Paolo Maddalena . L'autonomia regionale differenziata Solidarietà e territori

SOMMARIO: 1. L’autonomia regionale differenziata e lo Stato comunità. - 2. Il problema dell’esatta interpretazione dell’articolo 116 della Costituzione. - 3. L’abisso giuridico costituzionale del disegno di legge sulle ”autonomie differenziate” di Calderoli. - 4. Gli effetti giuridici e economici della eventuale trasformazione in legge del disegno Calderoli.

  1. L’autonomia regionale differenziata e lo Stato comunità.

Il disegno di legge n. 615, presentato dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie (Calderoli), il 23 marzo 2023, contenente disposizioni per l’“attuazione delle autonomie differenziate” delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, e la lettura che comunemente gli si attribuisce, danno per scontato che quanto si legge nel terzo comma del citato articolo 116 della Costituzione, e cioè la frase “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia … possono essere attribuite ad altre Regioni …”, non significherebbe altro che “abrogazione” della potestà legislativa dello Stato di “determinare” i “principi fondamentali” nelle cosiddette materie di legislazione concorrente Stato-Regioni (prevista dal terzo comma dell’articolo 117 della vigente Costituzione), nonché “attribuzione” alle Regioni delle competenze statali indicate dal secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione, “alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia, n) e s)”, (e cioè in materia di “principi fondamentali sull’istruzione”, e in materia “di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi”).

Insomma, lo Stato perderebbe la sua competenza a legiferare su un bel gruppo di materie, ricevendo un gravissimo colpo alla sua “sovranità” (si ricordi che “sovrana” è la legge conforme a Costituzione), la quale verrebbe distribuita tra le Regioni ad autonomia differenziata, con buona pace del “principio fondamentale”, sancito dall’articolo 5 della Costituzione, che afferma “l’Unità e la Indivisibilità” della Repubblica2.

Non sfugge che la “verifica dell’esattezza” di questa comune lettura del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione è “propedeutica” a qualsiasi altro approfondimento sull’interpretazione e sulla valutazione da dare all’intero “disegno di legge” Calderoli,

  • Relazione alla Fondazione Banco di Napoli, 28/2/2024, ore 15,30.
  • AZZARITI: “L’autonomia di Calderoli? Non s’ha da fare! Serve un’autonomia differente, non differenziata”, di Rossella Guadagnini, in www.micromega.net.

poiché, come è ovvio, la sua accettazione sarebbe sconvolgente per l’unità giuridica e economica dell’Italia.

Insomma logica impone che, prima di procedere oltre, si chiarisca una volta per tutte, cosa realmente vogliano significare le accennate parole usate dal citato articolo 116 della Costituzione.

A mio avviso, dobbiamo innanzitutto chiederci in quale settore dello scibile giuridico ci stiamo movendo e se, una volta stabilito di che cosa stiamo parlando, sia da ritenere esatta la suddetta interpretazione.

In proposito sembra indubbio che, parlandosi di “competenze”, si verta nell’ampio tema dell’ “Ordinamento della Repubblica”, che il disegno di legge Calderoli vorrebbe cambiare.

Insomma, per dirla con maggiore precisione, stiamo parlando di un disegno di legge che vuole incidere sul “tipo di Stato” accolto nella Carta costituzionale. Un tipo di Stato correttamente espresso dalla dizione “Stato comunità”, la cui “essenza” è, per l’appunto, il concetto di “Comunità”, sul quale conviene fermare per un attimo la nostra attenzione.

Mi sembra infatti estremamente importante porre in evidenza che, nella “Comunità”, si distinguono tre elementi: il Popolo, il territorio e l’ordinamento giuridico. E, a ben vedere, è proprio “il concetto di Popolo”, che ci consente di affrontare in modo scientificamente corretto, il tema delle autonomie differenziate, lasciando da parte le teorie “normativistiche”, che considerano lo Stato una “entità giuridica”, “una persona giuridica”, e che certamente non sono di alcun aiuto ai fini della nostra ricerca.

