Nessuna area è idonea per saccheggiare e stuprare la Sardegna


di Cristiano Sabino*


Ciò che definisce lo stupro è la violenza sulla base di un mancato consenso.

Il medesimo principio vale relativamente al saccheggio energetico che sta subendo la Sardegna. Chiamare tale processo “transizione energetica” è fuorviante perché si tratta di processi totalmente impositivi e di una dinamica schiettamente subalterna e coloniale, basata sull’imposizione violenta di un modello energetico del tutto esogeno che ha come fine non la decarbonizzazione, bensì i profitti privati di pochi monopolisti, mediante accaparramento di risorse pubbliche dei sardi (terre, mare, vento, sole), contro la loro volontà e senza alcun coinvolgimento. La transizione energetica va attuata con il consenso di una popolazione, delle sue istituzioni, della società civile e politica che la innerva, mentre il processo in corso è pura violenza coloniale, realizzata piegando la volontà collettiva ad un modello autoritario, imposto per decreto, violentemente propagandato come giusto a priori e da accettare come moloch.

Ciò è ancora tanto più grave in una terra come la Sardegna che, da duecento anni, subisce ogni sorta di imposizione di modelli esogeni in nome del progresso, della modernizzazione, dell’interesse generale o “nazionale” (nel senso di statale italiano) o della pura e semplice necessità impersonale del mercato.

In altri luoghi ho parlato di “quarta colonizzazione” ( https://www.pressenza.com/it/2023/11/eolico-fotovoltaico-e-metano-contro-la-quarta-colonizzazione-della-sardegna/ ), contando, a dire il vero, solo quei violenti processi di modernizzazione passiva di tipo economico (privatizzazione delle terre comuni, estrazione mineraria, servitù e demanio militare e industriale di tipo pesante). Se dovessimo considerare anche gli aspetti sovrastrutturali – ma non per questo meno violenti e impattanti – dovremmo mettere nel conto anche la desardizzazione, l’imposizione del monolinguismo italiano ecc.. e il conto salirebbe inesorabilmente.

Può sembrare brutale, ma l’analogia richiamata nel titolo, rende subito chiaro un punto politico che considero cruciale nel chiarire i termini del dibattito sulla cosiddetta “transizione energetica”: il modo con cui l’attuale classe dirigente al governo della Sardegna sta affrontando il quarto stadio della colonizzazione dell’isola è del tutto insufficiente o peggio serve semplicemente per preparare il terreno ad uno scenario politico nel quale i «nuovi feudatari industriali» - come li chiamava Simon Mossa – possano operare in tutta tranquillità, una volta assegnate loro le zone dove fare prosperare i loro affari tinteggiati di “green”.

Bisogna dirlo con grande chiarezza: non ci sono aree idonee disponibili ad una nuova grande messa a sacco delle risorse e della dignità dei sardi! Prima di tutto lo stupro va fermato, non va localizzato e regolamentato. Questa è la differenza fondamentale tra chi fa finta di proteggere la Sardegna con una “moratoria” che ha il profilo di una colossale presa per i fondelli per convincere la rana a starsene a mollo nella tinozza, mentre i grandi manovratori aumentano gradualmente il gas e la visione dei comitati e dei movimenti decoloniali che, con grande lucidità, stanno mettendo in chiaro che quello che va fermato è un modello truffaldino nella sua interezza.

I dati della violenza in corso

In Sardegna, Al 30 giugno 2024 le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) risultano 824, pari a 54,39 GW di potenza. Questo significa che, se tutte le istanze venissero approvate, la Sardegna verrebbe ricoperta da una distesa di pantagruelici impianti industriali da produzione energetica, circa 30 volte superiore alle già invasive e diffuse servitù odierne (a partire dall’occupazione militare che l’isola subisce).

Quasi 60 GW a fronte dei 6,2 imposti dal Governo centrale e supinamente recepiti dalla presidente Alessandra Todde, senza che siano minimamente chiari i parametri con i quali si è arrivati ad una tale cifra attribuita alla Sardegna.

