di Michele Blanco
A destare enorme preoccupazione nel mondo contemporaneo sono i dati che dimostrano il costante acuirsi dei conflitti. Il Conflict Index, stilato ogni anno dal Armed Conflict Location & Events Data (ACLED) sotto la direzione dell’Università di Sussex nel Regno Unito, ha rilevato un aumento del 12% degli scontri armati nel 2023 rispetto al 2022 e di oltre il 40% negli ultimi quattro anni.
L’analisi dei dati si basa su quattro indicatori chiave: la letalità, che quantifica il numero di decessi in relazione al conflitto; il pericolo per i civili, che misura la violenza di istituzioni e gruppi armati nei confronti della popolazione; la diffusione geografica del conflitto; la frammentazione, che quantifica gli schieramenti che si combattono sul campo. In base all’intensità di questi fattori viene stilata una classifica nella quale i Paesi vengono divisi su tre gradi di gravità del conflitto: estremo, alto e turbolento.
Un dato estremamente interessante deriva dal confronto del Conflict Index con le classifiche stilate dalle Nazioni Unite, come l’Indice dello sviluppo umano, che misura la crescita dei vari Paesi calcolata tenendo conto dei diversi tassi di aspettativa di vita, istruzione diffusa e del reddito nazionale lordo pro capite. Sovrapponendo i due indici, vediamo che alcuni Paesi riconosciuti come avanzati dall’ONU (Messico, Brasile, Ucraina, Colombia e Israele) risultino presenti nelle fasce “alto” o “estremo” dell’indice sui conflitti globali. La violenza non cala, come molti vorrebbero credere, quindi in relazione alla crescita economica. Il che dimostra che la povertà non è un precursore del conflitto, come la ricchezza non è una garanzia di pace. Anzi, le situazioni di conflitto aumentano più rapidamente nei contesti a medio reddito e in via di democratizzazione, come si evince da un altro confronto: quello tra il Conflict Index e la classifica stilata da Freedom House, che ordina i Paesi per il loro livello di libertà politica (votazioni, cambio di potere a seguito di elezioni e rappresentanze inclusive).
Freedom House non è certo un’organizzazione scevra da interessi, visto che è direttamente finanziata dal governo americano, ma in questo caso il dato, seppur da tenere a mente, possibilmente rafforza in confronto, visto che mostra come la violenza sia assolutamente pervasiva anche in molti Paesi che secondo i parametri statunitensi rappresentano fari del cosiddetto “mondo libero”
Un indicatore fondamentale riguarda la libertà e il funzionamento della stampa. Se guardiamo il lavoro dei principali media, è evidente che molti dei conflitti nelle prime 15 posizioni del Conflict Index siano poco raccontati o addirittura dimenticati. Gli stessi ricercatori dell’Armed Conflict Location & Events Data provano a dare delle spiegazioni alle mancanze della stampa occidentale nella copertura delle innumerevoli guerre in atto nel mondo.
In primo luogo l’attenzione dei media è più frequentemente concentrata su conflitti che hanno rilevanza internazionale, o che più semplicemente sono rilevanti per il pubblico di riferimento. È quindi sconcertante ma vero risulta scontato vedere il conflitto ucraino sulle prime pagine dei giornali piuttosto che i massacri che avvengono in Siria o Yemen, questo perché tocca interessi e risorse a noi più vicine, vedi il commercio di gas russo e tutto quello che ne è derivato nel dibattito pubblico. Anche ciò che sta succedendo in Palestina ha una risonanza mediatica enorme, anche se ingiustamente l’interesse comune non è così evidente come per l’Ucraina.
Questo perché Israele rappresenta un “alleato” granitico del mondo occidentale ed è anche “la testa di ponte” in Medio Oriente per gli interessi statunitensi ai quali siamo ancora legati politicamente e soprattutto economicamente. In più, la questione palestinese ha accompagnato il mondo dal secondo dopo guerra a oggi, polarizzando le opinioni tra chi è a favore di Israele e chi della liberazione della Palestina. In secondo luogo, l’indice mette l’accento sulla difficoltà nel riferire di certi contesti di conflitto sempre più complessi e con un numero sempre maggiore di attori armati. Molti dei Paesi che vediamo nelle categorie più estreme dell’indice violano la nostra tipica concezione di conflitto, come guerre civili, insurrezioni o eventi terroristici. Mentre i media spesso si aspettano rivoluzioni e repressioni di massa dai conflitti interni, la maggior parte della violenza politica appare molto diversa.
L’ACLED (è un'organizzazione non governativa non a scopo di lucro statunitense specializzata nella collezione di dati, analisi e mappature dei conflitti nel mondo. Essa raccoglie le date, gli attori, la località, il numero di vittime e il tipo di ogni violenza riportata mediaticamente contro i diritti umani in tempo reale), inoltre, sottolinea il grave problema di sicurezza dei giornalisti. Le minacce alla stampa internazionale da parte di governi e fazioni rendono impossibile, in molti contesti, coprire alcuni conflitti senza mettere in serio pericolo la propria vita.
