di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Oggi, a mezzanotte (ora italiana; 18.00 a Washington, 2.00 di notte a Mosca), verrà diffusa l’intervista rilasciata nei giorni scorsi dal presidente russo Vladimir Putin a Tucker Carlson, popolarissimo giornalista licenziato mesi addietro da «Fox News» per via della sua incontrollabilità. La conversazione andrà in onda simultaneamente sul sito di Carlson e su Twitter/X, in seguito alla promessa strappata dal noto conduttore a Elon Musk, proprietario del social network, di non interrompere né censurare in alcun modo la trasmissione.
Che il noto conduttore si trovasse in Russia per questioni di lavoro era evidente, vista l’imponenza della squadra di tecnici e dell’equipaggiamento che aveva portato con sé, ma che si fosse recato a Mosca per intervistare un personaggio del calibro di Putin era tutt’altro che scontato, sia in virtù dell’elevatissima conflittualità internazionale tra Occidente e Russia, sia per le potenziali ripercussioni su Carlson stesso. Il quale è stato puntualmente bollato come “traditore” dall’ex deputato repubblicano Adam Kinzinger, e bersagliato dagli strali più o meno sarcastici di Bill Kristol, redattore della pubblicazione «The Bulwark» secondo cui «avremmo forse bisogno di un blocco totale e completo del rientro di Tucker Carlson negli Stati Uniti finché i dirigenti del nostro Paese non capiranno cosa sta succedendo».
Guy Verhofstadt, già primo ministro belga, ex presidente del Consiglio Europeo e attuale capogruppo dei Liberali al Parlamento Europeo, ha addirittura invocato l’intervento dell’Unione Europea, esortandola a valutare l’imposizione di restrizioni sui viaggi nel “vecchio continente” nei confronti di Carlson, definito come «un portavoce di Donald Trump e di Putin», sulla base della seguente argomentazione: «dal momento che Putin è un criminale di guerra e l’Unione Europea sanziona tutti coloro che lo sostengono in questo sforzo, sembra logico che le autorità competenti esaminino anche il suo caso».
La “caccia alle streghe” scatenata contro Carlson è altamente emblematica dello stato di putrescenza raggiunto dall’Occidente, che per mesi ha steso dinnanzi a Zelens’kyj tappeti rossi, assicurandogli la possibilità di recitare monologhi senza contraddittorio di fronte a Parlamenti e durante eventi sportivi particolarmente seguiti, oltre che riservando al presidente ucraino interviste talmente celebrative da risultare imbarazzanti. Non uno straccio di domanda su come si sia arrivati alla guerra, sulle opposizioni bandite, sulle purghe interne, sulle “killing list” redatte da un organo (Myrotvorets) collegato al Ministero degli Interni di Kiev, sulle enormi ricchezze accumulate da un giorno all’altro da politici e generali ucraini, sulle rappresaglie perpetrate presso le località riconquistate contro i civili tacciati di “collaborazionismo”. Nonché sulla repressione della stampa, rispetto alla quale l’Ucraina ha comunque l’attenuante di non poco rilievo di trovarsi in uno stato di belligeranza, a differenza delle nazioni inquadrate nella Nato.
In Italia, Maurizio Molinari, direttore del quotidiano Repubblica, è stato perfino insignito dal Zelens’kyj in persona dell’Ordine al Merito di III classe per il sostegno all’Ucraina, mentre all’inviata del «Tg1» Stefania Battistini è stato conferito per analoghe motivazioni l’Ordine della Principessa Olga; un’onorificenza concessa anche a Nancy Pelosi.