Partendo, dunque, dall’idea di Popolo, si può affermare che ancora valida è la definizione che ne dà Cicerone (Cic., de rep., I, p. 343), secondo il quale “populus autem non omnis hominum coetus quoque modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis comunione sociatus” (il popolo non è qualsiasi riunione comunque aggregatasi, ma la riunione di una moltitudine di persone associatasi per consenso di diritto e per comunità di interessi).

La “concretezza” di questa definizione ci porta a capire perché al concetto di “Popolo” è strettamente collegato a quello di “territorio”, essendo evidente che un insieme di uomini, per vivere in comunione di vita, deve anche poter disporre di un proprio territorio (oggi diremmo, più precisamente, di proprie “fonti di produzione di ricchezza”), e perché una simile, stabile riunione di persone ha anche bisogno dell’osservanze di “regole” che rendano possibile la vita civile. Regole che, nella visione di Cicerone, il quale visse in età ancora repubblicana, non possono che essere poste dal Popolo stesso3.

Ed è singolare constatare che questa concezione ciceroniana dello Stato come “Comunità politica” risulta praticamente ed essenzialmente trascritta nel primo articolo della nostra Costituzione, secondo il quale “l’Italia (Popolo e territorio) è una Repubblica (una riunione di uomini) fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al Popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Come si nota, la Costituzione aggiunge soltanto l’espressione “fondata sul lavoro” (una volta svolto dagli schiavi), poiché, nel sistema economico di stampo keynesiano, accolto dalla Costituzione stessa, il sostentamento del Popolo dipende, non solo dalle “fonti materiali di produzione della ricchezza” (il territorio in senso tradizionale), ma anche dalle fonti di produzione di ricchezza immateriale, tra le quali primeggia il “lavoro” dell’uomo.

  • Vedi: NOCILLA, voce “Popolo” (dir. Cost. ), in ED, vol. XXXIV, p. 343.

Ed è da sottolineare che tutto è inquadrato in una visione “democratica” della Repubblica”, nella quale appaiono “essenziali”: l’“unità” del Popolo (“l’unità e indivisibilità della Repubblica); “l’appartenenza” a tutti, almeno di una parte consistente del “territorio” (il “demanio” più il “lavoro”, intesi entrambi come, “fonti di produzione di ricchezza”); la ineliminabile “disponibilità” di “posti di lavoro”; la “partecipazione” di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ed è da sottolineare che la nostra Costituzione, nel sancire l’“Ordinamento” dello Stato comunità, non solo si è mantenuta nei limiti tradizionali dell’“equilibrio dei poteri” (i famosi pesi e contrappesi), andando ben oltre la storica tripartizione del Montesquieu, ma ha anche posto in forte risalto il principio democratico dell‘”autonomia” dei vari poteri da esercitare nell’indefettibile quadro (appena accennato) del “consenso giuridico” e della “comunione di interessi”, nei quali si concreta l’”unità politica, economica e sociale della Repubblica”. Il che è come dire che, in una visione puramente democratica di ”partecipazione” dei cittadini (intesi come singoli e come parti del tutto: art. 2 Cost.) alla gestione della cosa pubblica, assume forte rilievo “la ripartizione delle competenze legislative e amministrative”, fondamentalmente tra Stato e Regioni, tenendo comunque presente che, per quanto concerne le sole “funzioni amministrative”, queste esigenze riguardano anche gli altri Enti territoriali che fanno parte dell’ordinamento della Repubblica (art. 114 Cost.).

Si può dire, insomma, che il concetto “unitario”, nella mutata organizzazione politica del nostro tempo, si esprime oggi in una sorta di “una unità nella pluralità”, come chiaramente si legge nel citato articolo 5 della Costituzione, nel quale si parla della citata “unità e indivisibilità” della Repubblica unitamente alle “autonomie locali” e al “più ampio decentramento amministrativo”.

E questo, beninteso, per utilizzare al massimo le diverse capacità di sviluppo dei vari territori, i cui risultati vanno poi automaticamente distribuiti tra tutti i cittadini, come, del resto era ben chiaro nella originaria versione dell’articolo 117 della Costituzione (poi erroneamente abrogato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, sulla modifica del Titolo V della Costituzione), secondo il quale la potestà legislativa delle Regioni doveva esplicarsi “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato” e “sempre che le norme stesse non fossero in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni”4.

