Siamo i servi della gleba di un feudalesimo digitale?


di Gabriele Germani


I lettori ricorderanno il libro dell’ex ministro greco Varoufakis “Tecnofeudalesimo. Cosa ha ucciso il capitalismo” del 2023. Nel testo si spiegava come il nuovo modello fosse sempre più distante dal capitalismo classico. Era un testo provocatorio, ma al contempo realistico, specie nelle sue valutazioni sulla situazione odierna e dell’immediato futuro.
L’idea era che le grandi piattaforme digitali (Google, Amazon, il gruppo Meta, X e altri) stessero accumulando sempre più potere all’interno dei sistemi economici e che la loro affermazione stesse cambiando la struttura socio-economico del capitalismo, trasformandolo in qualcosa di diverso.

Tanto il capitalismo era caratterizzato dalla competizione e dalla lotta ai monopoli, tanto le nuove aziende tendevano a creare dei sistemi chiusi all’interno di cui operare e in cui gli utenti fossero costretti a rimanere salvo una serie di disagi e scomodità.

Il flusso di dati e informazioni gestiti da questi colossi li renderebbe in grado di condizionare e profilare l’intera società, rendendo la gestione di questi più importante della produzione stessa. Se nel capitalismo classico centrale era il profitto ricavato dalla produzione e vendita di un bene, nel tecnofeudalesimo è importante avere a disposizione molti dati per poter venderli alle aziende produttrici. Queste ultime, specie se di dimensioni medio-piccole, si troverebbero su queste piattaforme come tutti gli altri utenti, dipendendo dalle stesse per poter fare pubblicità, arrivare ai clienti o vendere. La rendita garantita dal controllo e possesso dei dati arriverebbe a condizionare il profitto delle aziende produttrici.

Cedere i propri dati o addirittura pagare per avere maggiore visibilità (la famigerata spunta blu) diventano una sorta di corvée che tutti gli utenti sarebbero tenuti a rispettare per avere accesso agli strumenti digitali stessi.

La piattaforma di vendita deve avere accesso al nostro indirizzo per far arrivare i prodotti, ma anche a quelli di pagamento per eseguire la transizione, sa chiaramente cosa compriamo, quanto guardiamo un prodotto, come scegliamo o cosa desideriamo. Tutto questo si converte in un controllo bio-psico-politico che rende la società nel suo insieme manipolabile.

Chi conosce i gusti del pubblico può infatti anche condizionarli, può venderli a questa o quella azienda o a questo o quel politico che li potrà usare in campagna elettorale. Le normative non uniformi e gli scandali scoppiati attorno al mondo del web rafforzano l’impressione di debolezza della politica e delle istituzioni.

Anche il rapporto tra azienda e lavoro è mutato: le piattaforme di mobilità o di consegna a domicilio ne sono la rappresentazione migliore. I fornitori del servizio sono utenti registrati, non dei lavoratori, con tutto ciò che ne consegue in termini di diritti, stipendi e sindacalizzazione.

Gli Stati sovrani sembrano sempre più simili ai vuoti simulacri, essi stessi sottoposti al potere delle piattaforme.

Ma cosa c’entra questo con l’amministrazione Trump?

Donald Trump si è circondato del suo entourage di uomini fidati che arrivano da quel mondo. Non solo Elon Musk, ma l’intera PayPal Mafia, questo il nome dato ai fondatori della famosa piattaforma; il patron di META Mark Zuckerberg o Sam Altman, il visionario direttore di OpenAI, l’azienda produttrice di ChatGPT.

Il legame tra questi uomini e la finanza speculativa è molto forte. Le aziende digitali sono intrecciate ai fondi speculativi ed entrambi legano buona parte del loro benessere alla capacità di convincere il mercato (pubblico?) della propria forza.

Questo spiega le frequenti pose provocatorie adottate da Elon Musk, che ha la necessità di rilanciare ciclicamente il proprio personaggio per pompare il valore delle sue azioni. L’attesa missione umana su Marte viene rinviata di due anni in due anni, ma permette di rendere nota a tutti e di aumentare il valore della sua SpaceX; senza tutta questa pubblicità gratuita, per lo più circolante sui social media, l’azienda esisterebbe ancora? Difficile a dirsi.

Lo stesso presidente della più grande super-potenza del pianeta sembra piegato a questo gioco comunicativo: non è importante realizzare, è importante apparire e far arrivare un messaggio semplice e rapido alla propria fanbase. Fioccano gli annunci in diretta streaming o tramite tweet, completamente secondario ormai il mezzo televisivo e radiofonico, relegati ad oggetti vintage di un’epoca passata.

Questo cambiamento è così forte da cambiare anche la retorica del potere. Il capitalismo si era caratterizzato per un elogio continuo della competizione, che oggi viene meno. I guru del digitale non amano la competizione, la considerano da perdenti, se un’azienda riesce a creare un monopolio è perché è la migliore nel suo campo. Lo stesso governo degli USA condiziona pesantemente il mercato nel momento in cui a vincere sono gli altri, basti qui ricordare la vicenda Tik Tok, la cui azienda sarà costretta a vendere a un proprietario, istituzionale o non, USA per poter continuare ad operare su suolo statunitense.

Con la presidenza Trump questo passaggio al tecnofeudalesimo sembra aver fatto un nuovo salto di qualità, il confine tra imprese digitali e politica si è ulteriormente sfumato.
Lo scenario distopico che viviamo ci costringe, forse ora più che mai, a interrogarci su come cambiare rotta.

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