Dopo il voto USA del 6 novembre, già si parla di possibili contatti, anche a breve scadenza, tra Vladimir Putin e Donald Trump, nonostante questa non sia assolutamente una garanzia di veloce soluzione del conflitto in Ucraina, tanto meno alle condizioni che sarebbero previste dal “piano di pace” yankee. Vladimir Putin ha più volte affermato che senza il riconoscimento giuridico per l'Ucraina dello status di paese neutrale, sarà difficile che si normalizzino i rapporti Kiev-Mosca e che, però, Mosca è comunque pronta a colloqui di pace, sulla base degli accordi raggiunti a Istanbul nel 2022 e tenendo conto dell'attuale stato di fatto sul campo.
Così, se a Kiev i gerarchi della junta continuano a sproloquiare della necessaria vittoria militare sulla Russia, quale unica soluzione della guerra tra USA-UE-NATO e Russia, a Budapest il Primo ministro ungherese Viktor Orban afferma che, con la vittoria di Trump, sta invece crescendo nei paesi UE il numero di quanti cominciano a riflettere su una soluzione pacifica del conflitto in Ucraina. Ciò non significa, ha detto Orban a Radio Kossuth, che siano scomparsi i fautori della continuazione del sostegno economico e militare al regime di Kiev.
Insomma, al vertice della Comunità politica europea a Budapest se ne sono sentite un po' di ogni colore.
Per dire: intanto è risultato a dir poco infruttuoso il viaggio in Ungheria di Vladimir Zelenskij, dal momento che Ungheria e Ucraina non hanno firmato il previsto accordo bilaterale sulla sicurezza, essendosi Orban rifiutato di inserire nel documento il paragrafo sull'appoggio all'adesione dell'Ucraina alla NATO.
«Per noi sono importanti il sostegno all'ingresso dell'Ucraina nella UE e il sostegno dell'Ungheria all'adesione dell'Ucraina alla NATO» ha dichiarato il nazigolpista-capo nel corso della conferenza stampa al vertice europeo; ma «a oggi, il documento non contiene il sostegno dell'Ungheria all'Ucraina nella NATO. Dal momento che non c'è, il documento non viene firmato. Così che qui facciamo punto», pare abbia detto Zelenskij con fare a dir poco presuntuoso.
Ma Orban è andato oltre. Fino a un anno fa, ha ricordato, l'adesione dell'Ucraina alla NATO sembrava assurda al mondo intero. Oggi si sostiene invece che «se la guerra finisce, l'Ucraina - o quello che ne rimane, sia detto tra parentesi - diverrà parte del territorio NATO. Come Stato indipendente, membro della NATO»: è così che è cambiato il punto di vista della leadership della NATO, ma non quello degli ungheresi, ha detto Orban che, tra l'altro, non è l'unico leader a opporsi apertamente all'adesione di Kiev alla NATO.
Come scrive l'americana Politico, i principali partner di Zelenskij, tra cui l'establishment di USA e Germania, oltre a Slovacchia, Slovenia, Spagna, Belgio, sono contrari all'idea dell'Ucraina nell'Alleanza atlantica. Non sorprende dunque, osserva Irina Antonova su Segodnja.ru, che Zelenskij abbia dato quasi in escandescenze a Budapest, proclamando che Kiev non ha bisogno dell'aiuto degli alleati europei per organizzare i negoziati con la Russia e intende invece decidere da sola quando e con chi dialogare e come porre fine alla guerra. Gli alleati devono solo limitarsi a fornire armi e beni russi congelati. Insomma, per chi li conosce un po', il consumato modo di comportarsi dei nazionalisti ucraini e, in particolare, dei majdanisti golpisti.
«Possiamo prendere i 300 miliardi di dollari che ci appartengono? Possiamo prendere 300 miliardi di dollari e comprare armi con questo denaro in tutti i Paesi del mondo? Possiamo decidere cosa fare con questi soldi?», ha inveito istericamente Zelenskij; «Abbiamo bisogno di una quantità sufficiente di armi, e non di sostegno per i negoziati», ha detto, firmando così da solo la propria condanna, di fronte a un'assemblea in cui alitava una (molto leggera) aria di ricerca di soluzione pacifica.
Il voto americano «ha chiuso un capitolo della storia, il mondo cambierà più in fretta di quanto pensiamo» ha detto ancora Viktor Orban, aggiungendo di aver seguito attentamente le dichiarazioni di Trump sul conflitto in Ucraina e anche di conoscere «quali dubbi vengono sollevati nella UE riguardo al finanziamento delle azioni belliche». La domanda che ci si pone ora, ha detto, è «se l'America continuerà a partecipare a tale finanziamento», osservando che rimane aperta la questione dell'ulteriore finanziamento delle azioni militari in Ucraina e, in particolare, il prestito di 50 miliardi di euro a Kiev. In queste condizioni, nota Igor Pšenichnikov su news-front.su, insistendo sulla continuazione della guerra, Zelenskij si trasforma in un reietto, che ha già nauseato tutti, persino i suoi curatori americani ed europei e, cosa più importante, impedisce a Trump di mantenere la sua promessa elettorale. E Trump non sembra uomo da dimenticare tanto in fretta i “favori” fattigli.