  1. Il problema dell’esatta interpretazione dell’articolo 116 della Costituzione

Ed è nell’appena accennato contesto costituzionale che va ricercato, a mio sommesso avviso, il vero significato della frase “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia …. possono essere attribuite ad altre Regioni” in determinate materie5, espressa dall’articolo 116 della Costituzione, la quale viene, per così dire, “riassuntivamente” indicata con l’espressione “autonomia differenziata”.

Non sfugge la particolarità di questa interpretazione, a causa delle incerte espressioni usate dalla legge costituzionale n. 3, del 2001, di modifica del Titolo V della Costituzione, espressioni che diventano estremamente difficili da capire.

Ci aiuta comunque, in questa operazione, l’evoluzione, ormai compiuta da alcuni decenni dei criteri e degli strumenti interpretativi. Ed in proposito è appena il caso di ricordare che

  • Vedi: CATELANI, “Nuove richieste di autonomia differenziata”, in Osservatorio sulle fonti, 2018-01-01.
  • MADDALENA, Come si determina la materia di cui all’articolo 117 della Costituzione, in federalismi.it, 11 novembre 2010.

deve ritenersi superato il criterio della interpretazione letterale di cui all’articolo 12 delle preleggi, mentre deve considerarsi “giudice supremo” della validità giuridica, il “modello costituzionale”, oramai universalmente individuato nei “principi etici e giuridici” della Costituzione, e, tra questi, il fondamentale “principio di eguaglianza”6.

E, a tal proposito, non si può fare a meno di ricordare che l’articolo 3 della Costituzione prevede, per un verso, una eguaglianza di fronte alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (eguaglianza formale), e, per altro verso, l’impegno della Repubblica a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (eguaglianza sostanziale).

Venendo al dato da “interpretare”, e cioè alla lettura dell’articolo 116, quello che immediatamente balza agli occhi è che tale articolo usa la stessa espressione “forme e condizioni particolari di autonomia”, sia a proposito delle cinque Regioni a statuto speciale (il primo comma del 116 afferma che queste ultime: “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”), sia a proposito delle Regioni a statuto ordinario, per le quali si sancisce che: “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie … possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, …. approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti”. Insomma, come agevolmente si nota, nel primo caso, e cioè in quello che riguarda le Regioni a statuto speciale, il conferimento di “forme e condizioni particolari di autonomia”, avviene con “legge costituzionale”, mentre, nel secondo caso, quello che riguarda le Regioni a statuto ordinario, l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, avviene con l’ “approvazione di legge ordinaria, votata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti”.

A mio avviso, ci troviamo di fronte a un flagrante contrasto con i citati principi interpretativi di eguaglianza formale e sostanziale, di cui al citato articolo 3 della Costituzione, ai quali ho poco prima fatto riferimento.

Insomma, non si capisce per quale ragione il medesimo conferimento di “forme e condizioni particolari di autonomia” dallo Stato alle Regioni, pur producendo lo stesso “effetto”, e cioè la “creazione” o la “modifica” di un “ordine costituzionale” debba avvenire, in un caso con “legge costituzionale” e in un altro caso con “legge ordinaria”, sia pur votata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti.

Una legge ordinaria, d’altro canto, che non conferisce il potere di “disporre” dell’autonomia sancita nell’ambito di uno statuto (peraltro approvato con legge costituzionale, come è avvenuto a proposito delle cinque Regioni a statuto speciale), ma addirittura “attribuisce” alla Regione che ne fa richiesta talune materie, già assegnate direttamente dalla Carta costituzionale allo Stato, modificando così un ordine istituzionale di livello costituzionale, già consolidato. Sembra proprio che ci troviamo di fronte a un testo costituzionale in contraddizione con sé stesso, e, quindi, passibile di essere valutato come giuridicamente “inesistente”.

