La pensione diventerà un miraggio per il personale della Pubblica amministrazione?

di Federico Giusti delegato Cub

Nei prossimi anni, ma lo si sa da lustri, molti dipendenti pubblici andranno in pensione avendo raggiunto gli anni contributivi o i requisiti anagrafici per l’uscita dal mondo del lavoro.

Ma le uscite saranno così numerose, a conferma che abbiamo la forza lavoro più vecchia della Ue, da infondere preoccupazione per la tenuta dei servizi pubblici e quindi il Governo sta pensando a soluzioni (inique) per correre ai ripari ossia una sorta di mini riforma della previdenza per il personale della PA.

L’ex ministro Fornero ha recentemente criticato le regole previdenziali che non consentirebbero di trattenere in servizio per altri anni numerosi dipendenti, se si inizia tardi a lavorare la responsabilità è di un sistema che non investe in formazione e prova ne siano i deludenti dati sui nuovi occupati nella fascia che va dai 25 ai 40 anni.

Oggi si accede alla pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contributi (le donne a 41 anni e 10 mesi) con la cosiddetta finestra mobile di tre mesi. Ma cosa è questa finestra mobile? E' il periodo che intercorre tra la maturazione del diritto alla pensione e l'effettiva riscossione dell'assegno pensionistico ossia il momento nel quale il pensionato riscuoterà il primo assegno previdenziale.

Il Governo sta pensando allora di ridurre i costi allungando la finestra a sei o sette mesi e così facendo gli anni di lavoro diventeranno per gli uomini 43 e 4 mesi, un anno in meno invece per le donne lavoratrici

Il Governo si sta muovendo dopo avere preso atto della documentazione Inps relativa ai dati trimestrali delle pensioni ( https://servizi2.inps.it/servizi/osservatoristatistici/66/o/475) che tuttavia presentano situazioni assai diverse tra pubblico e privato.

Nei primi sei mesi del 2024, le pensioni anticipate sono state meno di 100 mila e solo 27.962 riguardano lavoratori e lavoratrici con età di poco inferiore ai 60 anni che in percentuale rappresentano poco più di un quarto del totale dei pensionati.

Stiamo parlando dei lavoratori precoci e crediamo possibile un intervento ristrettivo, anche nell’immediato futuro, per ridurre la platea, e i benefici, degli aventi diritto.

Il lavoratore precoce, in produzione da minorenne, fino ad oggi va in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi con l’attesa dei tre mesi di finestra mobile. Il lavoro usurante riguarda essenzialmente il privato e figure professionali che difficilmente potrebbero restare in produzione senza correre seri rischi per la loro salute e sicurezza.

Nelle settimane scorse scrivevamo che il Governo Meloni non solo aveva disatteso l’impegno assunto con l’elettorato (ossia modificare la Fornero) ma andava rafforzando l’impianto di quella legge che alla opposizione dichiaravano tanto iniqua quanto penalizzante. E allungare la durata delle finestre ci pare un esempio lampante di questa incoerenza.

Un altro provvedimento all’orizzonte riguarda la riduzione del cuneo fiscale estendendolo ai redditi fino a 55 mila euro ossia a quanti non avrebbero in teoria diritto alla riduzione delle tasse che poi si ripercuoterà negativamente sulla tenuta del welfare. Dentro un quadro populista e liberista il motto di ridurre la pressione fiscale si ripercuote negativamente sulle classi meno abbienti per favorire chi in teoria avrebbe potere di acquisto sufficiente per condurre una vita dignitosa. Se si vuole ampliare la platea dei beneficiari della riduzione delle tasse alla fine a pagare sarà il nostro welfare da cui dipende la sopravvivenza dei ceti medio bassi e questa operazione alla fine determinerà il potenziamento di sanità e previdenza integrativa mantenendo per altro i salari al di sotto del potere di acquisto.

La manovra allo studio dei tecnici e del Governo prevede poi ulteriori sgravi fiscali per chi assumerà personale, ci viene il dubbio che l’ultimo dei pensieri sia quello di assicurare contratti stabili, full time e a tempo indeterminato.

Se poi dovesse andare in porto l’idea di abrogare il pensionamento automatico a 65 anni (per chi ha versato 42 anni e 10 mesi di contributi) o 67 anni, l’uscita dal mondo del lavoro potrebbe avvenire anche oltre i 70 anni facendo leva sulla miseria dell’assegno previdenziale.

Questa è l’ipotesi al vaglio del Governo per i dipendenti della PA prevedendo da subito la fine di quel requisito che prevede la pensione al momento di raggiungere i requisiti pensionistici previsti dalle norme attualmente vigenti che impongono ai pubblici l’uscita obbligatoria dal lavoro al raggiungimento di 67 anni, tra poco 68, di età.

L’idea è quella di lasciare libertà di scelta al personale della PA sapendo che l’attuazione del sistema di calcolo della pensione con il sistema contributivo determina oggi la perdita di oltre il 30 per cento rispetto all’ultimo stipendio e in prospettiva la rimessa economica dovrebbe superare il 40 per cento.

Questo stratagemma sarà utile a ridurre sensibilmente le uscite dalla Pubblica Amministrazione senza per altro investire nella formazione di nuovo personale. Un provvedimento all’orizzonte che si coniuga con quella idea che nel settore pubblico poi si lavori poco e male ovviamente vendendo il tutto come necessità per erogare i servizi alla cittadinanza

Il nostro Paese per decenni non ha investito nella PA al contrario di altri paesi Ue, si sono depotenziati i servizi, manca il personale (soprattutto in ambito sanitario), si sono esternalizzati servizi a costi decisamente elevati e non convenienti (anche se il personale in appalto continua a percepire salari da fame)

E’ risaputo da tempo che entro il 2039 mancherà circa un milione di dipendenti proprio per a causa dei pensionamenti, allora invece di porre fine ai tetti di spesa in materia di personale (e in quel caso sarebbero dolori con la Comunità europea) si sceglie di prolungare il lavoro per chi è già in servizio sapendo che con le attuali regole sarà impossibile assumere quasi 850 mila dipendenti nei quattro comparti della PA da qui ai prossimi 5 anni.

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