Per capire come lo stato di guerra sia una realtà con la quale, in modo più o meno diretto, convivono gran parte delle popolazioni del mondo, c’è un ultimo rapporto da prendere in mano. È il Global Peace Index, che ogni anno, sotto la direzione dell’Istituto per l’economia e la pace (IEP – una organizzazione non governativa fondata tra gli altri dal Dalai Lama e dall’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan), con un lavoro contrario quanto complementare al Conflict Index, monitora la “pacificità” del mondo. Secondo il rapporto dello IEP, nel 2023 sono stati 91 i Paesi coinvolti in qualche forma di conflitto, rispetto ai 58 del 2008. E anche se ci sono delle note positive, come il fatto che 126 Paesi hanno migliorato il proprio «indice di pace» negli ultimi 15 anni e che il terrorismo è al punto più basso dal 2008, con 70 Paesi che non hanno subito attacchi nell’ultimo anno, dal punto di vista generale il livello di pace globale si è deteriorato, infatti il 2022 è stato l’anno più letale da quando l’indice viene pubblicato, con 228.000 morti.
I dati sulla letalità del 2023 e del 2024 non sono stati ancora diffusi, ma difficilmente, con la carneficina in atto a Gaza, potranno essere migliori. Le spese militari e per la Difesa sono aumentate enormemente in 113 Paesi su 163, un dato assolutamente preoccupante che ovviamente non annuncia miglioramenti nel prossimo futuro. Nel Global Peace Index a colpire forse più di tutti gli altri è un dato: solo cinque Stati al mondo non sono coinvolti in nessun conflitto armato. Si tratta di Islanda, Nuova Zelanda, Danimarca, Portogallo e Slovenia. Tutti gli altri sono coinvolti in almeno una guerra tramite partecipazione diretta o indiretta (includendo anche l’invio di armi a Paesi in guerra, fattore che estromette l’Italia dall’elenco dei Paesi realmente pacifici).
Il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), un’organizzazione indipendente no profit che dal 1966 monitora il commercio di armamenti e misura la capacità dell’industria bellica di quasi tutti i Paesi, ha rilevato un aumento della spesa militare a livello globale del 6,8 per cento nel 2023. Il numero, crescendo per il nono anno consecutivo, fino a contare un totale di 2443 miliardi di dollari, ha raggiunto il livello più alto mai registrato dall’istituto di ricerca.L’aumento senza precedenti della spesa militare è una risposta diretta al deterioramento globale della pace e della sicurezza.
Gli Stati stanno dando priorità alla forza militare, ma rischiano una spirale di azione-reazione nel panorama geopolitico sempre più instabile. Secondo l’ultimo report, aggiornato al marzo 2024, tra i 10 Paesi con la spesa militare più alta, che rappresentano i tre quarti del totale mondiale, solo due, Russia e Ucraina, sono ufficialmente in guerra, gli altri come Stati Uniti, Cina, India e Arabia Saudita alimentano il commercio di armi.
Il continente africano, pur avendo ben 9 Paesi nella lista dei più pericolosi per l’ACLED il Conflict Index, rappresenta solo il 2,1% della spesa militare globale del 2023. Ai primi 10 posti della classifica del SIPRI relativa all’export, le uniche nazioni considerabili non occidentali sono Cina, Russia e Corea del Sud. Le altre: USA, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna, sono tra le prime per quantità di armi vendute. Prodotte nei Paesi ad alto reddito, le tecnologie a uso bellico vengono quindi esportate verso zone a rischio, sfruttando i conflitti lontani solo per interesse economico. Una pace apparente, quindi, quella professata dai Paesi occidentali, che alimenta e concorre a una guerra senza fine, possibilmente lontana dai propri confini.
Con il rapido incremento dell’intelligenza artificiale e dei sistemi dual-use, vengono utilizzate tecnologie belliche sempre più ingegnerizzate. L’esercito israeliano starebbe utilizzando un sistema legato all’IA per designare gli obiettivi palestinesi da colpire. Un altro esempio è l’uso dei droni militari in Ucraina, Etiopia e Birmania, rilevato dal Global Peace Index, che ha misurato un aumento del 40,8% rispetto al 2022. Se fino a qualche anno fa solo alcune forze politiche egemoni potevano permettersi l’utilizzo di queste tecnologie, ora, con l’abbattimento dei costi di produzione, più gruppi armati indipendenti e milizie utilizzano i droni (+24%).
Quello che emerge è quindi un quadro di instabilità in deterioramento, con sempre più Paesi che si percepiscono insicuri e si ritengono quindi “costretti” a investire in nuove armi per difendere il proprio territorio. Una prospettiva che, se non verrà invertita, comporterà anche necessariamente un deterioramento economico globale: secondo il Global Peace Index, nell’ultimo anno l’impatto economico globale dei conflitti è stato di 16,5 mila miliardi di dollari, pari al 10,9% del PIL globale. Si tratta di un costo pari a 2117 dollari per ogni abitante della Terra. Soldi che sarebbero stati ampiamente sufficienti a debellare la fame nel mondo, a garantire una sanità pubblica e universale a livello globale o a raggiungere gli obiettivi di protezione ambientale del Pianeta.
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