Qualora, non ostante le su esposte ragioni (e per motivi che mi sfuggono) si volesse ammettere la validità giuridica del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, si dovrebbe parlare, a mio sommesso avviso, non di un definitivo “trasferimento” di “poteri o

  • MADDALENA, I percorsi logici per l’interpretazione del diritto nei giudizi davanti la Corte costituzionale, in federalismi.it, n. 11/2011, p.6.

funzioni” dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta, ma di nuove e ulteriori forme di “cooperazione” e “collaborazione” nelle “materie” di cui si parla.

Penso in particolare alle “intese”, tanto presenti sul piano legislativo e della giurisprudenza costituzionale. Si dovrebbe dar luogo, in altri termini, alla più attenta salvaguardia delle autonomie regionali in tutti quei casi, per così dire, di “frizione” nell’esercizio di specifiche funzioni legislative e amministrative, tenendo comunque presente i “principi unitari” richiesti dal sistema costituzionale.

È questo, peraltro, un criterio già vigente nel tessuto della Carta costituzionale. Si pensi, solo per fare un esempio, a quanto dispone l’articolo 118 della Costituzione, sia nel caso dell’esercizio della “funzione amministrativa”, sia nel caso relativo alle particolari materie dell’immigrazione, della sicurezza e della tutela dei beni culturali.

Nel primo caso (art. 118, comma 1) si dispone che“le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.

È come dire che, qualora i Comuni non siano in grado di mantenere l’unitarietà della funzione amministrativa, la funzione stessa è conferita a Enti che abbiano competenza territoriale più vasta e siano quindi in grado di “assicurare” questa unitarietà. Nel secondo caso (art. 118, comma 3) si sancisce in modo estremamente chiaro che “la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni” nelle appena menzionate materie.

Il richiamo alla legge, peraltro, è tutt’altro che superfluo, poiché, il “principio di legalità, sancito dall’articolo 97 della Costituzione proprio a proposito della “organizzazione dei pubblici uffici”, è di certo uno strumento indispensabile per garantire “il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione”.

Comunque è da ricordare che questo “adattamento” e “coordinamento” dell’esercizio delle funzioni risponde al generale “principio interpretativo”7, al quale ho sopra fatto cenno, secondo cui la “norma”, e cioè il comando da applicare nel caso concreto, non deriva soltanto dal significato letterale del “testo”, ma dalla “significazione” che esso assume nel quadro generale dei “principi fondamentali” dell’ordinamento, tra i quali emerge il “principio di eguaglianza”, che ha una indubbia caratterizzazione “etico giuridica”.

Questo metodo interpretativo, d’altro canto, è stato seguito da parte di una copiosa giurisprudenza costituzionale in tema di “materie trasversali” o in qualche modo interconnesse. E, a tal proposito è utile ricordare che la sentenza della Corte costituzionale n. 336 del 2005, afferma che: “l’ampiezza e l’area di operatività” di determinate disposizioni costituzionali non possono essere individuate in “modo aprioristico” e “valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa”. Esse, infatti, devono necessariamente essere “calate nelle specifiche realtà normative” cui afferiscono e devono tener conto, in modo particolare, degli “aspetti peculiari” con cui tali realtà si presentano”.

  1. L’abisso giuridico costituzionale del disegno di legge sulle ”autonomie differenziate” di

Venendo ad esaminare il contenuto del disegno di legge Calderoli, il primo dato che balza agli occhi è che questo disegno disattende completamente quanto ho tentato di dimostrare a proposito della “interpretazione” dell’articolo 116 della Costituzione, e dà per scontato

  • BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, p. 324 ss.

l’“identità di significato” tra l’espressione “autonomie differenziate” e l’espressione “forme e condizioni particolari di autonomia”. Esso, insomma, si riferisce alla “eliminazione” dei “principi fondamentali dello Stato” che le Regioni devono osservare nell’esercizio della loro 23 materie di “competenza concorrente”, e della “attribuzione di nuove materie”, e cioè di nuove “competenze”, alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta.

E tutto questo avviene con un costante richiamo ai principi solidali e cooperativi di “pluralismo istituzionale”, di “coesione economica e sociale”, di “sussidiarietà” e così via dicendo, come se questi richiami fossero davvero capaci di “rassicurare” chi teme che l’attuazione di questa cosiddetta “autonomia differenziata” costituisca un enorme pericolo per l’unità giuridica e economica dell’Italia, e non si trattasse di richiami, quali in effetti sono, di pura facciata e sostanzialmente privi di significato.