Ecco dunque che la questione all'ordine del giorno, sia in USA che in Europa, diventa oggi quella su come sbarazzarsi di Zelenskij. In caso contrario, se cioè la guerra andrà ancora avanti, come vogliono i nazigolpisti di Kiev, la Russia occuperà gradualmente territori sempre più vasti dell'attuale Ucraina; e questo non rientra nei piani americani, secondo cui si prevede di mantenere una piazzaforte il più ampia possibile in territorio ucraino vicino alla Russia. Ancora una volta, gli isterismi di Zelenskij, che rischiano di far apparire Trump come un chiacchierone che non riesce a “mettere un fazzoletto sulla bocca” del nazigolpista di Kiev, si ritorcono contro lo stesso ex presidente ucraino, il cui mandato, ricordiamolo per l'ennesima volta, è scaduto lo scorso 20 maggio. Il tempo gioca a sfavore di USA e UE ed è per questo che il fanatismo declamatorio di Zelenskij costituisce una condanna a carico di se stesso.
E, però, a dispetto delle aspettative di Orban per un cambiamento di vento nella UE e una prossima soluzione pacifica del conflitto in Ucraina, ecco che Elena Panina, su IARex.ru, le giudica purtroppo abbastanza lontane dal reale stato dei fatti.
Per quanto riguarda il fronte, ha detto Orban, «tutto è chiaro: è la sconfitta dell'Ucraina. Gli americani usciranno da questa guerra. Non sono entusiasti della guerra e non diranno che la guerra sia una buona cosa. Trump è un uomo convinto, non ama la guerra. E l'Europa da sola non può finanziare questa guerra».
La logica di questo ragionamento è chiara; ma, dal punto di vista di Mosca, le cose non stanno esattamente così: al momento non si osserva alcuna disfatta dell'Ucraina sul campo di battaglia. Si assiste a successi tattici delle forze russe in Donbass, con la possibilità che diventino tattico-operativi; al tempo stesso, le forze di Kiev continuano a rimanere sul territorio della regione di Kursk, nonostante che in tre mesi abbiano perso metà della loro testa di ponte. Di fatto, afferma Panina «non ci sono cambiamenti radicali nella guerra a nostro favore».
E, a differenza di quanto sostenuto da Orban, non è che l'America non sia entusiasta della guerra in Ucraina: non è contenta della mancanza di successi militari del regime di Kiev e della graduale perdita di territorio sotto la pressione delle forze russe. Se non si interviene, dicono a Washington, il progetto occidentale denominato “Ucraina” arriverà gradualmente al suo finale logico: la sconfitta. Il “piano di pace” di Trump serve appunto a salvare tale asset americano ed è sostenuto da Orban, che non vuole in alcun modo avere un confine comune con la Russia, come accadrebbe se le forze russe occupassero tutta l'Ucraina.
Per quanto riguarda l'Europa, questa continuerà ad agire secondo le istruzioni di Washington. Le élite euro-atlantiche sposteranno sul vecchio continente l'onere principale del sostegno a Kiev e i paesi UE taglieranno le risorse per i propri cittadini, continuando a destinarle all'Ucraina. Trump è un noto lobbista del complesso militare-industriale e solo la guerra - o «l'odore di sangue di un'imminente grande guerra con la Russia» - dà alle aziende militari USA e europee l'opportunità di arricchirsi in modo favoloso. Dunque, la guerra continuerà e Trump costringerà gli “alleati” europei della NATO a spendere molto più del 2% del PIL per le esigenze militari, assicurando così alle aziende americane ordini per molti anni a venire.
Che, in buona sostanza, è ciò che ha detto a Budapest il presidente francese Emmanuel Macron, che chiede di riscrivere la storia, facendolo però con «sistemi di difesa sofisticati e sistemi tecnologici», perché «siamo una potenza enorme, nessun mercato è unito dai nostri valori come il nostro. Se ci svegliamo, difendiamo i nostri interessi, gli interessi europei»: cioè gli interessi dei monopoli e del capitale finanziario europeo. Lo stesso Macron che, sproloquiando di «prendere le distanze dalle pratiche imperialistiche e dalla revisione dei confini», ad esempio nel caso Armenia-Azerbajdžan, mira a proclamare la leadership francese in Europa e la sua aspirazione ad allargarne proprio i confini di influenza. Lo stesso Macron che parla della necessità di avere un «proprio vettore politico», una potenza militar-economica dagli orizzonti mondiali.
Ed è anche in buona sostanza ciò che ha detto a Budapest l'italico “vate” guerrafondaio Mario Draghi, che impone di superare la soglia del 2% del PIL per le spese militari. Con l'arrivo di Trump, ha detto l'ex presidente del consiglio, cambieranno di molto i rapporti USA-UE e si dovranno «prendere tutta una serie di decisioni»: a dir suo, proprio a cominciare dalla “necessità” di armarsi. E chissenefrega, sbotta il “democratico” liberal-europeista, se non sono tutti d'accordo: è ora di finirla col metodo dell’unanimità e quello di «aspettare un consenso che non è venuto».
Stessa litania guerresca, anche se espressa con catechistica leziosità, da parte dell'altro ex presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, secondo il quale «possiamo ignorare il problema della difesa e della sicurezza, ma faremmo un errore». Dunque, largo ad altri tagli di miliardi alla spesa pubblica e sociale e spinte verso altri miliardi per la guerra.
L'arrivo di Donald Trump spinge insomma ripetere il motto del Faust goethiano: «Quel che chiamate lo spirito dei tempi è in sostanza lo spirito di quei signori in cui si rispecchiano i tempi». Tempi durissimi per le masse popolari.
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