Al netto del fatto che dovranno chiudere le due inquinantissime centrali a carbone (contro cui in molti ci siamo battuti negli scorsi anni, scontrandoci contro un muro di gomma di aggregati politici e sindacali della cosiddetta “sinistra” che oggi, celermente convertitisi in paladini del clima e acerrimi nemici dell’industria inquinante, accusano i comitati di essere amici dei petrolieri e servi sciocchi degli interessi del gruppo editoriale Zuncheddu), cosa ce ne faremo di tutta questa energia che fra l’altro non potrà nemmeno essere né esportata né accumulata?

L’ingegnere e attivista dei comitati, Antonio Muscas, in una intervista a S’Indipendente, sostiene che «le rinnovabili già oggi sarebbero in grado di coprire quasi il 40% dei consumi. Ma, entrando più nel dettaglio e facendo riferimento al solo settore domestico, possiamo vedere che con le rinnovabili arriviamo quasi al 70% del fabbisogno elettrico» ( https://www.sindipendente.com/blog/una-visione-chiara-sulla-speculazione-intervista-ad-antonio-muscas-simprenta-rassegna-stampa-dalla-colonia/ ).

Qualcuno può smentire questi dati e queste considerazioni, anche al netto del fatto che non si capisce quando i sardi abbiano deciso di ospitare la Sarlux e le due centrali a carbone e quando abbiamo firmato il contratto per diventare esportatori di energia?

Muscas, nelle stessa intervista, puntualizza questa contraddizione fondamentale: «prima ci impongono una servitù energetica inquinante, poi ci accusano di inquinare, con il risultato che ci chiedono di sostituire l’export da carbone con una servitù eolica e fotovoltaica decisa da Roma, pur di mantenere l’export verso il nord neoautonomista quando gli fa comodo».

C’è un passaggio nell’inno rivoluzionario di Ignazio Mannu (che da qualche anno è diventato l’inno ufficiale della Sardegna) che torna di grande attualità:«Meda innantis de sos feudos / Esistiana sas biddas, / Et issas fe ni pobiddas / De saltos e biddattones. / Comente a bois, Barones, / Sa cosa anzena est passada? / Cuddu chi bos l’hat dada / Non bos la podiat dare».

Con il grande poeta ozierese dobbiamo chiederci chi, quando, a che titolo ha deciso di trasformare le comunità della Sardegna che erano proprietarie delle loro terre in una piattaforma energetica di proprietà dei nuovi “barones”. Quelli che hanno preso questa decisione non erano titolati a farlo!

La legge del saccheggio

Addentrarsi nel quadro normativo che consente il saccheggio energetico e il land grabbing della Sardegna non è semplice.

La matrice di riferimento è il Decreto Legislativo del 29 dicembre 2003, n.387, attuazione della direttiva europea 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità.

Anche se dal nome sembrerebbe suonare bene, tutto il focus giuridico della norma ruota intorno ai grandi impianti che poi sono quelli costruiti dalle multinazionali. Né la Direttiva comunitaria, né la legge nazionale affrontano il tema delle comunità energetiche e quindi la possibilità della produzione diffusa e dell’autoconsumo. Si è dovuto attendere la recente RED II (Direttiva UE 2018/2001) e il Dlgs.199 dell’8.11.2021 (peraltro ancora privo dei decreti attuativi), perché venga offerta la possibilità ai consumatori di costituirsi in forme associate di produzione di energia elettrica.

In un ventennio si è consentito con la 387, a multinazionali che operano con finalità di puro lucro, di espropriare terreni agricoli e di sottrarsi ad ogni tipo di programmazione e governo del territorio. In particolare, l’articolo 12 della legge “Razionalizzazione e semplificazione delle procedure autorizzative” consente di realizzare gli impianti dappertutto, anche in aree agricole, consentendo in tal modo la proliferazione indiscriminata di impianti eolici, al punto di ritrovarci gigantesche pale in casa senza conoscerne nemmeno l’iter autorizzativo.