Tra l’altro, questo fine puramente e solamente rassicurante è provato dal fatto che il disegno di legge si conclude con le parole : “è fatto salvo l’esercizio del potere sostitutivo del governo ai sensi dell’articolo 120, secondo comma della Costituzione” (che riguarda, per l’appunto, “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”). Vien da chiedersi chi mai potrebbe credere che il governo sia davvero in grado di tutelare l’unità giuridica ed economica del Paese, se a ogni Regione è stata riconosciuta una piena e insindacabile libertà d’azione nelle materie di propria competenza. In realtà si tratta soltanto di “banali espedienti” narrativi che certamente non giovano alla serietà e alla validità di un vero e proprio “disegno di legge”.

Ma questo procedere con espedienti, a ben vedere, non è affatto un caso isolato. Risulta infatti estremamente chiaro da una lettura spregiudicata del testo che questo è quasi interamente scritto utilizzando una “forma di linguaggio” che consiste nel distrarre continuamente l’attenzione del lettore, dapprima esaltando ad arte l’importanza dei “principi costituzionali”, unitamente alla improcrastinabile necessità della loro attuazione, e risolvendosi poi in delle proposte, che, anziché attuare quei “principi”, hanno il solo fine dell’attuazione di maggiori autonomia alle Regioni.

E si tratta, invero, di una modalità di narrazione che riguarda, sia il disegno di legge nella sua interezza, sia singoli casi del disegno stesso.

Per quanto riguarda la costruzione del disegno di legge nella sua interezza (art. 2 del disegno di legge), è posto in primo piano la sinora mancata attuazione dell’autonomia differenziata, da realizzare, come sancisce l’articolo 116 della Costituzione, mediante l’approvazione di una “legge dello Stato, deliberata a maggioranza dei componenti delle Camere”. Ma subito si ”svia” il discorso, ampliando il numero dei temi da affrontare (che poi sono procrastinati e lasciati insoluti), e ponendo come “essenziale”, non l’approvazione della “attribuzione di competenze e poteri alla Regione richiedente” mediante una “legge dello Stato, approvata a maggioranza dei componenti delle Camere”, ma il perseguimento della “intesa definitiva” tra il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, da un lato, e la Regione dall’altro.

Si trascura, in altri termini, il fatto rilevantissimo che questa “intesa definitiva” è soltanto un “atto propedeutico e preparatorio” all’approvazione della predetta “legge dello Stato” (che sola può “valutare” gli interessi di tutti gli Italiani), e, per di più, si sposta il tutto sul piano “di una procedura amministrativa per l’approvazione dell’intesa”, in palese e insanabile contrasto con quanto sancisce lo stesso articolo 116.

È vero che il disegno di legge Calderoli prevede poi che l’“intesa definitiva” sarà oggetto di un altro disegno di legge predisposto dal Consiglio dei ministri e da approvare a maggioranza semplice, ma questa legge, ovviamente di carattere ordinario, non potrà certamente entrare nel merito delle complesse “intese” raggiunte, sicché non potrà che avere un valore puramente formale e giuridicamente ininfluente.

Come si nota, il disegno di legge Calderoli si erge a “supremo legislatore”, richiama, è vero, i principi costituzionali non attuati, ma, lungi dall’attuarli, sostituisce alla “legge maggioritaria dello Stato”, prevista dall’articolo 116 della Costituzione, una sua legge ordinaria, di carattere puramente formale; fa dipendere l’“attuazione” delle maggiori “autonomie regionali” da una “intesa definitiva”, frutto di un confronto tra Ministeri e Regione sul piano puramente amministrativo; pretende, insomma, di perseguire l’importante fine dell’attuazione delle “autonomie regionali”, creando ex novo procedure e istituti, assolutamente non previsti neppure dall’articolo 116, che dice di volere approvare.

