di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico
Non si può non notare l'attivismo di Mario Draghi di quest'ultimo periodo. Il dinamismo del Grand Commis romano per la verità non sembra dettato dall'ambizione che lo spinge a ricercare altre super poltrone di grande potere ma piuttosto dalla volontà di salvare la creatura di cui è stato certamente uno dei massimi architetti. Ormai che l'Europa rischi di non sopravvivere non è più argomento per complottisti, ma un dato di fatto di cui si prende atto ai massimi livelli e infatti Draghi ne ha parlato apertamente il 24 Febbraio durante l'ultimo Ecofin tenutosi a Gend in Belgio, al quale è stato invitato nonostante non ricopra la carica di Ministro delle Finanze in nessun paese dell'Unione.
Certamente, il “saggio” Draghi non ha deluso le attese parlando in maniera schietta dei mali dell'Unione Europea. Innanzitutto colpisce che Draghi delinei una disamina che appunto fino a qualche tempo fa pochissimi avevano il coraggio di fare. L'Europa non può più contare: «sull'energia russa, sulle esportazioni cinesi e sulla difesa degli Stati Uniti. Questi tre pilastri sono meno solidi di prima» ha dichiarato l'ex banchiere centrale toccando il punto fondamentale: la prosperità europea di questi anni si è fondata sull'energia e le materie prime a basso costo ottenute dai russi (probabilmente a fronte di promesse per una impossibile futura entrata di Mosca nel salotto buono europeo), sulle importazioni di semilavorati a basso costo per le global chain value europee (soprattutto tedesche) che hanno garantito per anni prezzi imbattibili per tutti i concorrenti e inoltre abbiamo gli USA doppiamente defraudati, perché - per gli obblighi derivanti dalla Nato - pagavano la difesa agli europei che contestualmente dirottavano le risorse risparmiate per migliorare la competitività del proprio sistema produttivo. Infine il sottinteso di quanto affermato da Draghi; l'Europa che grazie alla sua strategia “opportunistica” aveva guadagnato una competitività insuperabile, poteva inondare i mercati mondiali (in particolare quello americano) senza essere contrastata da dazi e barriere doganali di sorta grazie alle regole del World Trade Organization che impediscono queste pratiche difensive.
Altrettanto interessante è stata la parte propositiva del discorso di Draghi secondo il quale l'Europa può ritrovare nuovo slancio solo grazie ad investimenti colossali quantificabili in 500 miliardi di euro all'anno solo per quanto riguarda la transizione verde, ai quali vanno aggiunti gli investimenti relativi alla difesa comune europea e quelli legati all'Intelligenza Artificiale nel quale l'Europa è in forte ritardo rispetto agli USA (ma anche alla Cina). Nelle sue argomentazioni Draghi non fa mancare un dato tecnico molto interessante: non bastano gli investimenti pubblici per ottenere questi obbiettivi, ma «mobilitare il risparmio privato», convogliandolo verso «investimenti produttivi». E inoltre aggiunge, che si rende necessario un «fondo dedicato» per questi obbiettivi.
Non male per un economista che non mai ha nascosto la sua assenza di fiducia verso l'allocazione centralizzata, programmata e pianificata dei risparmi e che da banchiere centrale è sempre stato uno dei portabandiera della libera allocazione delle risorse decisa dal mercato. Certo Draghi va capito; risposte straordinarie per tempi straordinari.
Va però aggiunto un passaggio a mio avviso di straordinaria importanza se riletto alla luce di quanto proposto da Draghi. Mi riferisco al fatto che si tende a parlare di Europa in generale, o meglio, “in aggregato” come direbbero gli economisti. Il problema è che i paesi soci dell'Europa non sono tutti uguali. Alcuni sono ricchissimi e in grado di mobilitare tutte le risorse (sia pubbliche che private) necessarie agli investimenti. Altri invece sono paesi poveri, o come si dice, “debitori netti verso il resto del mondo” e dunque in nessun modo in grado di mobilitare risorse proprie (dove per proprie si intende appartenenti a residenti) ma obbligati se vogliono investire ad attrarre capitali dai cosiddetti investitori esteri. Sicuramente tra i paesi ricchi abbiamo la Germania, l'Austria, la Svezia, l'Olanda, il Belgio, la Danimarca e in misura minore l'Italia. Tutti paesi creditori netti verso il resto del mondo. Tra i paesi poveri, abbiamo certamente i paesi dell'Est europeo a partire dalla Polonia, così come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e soprattutto la Francia. Parigi in particolare ha una posizione finanziaria netta negativa per circa 750 miliardi di euro. Una cifra astronomica che espone il paese transalpino ai capricci dei mercati e degli investitori internazionali che generalmente pretendono tagli sociali devastanti per continuare a dare fiducia al paese debitore. Senza contare poi che viviamo una fase storica assolutamente straordinaria dove le vecchie gerarchie sono in discussione.
Non è un caso infatti che proprio a Gend, Bruno Le Maire, Ministro delle Finanze francese sia stato tra i più accesi sostenitori delle tesi di Draghi e dunque della necessità di creare un sistema in grado di mobilitare risorse pubbliche europee siano esse pubbliche o private. Apparentemente strano per il rappresentante di un paese che certamente non ha risorse finanziarie proprie (dove per proprie si intendono risorse appartenenti a residenti) da mettere a disposizione. Molto meno strano nel caso in cui questo paese sia uno dei percettori di queste risorse. Inutile sottolineare che tali risorse europee mobilitate e/o mobilitabili rappresenterebbero una rete di salvataggio fondamentale per quei paesi (come la Francia) sotto schiaffo da parte dei mercati finanziari e dei cosiddetti investitori internazionali. In questo senso, l'attivismo francese ben si spiega.
Ma i paesi europei ricchi, in cambio di che cosa darebbero un simile salvagente a Parigi? Non paia una domanda oziosa, solo gli ingenui e provinciali politici italiani hanno potuto credere a artifici retorici come la “casa comune europea”, l'unica regola che è sempre valsa in Europa è stata il do ut des, la legge del tornaconto.
Non mi stupirei se dietro le astruse discussioni sulla difesa comune europea si nasconda questo scambio: risorse finanziarie in cambio di protezione nucleare. In altri termini, Berlino sarebbe ben contento di condividere il proprio enorme tesoro con Parigi in cambio di un allargamento dell'ombrello nucleare francese a difesa di Berlino stessa e magari anche della condivisione del seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (cosa questa già prevista dal Trattato di Aquisgrana del 2019).
In tempo di guerra è possibile anche l'impensabile.
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