I meriti, del resto, sono indubbi: qualsiasi notizia proveniente da fonti ucraine è stata sistematicamente trasmessa in quanto reale e verificata anche se vistosamente eccessiva e/o inattendibile, mentre quelle diffuse dai russi sono state immediatamente squalificate e derubricate a “propaganda del Cremlino”. Stesso discorso vale per la censura a cui sono stati sottoposti i canali informativi russi, rivelatrice del timore delle classi dirigenti occidentali che la propria narrazione confezionata ad arte non regga il confronto con quella del nemico. Nella “libera Europa”, si sosteneva, la messa al bando di «Russia Today» e «Sputnik News» si proponeva di “proteggere” l’opinione pubblica, evidentemente considerata un coacervo di bifolchi totalmente privi di discernimento. I quali sono stati indotti a credere che Putin aveva i giorni contati in quanto affetto da una variegatissima gamma di patologie letali, che le sanzioni avrebbero provocato il collasso dell’economia russa nell’arco di poche settimane, che le misure punitive erano talmente efficaci da costringere i russi a combattere con pale e badili per sopperire all’assenza di munizioni, e a smontare elettrodomestici per ricavare chip da installare sui propri missili.
Le restrizioni imposte contro i canali russi sono naturalmente aggirabili per chiunque disponga di un Vpn o un semplice account Telegram, ma non per la stragrande maggioranza della popolazione abituata ad abbeverarsi presso televisione e giornali. Secondo cui i militari russi sono sempre criminali, incapaci, codardi, perpetratori di massacri a danno dei civili e bombardatori di ospedali e scuole al comando di generali guadagnatisi la fama di “macellai” in Siria e intenti a distribuire viagra ai loro sottoposti affinché violentassero il maggior numero di donne ucraine possibile. Le forze armate ucraine, viceversa, sono state dipinte come una congrega di appassionati lettori di Kant capaci di inanellare un successo dietro l’altro, fino all’attuale sconfitta ormai paventata urbi et orbi dagli stessi occidentali. Un cortocircuito logico protrattosi per due anni, in cui la ripetizione ossessiva della litania secondo cui la vittoria definitiva era dietro l’angolo perché «Putin ha già perso la guerra» lascia ora misteriosamente il campo ad esortazioni allarmata alla mobilitazione totale dello schieramento atlantista in quanto «se abbandoniamo l’Ucraina, la Russia attaccherà la Nato».
Allo stesso tempo, si è assistito alla sospensione ad hoc del principio di non discriminazione degli individui in base alla loro etnia, religione e convinzione politica, sia attraverso la messa al bando di atleti e artisti in quanto russi, sia mediante la redazione di liste di proscrizione di presunti “putiniani”.
La versione degli ucraini è stata in altri termini costruita ex novo da specialisti di PsyOps della Nato, recepita acriticamente dai mezzi di informazione di massa e da parte assai ragguardevole del mondo accademico e diffusa in tutto l’Occidente senza fornire alcun elemento in grado di avvalorarla. È stata proposta come l’unica narrazione esistente, perché quella formulata dai russi non è stata confutata da evidenze e controargomentazioni, ma semplicemente “rimossa”.
Tucker Carlson paga proprio questo: l’aver dato voce al leader del Cremlino, come l’aveva data tempo addietro – con grande sdegno dei media “generalisti” – a un altro leader quasi altrettanto discusso come il presidente ungherese Viktor Orban dimostratosi peraltro nel corso dell’intervista molto più lucido, intelligente e colto di larghissima parte dei suoi omologhi europei. Analogamente, c’è da supporre che Putin abbia colto l’opportunità fornitagli da Carlson per presentarsi come il politico freddo e razionale che è sempre stato, e non il folle e sanguinario criminale descritto da gran parte dei media.
La “sortita” di Carlson in terra russa può risultare indubbiamente strumentale a condizionare gli orientamenti dell’opinione pubblica statunitense in vista delle elezioni presidenziali di novembre, ma altrettanto funzionale a porre l’opinione pubblica nelle condizioni di farsi autonomamente una propria idea, consentendole semplicemente di ascoltare un’altra campana. «La maggior parte degli americani – ha dichiarato lo stesso Carlson in un filmato registrato mentre si trovava a Mosca – non ha idea del perché Putin abbia invaso l’Ucraina o quali siano i suoi obiettivi ora. Non avete mai sentito la sua voce. È sbagliato. Gli americani hanno il diritto di sapere tutto il possibile su una guerra in cui sono implicati, e noi abbiamo il diritto di dirglielo». Un diritto, quello di riportare la versione del nemico, che era stato pienamente riconosciuto a Peter Arnett, autore di due interviste esplosive: una a Saddam Hussein nei mesi successivi all’invasione irachena del Kuwait, l’altra a Osama Bin-Laden, dopo che il saudita aveva dichiarato la Jihad contro gli Stati Uniti. Attualmente, la deriva settaria e bigotta è tale per cui, osserva ancora Carlson, «i governi occidentali faranno certamente del loro meglio per censurare questa intervista a Vladimir Putin. Hanno paura delle informazioni che non possono controllare».
