di Alessandra Ciattini* - Futurasocietà

Secondo quando viene riportato da Al Jazeera, nel settembre 2003 l’ex comandante delle forze Nato in Europa, Wesley Clark, dichiarò che un suo collega gli aveva comunicato nel novembre 2001 a Washington, dopo il controverso attentato alle Torri gemelle, che l’amministrazione Bush aveva intenzione di attaccare e distruggere sette Paesi musulmani: Iraq, Siria, Libano, Libia, Iran, Somalia e Sudan. Ricordo che, con la scusa priva di fondamento di catturare i responsabili del tragico evento, nell’ottobre del 2001 gli Usa avevano invaso l’Afghanistan, coinvolgendolo in una guerra disastrosa che sarebbe durata fino al 2021 e terminata con l’ignominiosa fuga dell’esercito americano. Allo stesso tempo, sottolineò che i principali alleati degli Usa in quella regione strategica sono ed erano Egitto, Pakistan e Arabia Saudita, i quali sarebbero stati anche i principali finanziatori dei gruppi terroristici di matrice islamistica. Tenendo presente quanto aveva affermato, a suo tempo, la spietata Hillary Clinton, che probabilmente ancora si rode il fegato per non essere diventata presidente degli Usa, in realtà il finanziamento a questi gruppi, oggi presentati semplicemente come ribelli, proveniva anche direttamente da questi ultimi, che colsero al balzo l’attentato (o lo organizzarono) per portare avanti la politica del cosiddetto caos creativo in quella regione strategica.

Si tratta di una strategia politica che, come scrisse il longevo ma ormai scomparso Z. Brzezinski, si fonda sulla distruzione degli Stati, per succhiarne le risorse, per impedire che si costituisca un significativo fronte antimperialista e per favorire il dominio incontrastato di Israele nell’Asia occidentale, il cui esercito, dopo il crollo della Siria, ha già bombardato più di 480 volte questo Paese e ha occupato la zona demilitarizzata tra quest’ultimo e il Paese arabo per impadronirsi di tutto il Golan (ha occupato il lato siriano del Monte Hermon). In queste ultime ore ha proceduto a distruggere l’aviazione, la flotta, le telecomunicazioni, le strade della Siria molto probabilmente facendo molte vittime civili e militari, con la prospettiva di avanzare nella costruzione del Grande Israele. Secondo una stima approssimativa avrebbe distrutto l’80% delle infrastrutture siriane, mentre migliaia di soldati sono fuggiti verso l’Iraq dove sono stati ben accolti. Video mostrano il saccheggio del palazzo presidenziale, cui partecipano anche donne e bambini e al Mayadeen informa che i soldati del nuovo regime hanno compiuto esecuzioni sommarie di ufficiali dell’esercito ormai dissolto nei pressi di Latakia.

Se il progetto Usa di distruzione degli Stati islamici segue una logica sia pure folle, non resta che chiederci se la prossima vittima non sarà l’Iran il quale, consapevole di questa più che realistica ipotesi, non potrà per difendersi che dotarsi delle armi atomiche, che – come si è visto – hanno garantito la sovranità di Stati indipendenti e irriducibili come la Repubblica popolare di Corea. E questo obiettivo sarà, probabilmente, raggiungibile solo con l’appoggio della Russia.

Se quanto affermato ha un suo fondamento, non si può fare a meno di domandarci: perché l’Iran non ha difeso la Siria, essendo a conoscenza che difendendola avrebbe protetto anche se stesso? Molti analisti pongono la stessa domanda sulla Russia, che aveva garantito ad al-Assad una protezione a oltranza, ma qui non tratteremo questa complessa questione che ha molte sfaccettature.

L’analista internazionale, Iñaki Gil de San Vicente, ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Hispan TV, (canale televisivo iraniano), che l’invasione della Siria non è frutto della casualità, ma il prodotto di un piano che gli imperialisti avevano da tempo elaborato nel caso in cui fossero stati sconfitti su altri fronti (v. Ucraina). Questi ha anche confermato quanto si diceva prima, e ossia che la distruzione è coerente con il progetto del Grande Israele e con quello di cancellare dalla mappa gli altri Paesi dell’Asia occidentale.

Da parte sua, invece, Il prof. Mohammad Marandi, irano-statunitense, dell’Università di Teheran, intervistato da Danny Haiphong, ha recentemente affermato che i dirigenti iraniani avrebbero detto a Bashar al-Assad che sarebbero intervenuti a favore della Siria, ma non lo avrebbero fatto perché questi non li avrebbe autorizzati. Secondo RT, che riporta un articolo del «Washington Post», Teheran avrebbe comunicato ad al-Assad che avrebbero aiutato il Paese amico solo in maniera limitata; contemporaneamente, i dirigenti iraniani avrebbero accusato l’ormai ex presidente siriano di non essere preparato all’attacco dei terroristi e che non potevano fare di più per il pericolo di scatenare l’ira israeliana. Certo è difficile giudicare, ma sulla base di quello che sappiamo non sembra una ragione sufficiente, se si ricordano poi tutte le minacce che sono state lanciate contro Netanyahu e il suo governo da Teheran nei mesi passati a causa del genocidio in corso a Gaza e della politica bellicistica israeliana.

