Massimo Troisi, 30 anni dopo. Cosa ci siamo persi?

04 Giugno 2024 08:00 Francesco Guadagni

“Non smetteremo mai di piangere”, disse il regista Paolo Sorrentino all’indomani della morte di Diego Armando Maradona, coniando posteriormente una definizione che è valida anche dal 4 giugno 1994, il giorno in cui ci lasciò Massimo Troisi.

“Piangere” non è solo lacrime, ma è uno stato d’animo di malinconia, tristezza, consapevolezza che un personaggio, di una certa statura artistica, morale, umana come Troisi non c'è più, nonostante sia presente con le sue memorabili opere, dal teatro alla Tv, al cinema.

In questi 30 anni che sono trascorsi, dalle guerre in corso, dalla classe politica che si è avvicendata in questi anni, dai mutamenti sociali, culturali dell’Italia, dell’Europa, della sua Napoli, sentiamo ancora oggi e lo sentiremo ancora un disperato bisogno della sua testimonianza umana, artistica e politica.

Il suo modo di guardare alla realtà sociale ai rapporti di coppia era fuori da ogni banalità e luogo e luoghi comuni, in particolare sulla sua Napoli.

Napoletano, nato a San Giorgio a Cremano, alle pendici del Vesuvio, quella sua saggezza, senza stereotipi della napoletanità di comodo, ma diversa, riflessiva, come un suo mentore, tale Ettore Scola, amava sempre raccontare ed elogiare, sarebbe stata ancora oggi un punto di riferimento per le nuove generazioni.

Troisi è morto a soli 41 anni, cosa avrebbe fatto, detto, quali film interpretato se fosse ancora con noi all’età di 70 anni?

Immaginate solo un attimo se Eduardo de Filippo fosse morto a 41 anni. Non avremmo visto capolavori come Filumena Marturano, Napoli milionaria, Questi Fantasmi, Gli Esami non finiscono mai. E Totò? Avremmo visto solo due film: Fermo con le mani e Animali pazzi degli oltre cento che ha girato.

Questa riflessione nasce dall’ultimo Troisi che stava maturando una nuova consapevolezza della sua genialità, cominciata dalla sua ultima fatica, nel senso letterale del termine viste le sue condizioni di salute, nel film Il Postino tratto dall’omonimo libro di Antonio Skarmeta, che trattava del rapporto di amicizia, poetico e politico del Poeta cileno Pablo Neruda con un giovane postino.

Sulla funzione della sua arte comica, in un’intervista rilasciata poco tempo prima di morire, vediamo un Troisi evoluto nella sua forma espressiva di comicità, un fattore poco considerato dalla critica.

Infatti, dopo la censura subita al Festival di Sanremo, Troisi maturò l’idea che era meglio evitare di fare satira politica: “Evito di fare satira politica perché se ti limiti a dire che Fanfani è corto e Andreotti è gobbo, ti limiti a fare il loro gioco. Ti metti la coscienza a posto e aiuti la DC ad apparire più democratica solo perché ti fa passare le battute.”

Come potete vedere nell’intervista, non fra le più citate, Troisi ammette di aver fatto confusione “tra la comicità accettata, di stato, quella che passava in televisione… e lo penso ancora. Se un regime ti permette di giocare sicuramente ci guadagna qualcosa.” Allo stesso tempo ricordava: “Però bastava andare in un teatro, vedere Dario Fo e vedere che comunque si poteva fare satira politica dicendo cose molto più indigeste.”

Il nostro caro Massimo anche su altri percorsi della sua vita, ad una domanda precisa, ‘Se non avessi fatto l’attore?’, risponde con meno leggerezza e serenità come era consueto fare, traspare una certa amarezza. “Se non avessi fatto l’attore? Meglio non rispondere perché potrei essere condannato per apologia di reato”.

Comunque, la motivazione delle tematiche del suo cinema, che superficialmente potrebbe essere considerato solo da “comico dei sentimenti” come etichettato dalla critica, lascia spiazzati. Per lui la rabbia ne vedere che comunque si denunciassero delle storture che avvenivano in Italia senza che avvenisse nulla, provocava non un gesto eroico, una reazione, ma la contrazione dei suoi personaggi che volevano isolarsi da tutto.

Vedendo però, che c’erano stati dei riscontri a certe denunce lo portava, anzi, forse in seguito lo avrebbero portato a fare un cinema diverso.

Il Postino era già il cammino di un nuovo Troisi, l’esilio di Neruda in quanto comunista, l’ostracismo dei comunisti nei primi anni del potere democristiano, le manganellate della polizia dell’allora Ministro Scelba che uccidono il protagonista furono poi tutti fattori che non favorirono la vittoria di un premio Oscar, nonostante cinque candidature, fra le quali per il Miglior Attore e Miglior regista, tranne per la meravigliosa colonna sonora firmata da Luis Bacalov e Sergio Endrigo.

Qualcuno, grazie a quella che il regista Mario Monicelli definì la mascalzonata dei carri armati americani che entrano nel campo di concentramento, anziché di quelli sovietici, fu premiato agli Oscar. Ogni riferimento a Roberto Benigni e al film La vita è bella non è affatto casuale.

Di questi trent'anni senza Troisi, resta, dunque, il forte rimpianto di cosa avrebbe potuto ancora regalarci, ma allo stesso tempo la sua opera è viva non solo a scopo di citazione e ricordo, ma è una base, un'ispirazione che sarà sempre presente non solo nel cinema, ma nella Cultura e nella nostra vita.

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