La normativa europea è stata prima recepita dal Decreto Legislativo 28/2011, noto come "Decreto Rinnovabili". È stato questo dl a stabilire i famigerati certificati verdi e le tariffe incentivanti, che trasformano le multinazionali dell’energia in mecenati della riconversione energetica. Sempre questo decreto introduce procedure iper-semplificate rispetto al passato per l'installazione di impianti FER e specifica criteri preferenziali per quelli di grande taglia, favorendo in tal modo il monopolismo e il land grabbing e minando la possibilità che la transizione energetica viaggi sui binari della produzione energetica democratica e dell’autoconsumo, tagliando fuori le grandi compagnie da lauti e crescenti profitti (soprattutto in tempi di guerra, su questo segnalo un altro mio articolo sul rapporto energia-escalation bellica: https://www.sindipendente.com/blog/tra-guerra-armata-e-guerra-energetica-fermare-la-quarta-colonizzazione-della-sardegna-e-necessario/ ).

Si arriva così allo sfacelo rappresentato dal dl dell’8 novembre 2021, n. 199, vale a dire quel «Decreto Draghi che non esiste» - come ebbe a dire la candidata del Campo Largo Alessandra Todde in campagna elettorale, in un confronto con Renato Soru ( https://www.ilgiudicato.it/limiti-alle-rinnovabili-in-sardegna-ricostruzione-del-quadro-normativo/ ).

Questo dl che potrebbe anche essere ribattezzato “Decreto Far West”, ha apportato delle modifiche sostanziali nei procedimenti autorizzativi semplificandoli oltre misura e di fatto ha realizzato una concentrazione mai vista della produzione energetica nelle mani del governo centrale, a dispetto delle competenze concorrenti in questa materia della Regione Autonoma di Sardegna.

Nel dl Draghi inoltre erano previste le linee guida per individuare le aree idonee, ma queste non sono state individuate e in questo buco nero si sono gettati come sciacalli speculatori e predatori di ogni fattura.

Piccolo promemoria per i tanti pesci rossi che vivono in un eterno presente: il Governo Draghi era sostenuto dalle principali forze che oggi compongono il cosiddetto “campo largo”, il ministro alla “transizione energetica” (specifico ministero inventato proprio da Draghi su esplicita richiesta di Beppe Grillo e del M5S come conditio sine qua non del loro appoggio politico al Governo) era Roberto Cingolani e Alessandra Todde era viceministro dello Sviluppo economico. Recentemente, in un intervento a Desulo, Todde ha dichiarato di non aver visto quello stesso decreto che in campagna elettorale sosteneva non esistere ( https://www.unionesarda.it/news-sardegna/todde-e-la-speculazione-sulle-energie-rinnovabili-non-ci-dormo-la-notte-qrh2aofx ), ma è curioso che un viceministro non dia un’occhiata ad un decreto del Governo di cui fa parte il quale, fra l’altro, è fortemente promosso dalla sua stessa parte politica (il M5S). Anche credendo alla sua buona fede, ciò non sposta minimamente i termini della questione e non rende minori le responsabilità politiche di chi oggi governa la Sardegna.

La “moratoria” serve a qualcosa?

La deliberazione n. 11/3 del 30 aprile 2024, Misure urgenti per la salvaguardia del paesaggio, dei beni paesaggistici e ambientali” è stata approvata dal Consiglio Regionale agli inizi di luglio e ribattezzata dai giornali “moratoria”. Bisogna specificare che la stessa Presidente Todde ha spiegato che non si tratta di una moratoria, ma di una «sospensiva» alla realizzazione degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili in Sardegna, perché «le istruttorie sono di competenza nazionale, quanto della loro realizzazione e messa in opera» ( https://www.ansa.it/sardegna/notizie/2024/04/30/sardegna-todde-nuove-regole-contro-far-west-delle-rinnovabili_5c6ad8e8-2c8b-4cd8-b145-069df86e6127.html. )

Quindi il piano sarebbe questo: sospendere la realizzazione degli impianti per 18 mesi (non sono compresi eolico offshore e revamping, il che in molti casi significa sradicare vecchi piccoli impianti e costruirne di sana pianta enormi sopra, come nel caso di Saccargia che ha fatto tanto scalpore!), e nel frattempo individuare le aree idonee. E sul fatto che non siamo davanti ad un provvedimento strutturale Todde chiarisce la questione, anche forse per scansare eventuali impugnazioni da parte dello stesso Governo centrale: «non è un provvedimento strutturale ma stiamo prendendo tempo perché la situazione va gestita in maniera organica, con regole chiare di cui la mappa delle aree idonee e la revisione della paesaggistica sono le vie maestre"». (sempre fonte Ansa).

