di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico
Il Medio Oriente è in fiamme, si legge nelle prime pagine dei giornali, la guerra di Israele contro i suoi nemici si allarga a macchia d’olio ci dicono i telecronisti, eppure, nonostante tutto cio’ sia in parte vero, manca in questo conflitto una componente importante di quelli che lo hanno preceduto, il terrorismo.
Perche’?
Per rispondere a questa domanda e’ necessario capire le tappe salienti del processo che da almeno un decennio è in atto in Medio Oriente, un processo che sta ridisegnando l’ordine geopolitico ed alterando gli equilibri interni ed esterni dell’intera regione
Il primo grande cambiamento è avvenuto in Arabia Saudita con l’ascesa al potere di Mohammed bin Salman (MBS). Giovane rampollo della famiglia reale, MBS è riuscito ad emergere come l’erede legittimo della monarchia assoluta saudita ed a ridisegnarne il consenso popolare. Dove in precedenza questo poggiava sui principi tradizionali del Wahabismo, e quindi aveva una connotazione ‘divina’, trascendentale e, diciamolo, irrazionale, oggi il consenso scaturisce da una serie di concessioni e riforme a carattere prettamente ‘occidentale’. Dalle donne al volante agli eventi sportivi fino ai concerti nel deserto dove donne e uomini ballano insieme, l’Arabia Saudita sta uscendo dal guscio repressivo del Wahabismo che inneggiava alla jihad contro l’occidente e si avvia, invece, a diventare una destinazione esotica per il turismo mondiale, un centro tecnologico nevralgico per la regione, un paese futurista ed un’economia tesa verso la riconversione industriale verde.
Sullo sfondo di questi cambiamenti epocali si inserisce, durante l’amministrazione Trump, il processo di riconoscimento dello stato di Israele, di cui gli accordi di Abramo sono parte integrante. Nell’Arabia Saudita del XXI secolo, dunque, c’e’ sempre meno posto per l’odio nei confronti dell’avamposto occidentale della regione, i.e. Israele, al contrario, la collaborazione commerciale ed economica con questa nazione farebbe da corollario al processo di modernizzazione pianificato da MBS.
Naturalmente, per prendere forma questi cambiamenti hanno avuto bisogno di trasformazioni profonde all’interno della società saudita, le piu’ significative sono state da una parte forzare l’élite saudita a restituire somme ingenti di denaro alla corona e costringerla a rinunciare ad una serie di privilegi acquisti durante gli ultimi trenta-quaranta anni, e dall’altra ridimensionare il potere delle autorita’ religiose wahabite. La concomitanza di questi due fenomeni ha prosciugato i finanziamenti ai gruppi armati del fondamentalismo islamico e ha fiaccato il proselitismo antioccidentale wahabita.
Hamas era perfettamente al corrente di questi cambiamenti ed ha con l’attacco del 7 ottobre voluto cambiare la narrativa, riportare l’intera regione indietro nel tempo, all’inizio del secolo e riattivare il terrorismo del fondamentalismo islamico. Ma l’appoggio del blocco sunnita, un concreto sostegno non e’ mai arrivato.
Sulla scia della modernizzazione dell’Arabia Saudita, anche i paesi del golfo hanno infatti avviato un processo analogo. Se negli anni Ottanta la parola d’ordine per mantenere il consenso era inviare le teste calde in Afghanistan per combattere la guerra santa, la jihad anti-sovietica; e negli anni Novanta si promuoveva la mobilitazione per liberare il Kuwait dall’oppressore Saddam Hussein; e dopo l’11 settembre si finanziavano le guerre per procura di al Zarqawi in Iraq e dello Stato Islamico in Siria, oggi il consenso dipende sempre piu’ dal benessere della popolazione e dall’abilità di farla “distrarre”, vuoi con lo sport, la musica o la guida femminile.
L’appoggio ad Hamas è venuto dall’Iran, dagli Hezbollah ed in parte anche dagli Houthi, il fronte sciita. Il primo ha agito come sponsor delle classiche guerre per procura. Ma non e’ detto che l’Iran voglia, dopo la sconfitta degli Hezbollah, entrare apertamente in guerra con Israele, e questo nonostante abbia lanciato una pioggia di missili in risposta all’ingresso delle truppe israeliane in Libano. Militarmente Teheran non e’ in grado di tenere testa a Tel Aviv, in uno scontro diretto ne uscirebbe probabilmente sconfitta. E’ possibile, per questo, che il lancio dei missili sia una mossa di propaganda e non una dichiarazione di guerra.
Alcuni analisti sono convinti che l’Iran non sia indifferente al processo di modernizzazione dei suoi vicini. Mentre dall’altra parte del Golfo Persico il consenso cresce e va a braccetto con il benessere generato dall’interfacciarsi con il resto del mondo, l’Iran fa i conti con le sanzioni economiche che da anni lo erodono. Usare il pugno duro della repressione religiosa non funzionerà ancora per molto, ed allora perche’ non provare l’altra formula?
Il cambio di guardia dei vertici del potere avvenuto dopo l’indicente di un mese fa quando l’elicottero del presidente Ebrahim Raisi è precipitato puo’ aver rappresentato un’occasione per cambiare registro. Secondo questa interpretazione, anche alla luce della risposta missilistica di ieri, la nuova dirigenza della teocrazia iraniana preferirebbe non entrare in una guerra totale con Israele ma temporeggiare, fino alle elezioni americane, per decidere come posizionarsi per la pace ed il rientro nella comunità internazionale.
Israele questo lo sa e ne vuole trarre il massino vantaggio. L’apertura del fronte libanese rientrerebbe in questa strategia. Nelle prossime settimane potremmo verificare se questa interpretazione e’ corretta.
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