Un altro esperto, Adrián Zelaya, dell’Ekai Center (Spagna), sostiene che i russi e gli iraniani, informati di quello che stava per succedere, avrebbero chiesto al presidente siriano di attivarsi, affermando che avrebbero potuto sostenere solo un intervento dell’esercito del Paese arabo e non sostituirsi a esso per scagionare l’invasione realizzata in circa 11 travolgenti giorni. D’altra parte, al-Assad, che ora si è rifugiato a Mosca con la sua famiglia, non avrebbe nemmeno affrontato la difficile situazione del suo esercito sfinito dagli anni di guerra e probabilmente diretto da generali che si sarebbero fatti corrompere.

Secondo varie fonti, critiche verso il governo dell’Iran, la settimana passata un aereo iraniano era diretto verso la Siria ed è stato costretto a battere in ritirata a causa degli attacchi aerei israeliani. Invece di prestare aiuto alla Siria, il governo avrebbe ordinato alla Guardia rivoluzionaria islamica e alle sue milizie di mantenersi al margine dei combattimenti e avrebbe negoziato anche con i “ribelli” un’evacuazione sicura del suo personale presente nel Paese arabo.

Sintetizzando brevemente gli ultimi avvenimenti, ricordiamo che più di due settimane fa i gruppi, che finora abbiamo definito jihadisti legati ad al-Qaida, diretti da un gruppo ribattezzatosi Hay’at Tahrir al-Sham, hanno lanciato un’offensiva dalla provincia di Idlib, rendendo più violenta la guerra civile in Siria, di fatto internazionale, di quanto era avvenuto nel 2019. La mattina dell’8 dicembre Damasco è stata conquistata, al-Assad deposto, e sono stati liberati i prigionieri del carcere di Saydnaya, molti dei quali terroristi catturati.

Interessanti sono poi le dichiarazioni riportate da vari media del ministro degli Affari esteri dell’Iran, Abbas Araghchi, secondo il quale l’esercito siriano è stato oggetto di una guerra psicologica che lo ha demotivato e demoralizzato. Ha affermato anche che le forze di sicurezza iraniane erano perfettamente consapevoli dei movimenti dei gruppi armati presenti nella regione di Idlib e ne avrebbero informato il governo e l’esercito siriano, confessando di essere rimasto sorpreso dall’incapacità di quest’ultimo e dalla rapidità in cui si sono svolti gli eventi che hanno gettato la Siria nell’anarchia.

Sempre secondo Araghchi, in quelle circostanze, il generale di brigata in pensione Alí Lariyaní, ex capo del Consiglio supremo della Sicurezza nazionale dell’Iran, si è incontrato con al-Assad, che si è mostrato sorpreso e preoccupato per l’atteggiamento passivo del suo esercito. A suo parere, ciò dimostrerebbe che l’ormai ex presidente siriano era del tutto all’oscuro di quanto stava accadendo tra le sue forze armate.

Nello stesso tempo, Araghchi ha illustrato la posizione di Teheran sulla crisi siriana, affermando che il suo governo ha sempre appoggiato la possibilità di un dialogo tra il governo del Paese arabo e l’opposizione, perché, a suo dire, quest’ultima sarebbe composta di gruppi di orientamento diverso i quali, dunque, non sarebbero tutti dei terroristi. Affermazione problematica e che richiede approfondimenti. Su questa linea si muove anche la Federazione russa, tanto che il sabato passato, quando i tre ministri degli esteri del gruppo di Astana, compreso Lavrov, si sono riuniti a Doha, senza la Siria, questi avrebbero fatto pressione sul governo siriano affinché avviasse un dialogo con gli oppositori “non terroristi”. D’altra parte, Putin non ha ricevuto al-Assad, ormai a Mosca, dove il nuovo governo siriano ha esposto la nuova bandiera del Paese sull’edificio dell’ambasciata; mentre la stampa russa lo ha giudicato un inetto e ha minacciato Israele nel caso in cui colpisse le due basi che da molto tempo Mosca ha in quel Paese e che gli consentono l’accesso al Mediterraneo. Realpolitik?

* Alessandra Ciattini, già docente di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. Autrice da ultimo "Sul filo rosso del tempo" (Multimage)