Tutto questo è molto preoccupante, perché Todde, che nel frattempo è diventata anche la capofila della crociata contro l’autonomia differenziata, non dimostra alcuna intenzione di fare valere le prerogative autonomistiche della Sardegna, in particolare di esercitare la potestà legislativa concorrente dell’articolo 4 («la Regione emana norme legislative sulle seguenti materie: industria; produzione e distribuzione dell'energia elettrica»).

Il Gruppo di intervento Giuridico spinge a questo proposito la possibilità che la RAS si faccia promotrice di una moratoria a livello statale ( https://www.unionesarda.it/multimedia/il-grig-serve-una-moratoria-nazionale-quella-della-regione-verra-impugnata-plljbz5t ). Ogni strada deve essere battuta per fermare la colonizzazione, ma credo che per prima cosa, la Regione Sardegna debba far valere i suoi diritti autonomistici, utilizzando al massimo grado lo Statuto e, nel caso sia necessario, forzandolo fino allo scontro istituzionale con uno Stato che si è rivelato patrigno allo stesso modo di quello sabaudo e fascista.

Insomma non si tratta soltanto di salvaguardare territorio e paesaggio, ma di cogliere questa occasione storica per invertire lo storico rapporto di subalternità che contraddistingue la Sardegna da quando è stata annessa al Ducato piemontese e poi, sempre in maniera passiva e subalterna, al Regno d’Italia e alla Repubblica.

Che Alessandra Todde e la sua squadra di governo sedicente “antifascista” e “progressista” non avesse nessuna volontà politica di aprire finalmente una sacrosanta e verace dialettica con lo Stato per evitare che la Sardegna diventi una piattaforma energetica nella piena disponibilità dei «nuovi feudatari industriali», si era capito benissimo quando ha dato «il via libera in Conferenza Stato-Regioni, al testo del Decreto del Ministero dell’Ambiente sulle Aree idonee, con le norme per individuare le zone in cui far nascere nuove installazioni di impianti per la generazione di energia da fonti rinnovabili». ( https://www.unionesarda.it/economia/aree-idonee-ok-al-decreto-todde-una-risposta-agli-speculatori-delle-rinnovabili-uqddyl5l ).

Incredibile a mio parere come la governatrice spacci un atto di proskýn?sis (il celebre gesto di sudditanza che i greci rifiutavano concependosi come uomini liberi) come un buon compromesso a vantaggio e tutela dei sardi; «abbiamo combattuto per ottenere un decreto sulle aree idonee che rispondesse alle prerogative della Sardegna. Abbiamo ottenuto che sia la Sardegna a definire come fare le autorizzazioni e come dislocare gli impianti eolici e fotovoltaici nel nostro territorio per ottemperare alla quota di 6,2 GW da raggiungere entro il 2030, senza subire le decisioni di altri e del Governo nazionale» (sempre Unione Sarda).

Sarebbe per esempio utile chiedere chi e su che base sia spuntata la cifra dei 6,2 GW. Sarebbe interessante domandare come mai la Sardegna, con poco più di un milione e mezzo di abitanti (in continuo ed inesorabile calo) debba produrre una cifra tripla rispetto al nostro fabbisogno, e magari in questa conferenza sarebbe stato interessante portare i dati delle quote attribuite ad altre regioni, per esempio al Veneto dove, con quasi 5 milioni di abitanti, sono stati assegnati 5,7 GW e 3,9 al Lazio con 5 milioni di abitanti. Invece, fra un balletto al pride (perché l’autodeterminazione è bella solo se è individuale) e una corsa al rally, i cento gironi di Alessandra sono passati in una bolla di nullismo politico.

