debito pubblico made in USA.
Ecco dunque da dove viene l'idea di Paul D. Ryan sul Wall Street Journal che peraltro aggiunge che “le stablecoin basate sul dollaro sono già un importante acquirente netto del debito pubblico degli Stati Uniti” proprio grazie al meccanismo che vi ho descritto poc'anzi. Ryan inoltre sottolinea che i fondi emittenti stablecoin denominate in dollari sono già oggi tra “i primi dieci paesi che detengono titoli del Tesoro – più piccolo di Hong Kong ma più grande dell’Arabia Saudita”. Certamente, mi sento di poter dire che quello delle stablecoin è un mercato di tutto rispetto che può aiutare gli USA a tamponare la crisi della fuga dal dollaro, anche se, al momento, è davvero difficile capire se un loro impiego massiccio, incentivato dal governo USA, possa essere sufficiente a scongiurare il declino della moneta nordamericana.
Credo comunque di poter dire che ben difficilmente questo articolo sia passato inosservato, infatti Trump, noto detrattore storico delle cryptomonete sembra aver cambiato completamente posizione rispetto a questo fenomeno. Infatti si fa sempre più insistente la voce che il Tycoon newyorkese potrebbe annunciare Bitcoin (BTC) come nuovo asset strategico del governo americano alla prossima Bitcoin 2024 Conference a Nashville. Secondo Dennis Porter, co-fondatore dell'organizzazione no-profit Satoshi Act, fonti interne allo staff di Trump gli hanno detto che annunciare Bitcoin come asset di riserva è già nella lista delle "cose da fare" del Tycoon, e la Bitcoin 2024 Conference, in programma dal 25 al 27 luglio, potrebbe offrire il momento opportuno per fare l'annuncio che avrebbe portata storica. Se questa sarà la data prescelta - in questa fase tumultuosa della campagna presidenziale americana - lo vedremo presto, ma ciò che è evidente è comunque l'aumento di interesse da parte dell'establishment politico USA verso il settore delle cryptomonete.
A questo punto faccio due piccole considerazioni: (1) bitcoin, a differenza delle stablecoin come USDT non ha un valore ancorato a qualcosa (sia essa una valuta di stato a corso legale o una materia prima come l'oro) ma questo è stabilito dalla semplice fluttuazione della domanda e dell'offerta. (2) Nell'ecosistema crypto globale (a sua volta dominato dal bitcoin che è di gran lunga la cryptomoneta più usata e detenuta) il dollaro ha una posizione di preminenza rispetto alle altre monete di stato a corso legale per i seguenti fattori fondamentali: (a) il dollaro è la moneta di stato ampiamente più utilizzata nelle coppie di trading nel mercato crypto (BTC/USD, ETH/USD e via discorrendo) (b) molte delle principali borse di cryptovalute hanno sede in USA e conseguentemente usano il dollaro come concambio. Visto tutto questo è abbastanza chiaro il perché se si vuole entrare nel mercato delle crypto molto probabilmente è necessario prima avere dollari (la conversione avviene di default, anche se voi credete di aver pagato in euro...) e da tutto questo si può dedurre che l'idea (al momento solo ipotizzata) di Trump di annunciare bitcoin come nuovo asset strategico potrebbe portare ingenti capitali da tutto il mondo verso il dollaro e da qui, verso le cryptomonete.
Gli scettici certamente sosterranno che Trump vuole tamponare la fuga dal sistema-dollaro gonfiando una mega bolla sulle cryptomonete. Una cosa questa che certamente non piace ai puristi, ma credo che tutti dovranno convenire, che - in attesa di tempi migliori - è meglio gonfiare una bolla speculativa piuttosto che far deflagrare una nuova guerra.
Nota Bene Questa analisi ha il solo scopo di far conoscere al lettore la strategia (proposta anche sul Wall Street Journal) di salvare il dollaro USA utilizzando le cryptomonete. Dunque nessun invito da parte mia all'investimento nel mercato delle cryptomonete.
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