La ragione è molto semplice. Una narrazione “diversa” metterebbe in crisi la ricostruzione del conflitto formulata dallo schieramento occidentale sulla base delle note di linguaggio indicate dalla Nato, che definiscono in ogni discorso o documento ufficiale l’aggressione russa all’Ucraina “brutale” e “non provocata”.
Una narrazione imperniata sulla distinzione tra “aggressore” e “aggredito” palesemente strumentale a indurre l’opinione pubblica a discriminare i “buoni” dai “cattivi” e a schierarsi a favore dell’Ucraina, che fissa arbitrariamente l’origine della storia al 24 febbraio 2022. Passando con grande disinvoltura sulle migliaia di morti inflitte dall’esercito ucraino nelle regioni secessioniste del Donbass, sula “destrutturazione” deliberata degli Accordi di Minsk, sul golpe “pilotato” di Jevromajdan del 2014, sulle discriminazioni nei confronti dei russofoni, sulla mortificazione sistematica di qualsiasi iniziativa di Mosca finalizzata all’edificazione di un’architettura politico-militare basata sul principio dell’indivisibilità della sicurezza (in base alla quale un Paese non può costruire la propria sicurezza a scapito di un altro), sulla violazione degli impegni statunitensi circa la non espansione della Nato verso est.
Si tratta, come osservato da Gianandrea Gaiani su «Analisi Difesa» a un anno di distanza dall’invasione russa dell’Ucraina, «di temi complessi che richiedono illustrazioni articolate e quanto meno un po’ di memoria storica: ingredienti odiati da propagandisti e censori sempre a caccia di formule che semplifichino i concetti e additino chiaramente il nemico. Se così non fosse la dilagante propaganda Usa/Nato avrebbe colto tutti i rischi di autogoal insiti nella formula “aggressore e aggredito”. Perché se in Ucraini i cattivi sono i secessionisti del Donbass come facevano quelli del Kosovo (provincia della Serbia agli effetti del diritto internazionale) a esseri buoni? E se la secessione delle province russofono e filo-russe del sud est ucraino è illegale come può essere invece legale che il Kosovo sia divenuto indipendente e si sia candidato a entrare nell’Unione Europea e nella Nato? Se i russi sono gli “aggressori” in Ucraina allora dobbiamo essere pronti ad accettare che dai Balcani all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, gli aggressori eravamo noi». Siamo dunque al «“credere e obbedire” ma non al “combattere”! Quello lo lasciamo fare volentieri agli ucraini con le armi che doniamo loro. Sosteniamo che combattono per noi, per la democrazia e la libertà ma il risultato è “armiamoci e partite!”».
L’intervista di Carlson a Putin rappresenta secondo Mikael Valtersson, ex ufficiale delle forze armate svedesi, una delle quattro “vittorie significative” conseguite dalla Russia in questi giorni, supplementare a quelle di carattere militare e politico costituite dal semi-accerchiamento del caposaldo ucraino di Adveevka, dell’avanzata presso il fiume Zherebets, e dal disegno di legge presentato dai repubblicani al Congresso per spacchettare il piano di sostegno militare predisposto dall’amministrazione Biden, così da accordare supporto soltanto a Israele e non all’Ucraina. La visita di Carlson in Russia, conclude Valtersson, «sarà un enorme successo di pubbliche relazioni per la Russia e assicurerà a Mosca l’opportunità di raggiungere il pubblico occidentale e spiegare la propria posizione in merito ai conflitti internazionali. Nel complesso si è trattato di un ottimo momento per i russi».
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