È molto difficile alzare la mano e chiedere al ministro Picchetto Frattin “scusa qual è il criterio?” – ricordando magari che la Sardegna è una Regione a Statuto Speciale e che sulle nostre terre gravano già squilibri, ingiustizie e servitù di ogni genere?

Anche a questo giro insomma, nonostante la consueta rappresentazione teatrale di taluni indipendentisti da cortile, utili a dare un po’ di colorito sardesco alla nuda realtà coloniale del nuovo regime podestarile di turno, sbattiamo i pugni sul tavolo domani.

Ed eccoci alla questione politica di fondo: stando così le cose, restando in vigori i dispositivi governativi che impongono alla Sardegna una nuova insopportabile servitù coloniale, dobbiamo rendere chiaro e manifesto che non ci sono e non ci devono essere aree idonee da mettere a sacco.

E non per difendere il paesaggio, per non disturbare la rotta migratoria dei tonni e non infastidire le volpi. Tanto meno per fare un favore agli alberghi di Zuncheddu, per accontentare le manie di protagonismo di Mauro Pili o per chi sa quale altra favolistica motivazione accampata dai tanti ambientalisti organici agli interessi dei «nuovi feudatari industriali». Semplicemente due secoli di colonizzazione piemontese e italiana ci hanno scafati ed è arrivato il momento di dire basta, perché la nostra terra è la nostra terra e dove, come, a che condizioni fare la transizione energetica, lo decidiamo noi.

Quali soluzioni?

A parte le decine e decise mobilitazioni messe in campo dai comitati, compresa la straordinaria manifestazione alla millenaria basilica di Saccargia, la rivolta degli ulivi e il blocco del porto di Oristano, sono attualmente emerse tre proposte per fronteggiare la quarta colonizzazione.

La prima è una proposta di un referendum promossa da un sedicente “Comitato per il No”, ( https://www.lindipendente.online/2024/07/15/sardegna-parte-la-raccolta-firme-per-un-referendum-contro-la-speculazione-energetica/ ). Il quesito è stato depositato in diversi comuni dell’isola: “Volete voi che il paesaggio sardo terrestre e marino sia modificato con l’installazione sul terreno ed in mare di impianti industriali eolici e/o fotovoltaici per la produzione di energia elettrica?”.

Come si fa a rispondere “si” o “no”? Nessun comitato si è mai dichiarato contro la transizione energetica e men che meno contro l’eolico, l’agrivoltaico e, in generale, le FER. Il punto sta tutto nei metodi, nel coinvolgimento democratico, negli interessi delle comunità, negli obiettivi da raggiungere. Questo referendum è oggettivamente un regalo a chi sostiene che esista una lotta tra amici del petrolio e del carbone da una parte e paladini dell’ambiente e delle rinnovabili dall’altra.

Una seconda proposta, spuntata giusto un paio di giorni fa come un fungo fuori stagione, viene dal cosiddetto “Comitato scientifico per l’insularità”, da quell’organismo cioè che in Sardegna, trasversalmente ai partiti e ai movimenti politici di varia natura, ha fatto passare il messaggio che sarebbe bastato inserire nel testo costituzionale la condizione insulare della Sardegna perché l’isola rifiorisse di nuova vita. Bene, l’insularità in Costituzione ce l’abbiamo e oggi siamo oggetto di una delle più gradi azioni coloniali dai tempi del disboscamento selvaggio e delle concessioni minerarie.

Però i grandi scienziati del “comitato scientifico” non si fermano a meditare su tutto ciò e, baipassando decine di comitati che da anni lavorano con professionalità e competenze sul tema, lanciano il loro appello ad Alessandra Todde, chiedendole di impugnare il decreto Picchetto Frattin. La portavoce Maria Antonietta Mongiu avanza perfino la proposta di una raccolta firme a sostegno di una proposta di legge di cui però non si trova il testo: «siamo pronti a raccogliere le firme per dare forza alla nostra proposta di legge sull’estensione del Ppr all’intera Sardegna. In sei mesi, la Sardegna uscirebbe dall’impasse» ( https://www.unionesarda.it/news-sardegna/eolico-il-comitato-per-linsularita-la-giunta-difenda-lisola-yr2onqhe ).

C’è molta confusione sotto il cielo – come diceva un saggio e rivoluzionario cinese - ma evidentemente in questo caso la situazione perfetta non è.

A completare il quadro la proposta di legge “Pratobello 24” (in riferimento alla battaglia vittoriosa della popolazione orgolese contro il poligono di tiro della NATO che si sarebbe dovuto insediare a Pradu, vicino ad Orgosolo) elaborata da alcuni sindaci che – a quanto pare – sarebbe appoggiata anche da diversi comitati, non senza critiche e malumori. La legge fa riferimento alla suddetta competenza primaria della Regione nel settore urbanistico. L’obbiettivo – in sostanza - è quello di bloccare i nuovi impianti e quelli in corso di costruzione, con una nuova normativa urbanistica.

La bozza ricorda che «La Corte costituzionale ha più volte rilevato che la competenza del legislatore sardo in materia di edilizia e urbanistica non comprende “solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche quelle relative ai beni culturali e ambientali» (sentenza n. 178 del 2018; in questo senso già sentenza n. 51 del 2006)”» e – da qui – si propone di disporre «norme urbanistiche efficaci in grado di evitare irreversibili compromissioni del territorio regionale».

L’urgenza della legge emerge – sempre seguendo il filo logico del testo - «in relazione al rischio di una “massiva” devastazione del territorio sardo, con gravi e irreversibili ripercussioni in ogni ambito territoriale, compreso lo stravolgimento dell’assetto urbanistico della Sardegna e il venir meno della competenza primaria della Regione nell’ambito della pianificazione «Urbanistica».

All’articolo 2 segue un elenco abbastanza puntuale di aree da tutelare in cui «fatti salvi gli interventi relativi all’autoconsumo da realizzarsi su superfici edificate esistenti o da realizzarsi di cui alle disposizioni seguenti, è vietata l’installazione di impianti fotovoltaici industriali a terra e agrivoltaici vietata la costruzione e l’installazione di impianti eolici terrestri».

All’articolo 5 si apre invece una giusta linea di credito alle comunità energetiche: «la Regione sarda, in applicazione delle normative vigenti, statali e regionali, promuove e incentiva la realizzazione di “comunità energetiche” di interesse comunale, intercomunale, provinciale e regionale» e, all’articolo 6 «promuove piani di produzione energetica attraverso la predisposizione di progetti di valorizzazione delle infrastrutture lineari, quali strade, ferrovie, piste ciclabili e infrastrutture assimilabili».

Oltre ai diversi problemi nel testo di legge, come per esempio il divieto di impianti di stoccaggio che porterebbero ad un collasso del sistema da FER e, in generale evidenti vulnus giuridici di attuazione che ne inficiano potenzialmente la legittimità, risultano pochini i sindaci a suo sostegno. E forse il limite maggiore è che si punta tutto sull’aspetto urbanistico, trascurando la competenza concorrente che la RAS ha in materia di energia, il che significa che non si profila per nulla una via sarda alla necessaria e improrogabile decarbonizzazione, profilando una strategia compiuta di transizione energetica da realizzarsi nell’interesse dei sardi e non dei «feudatari industriali» o dei loro emissari.

Però, al momento, risulta anche l’unica proposta sul piatto. L’ideale sarebbe aprire – in tempi strettissimi - un dibattito pubblico sul tema, coinvolgendo gli esperti che in questi anni hanno elaborato osservazioni puntuali e dato corpo giuridico, tecnico e politico alla mobilitazione popolare.

In ogni caso non vedo alternative a questa strada, perché senza una proposta sul piatto non è possibile opporre nulla al vuoto pneumatico della giunta “eh allora Solinasa?”. La sola opposizione popolare di piazza, non riuscirà a reggere botta ancora per molto e a fermare lo stupro e il saccheggio della nostra terra e dei nostri diritti di popolo!

L’insostenibile tendenza a rendere morbosa la mobilitazione popolare

A Gandhi viene erroneamente attribuito l’adagio «prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci». Gandhiana o meno, questa frase descrive bene l’approccio di una certa sinistra modernista e antipopolare che attualmente sta a cavallo tra la derisione e l’aperta ostilità verso la resistenza popolare alla colonizzazione energetica. Se a proposito della riuscitissima mobilitazione di Saccargia il noto giornalista e blogger Vito Biolchini ha parlato di «isteria ribellista» (https://www.vitobiolchini.it/2024/06/17/transizione-ecologica-oltre-le-speculazioni-e-listeria-ribellista-la-sardegna-che-ruolo-vuole-avere/ ), il giornalista ambientale Lorenzo Tecleme, in un articolo che pure ricostruisce puntualmente il contesto politico ed energetico, si chiede «perché la Sardegna ha deciso di fermare le rinnovabili», riferendosi alla “sospensiva” di 18 mesi recentemente approvata dal Consiglio Regionale. Il linguaggio è importante e un titolo del genere non può essere considerato né neutro né privo di malizia. Tecleme minimizza la questione della speculazione affaristica in corso derubricandola a «caso da manuale di transizione non governata», appiattisce l’opposizione popolare a motivazioni di tipo paesaggistico («la gran parte dell’opposizione è di tipo paesaggistico») e denuncia che «da almeno un quindicennio esiste nell’isola una certa opposizione alle fonti rinnovabili», appiattendo l’opposizione popolare ai processi di colonizzazione sul livello di una inesistente opposizione per partito preso alle rinnovabili (https://www.renewablematter.eu/Perch-la-Sardegna-ha-deciso-di-fermare-le-rinnovabili.).

Se aggiungiamo al quadro la retorica secondo cui la Sardegna dovrebbe piegarsi alla volontà di potenza della colonizzazione energetica per fermare la desertificazione e addirittura invertire le rotte migratorie dal nord verso l’isola ( per un approfondimento sul tema rimando al mio articolato su Filosofia de Logu https://www.filosofiadelogu.eu/2022/decolonizzare-lambientalismo-come-la-ragion-coloniale-si-tinge-di-verde-di-cristiano-sabino/ ) e la vera e propria ossessione sul personaggio Mauro Pili e sul gruppo editoriale Zuncheddu ( https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/07/19/sardegna-la-metamorfosi-del-berlusconiano-pili-da-giornalista-boccia-limpianto-eolico-approvato-20-anni-prima-come-governatore/7629682/ ), credo che il quadro di questa narrazione elitaria e coloniale vada a completarsi.

Non c’è da stupirsi. Gramsci aveva isolato chirurgicamente questo tipico atteggiamento delle élites dominanti – specie se dalla postura progressista e pseudo-riformatrice - verso le manifestazioni di insorgenza popolare. Nel Quaderno 15, concentrandosi sulla figura di David Lazzaretti, denunciava come gli intellettuali organici alle classi dominanti ignorassero bellamente le radici sociali di questo predicatore e agitatore socialista legato alle istanze di emancipazione delle masse rurali toscane nella seconda metà dell’Ottocento e si concentrassero invece sulla sua dimensione patologica:

«Invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico» (Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 25)

Insomma, in Sardegna esiste un blocco storico – sempre per prendere in prestito le categorie gramsciane – che mette insieme Stato centrale, classe politica locale endemicamente passiva e subalterna, intellettuali organici ai processi di modernizzazione passiva, «nuovi feudatari industriali» e speculatori del nuovo businnes assistito della transizione energetica che garantisce lauti e facili profitti.

Ed è con questo rodato blocco che i movimenti che si oppongono alla colonizzazione devono fare i conti se vogliono vincere una battaglia che risulta essere insieme economica, energetica, politica e culturale e che si dimostra strategica per invertire, a partire dalla questione energetica, la condizione di subalternità della Sardegna e del suo popolo.

*Cristiano Sabino. docente di filosofia, saggista, scrittore, attivista politico e sindacale, attivista del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, blogger

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