Il fatto più sorprendente, poi, è che questo disegno di legge, che, al comma primo, dell’art. 1, afferma di voler definire i “principi generali” per l’attribuzione alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia, nulla dice su questo fondamentale aspetto, lasciando alla libera contrattazione tra Ministri e Regione di determinare i contenuti delle “Intese”. Ed è appena il caso di aggiungere che quali siano questi contenuti non è dato saperlo, visto che dette “intese” sono rimaste “segrete”.

Insomma, dovrebbe apparire chiaro a chiunque, ed anche ai non addetti ai lavori, che questo disegno Calderoli, già per quanto detto a proposito della sua “struttura fondamentale”, è ben lontano dall’avere una vera consistenza giuridica ed essere conseguentemente considerato un “atto giuridicamente esistente”.

Tuttavia, a mio avviso, questa ineluttabile conclusione, non mi esime, per amore di completezza, dal fare qualche riferimento anche a “singole disposizioni” di questo disegno di legge.

Tanto per cominciare, ricordo che l’affermazione (già citata) secondo la quale (Relazione,

  1. 3, seconda colonna, capoverso) il disegno di legge è volto “a dare seguito al processo virtuoso di autonomia differenziata … in attuazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in un quadro di coesione nazionale” è smentito, qualche riga dopo, dall’osservazione che “le unità politiche territoriali che compongono la Repubblica … sono e sempre più saranno fortemente interdipendenti. Perciò è frequente il rischio che il rallentamento di talune realtà colpisca anche quelle che potrebbero avere un ruolo di traino”. Dunque, l’autonomia differenziata, come si nota, non è affatto utile a tutte le Regioni, e suo fine dichiarato è quello di salvaguardare innanzitutto le Regioni cosiddette “trainanti”.

Altro esempio molto eloquente è quello che riguarda la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (i famosi LEP). È chiaro che si tratta di un annoso e grave problema, ma il disegno Calderoli rivolge la sua attenzione (art. 3 del disegno) alle prestazioni che riguardano “materie o ambiti di materie” oggetto di devoluzioni alle Regioni che richiedono l’autonomia differenziata, precisando inoltre (art. 5 del disegno) che la determinazione di dette prestazioni avrà effetto soltanto se sarà possibile dare attuazione al noto principio del pareggio del bilancio, peraltro richiamato dall’art. 17 della legge finanziaria per il 2023.

Si può ricordare ancora l’affermazione secondo la quale (art. 8 del disegno) “dall’applicazione di detto disegno di legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ma, a ben vedere, questo fine è raggiunto, o con improbabili provvedimenti di snellimento burocratico, o rinviandone l’attuazione a future previsioni di bilancio.

Si potrebbe, come dicevo, continuare a lungo. Ma quanto ho finora riferito sui singoli casi mi esime di andare oltre per confermare quanto ho appena detto sulla invalidità giuridica di questo atto.

  1. Gli effetti giuridici e economici della eventuale trasformazione in legge del disegno

Ho cominciato il mio parlare, con il tentativo di inquadrare il problema delle autonomie differenziate nel sistema ordinamentale della nostra Repubblica. Ed ora, al termine di questa indagine che ho cercato di portare avanti soprattutto sul piano della “interpretazione giuridica”, mi appare d’obbligo concludere con qualche osservazione sugli “effetti” che l’approvazione di questo disegno porterebbe alla “tenuta” della nostra “Comunità politica”, una “Comunità”, la quale, come ho avuto cura di sottolineare, si mantiene sullo stretto collegamento tra gli aspetti giuridici a quelli economici.

Sul piano giuridico, mi sembra agevole osservare che, se è vero, come risulta dalla citata notazione di Cicerone, che lo Stato è costituito dalla “riunione (coetus) di una moltitudine di persone, raggiunta con un consenso di diritto e una comunione di interessi”, possiamo purtroppo con estrema amarezza affermare che il disegno Calderoli ha definitivamente completato quel processo di distruzione della “unità dell’Italia”, iniziatisi con il brutale assassinio di Aldo Moro e portato avanti dai vari governi che si sono succeduti a quell’orribile assassinio (basti pensare alla modifica del Titolo V della Costituzione e alle altre molte proposte non approvate da referendum).

Infatti il disegno di legge Calderoli mira a cancellare, con un tratto di penna, gli elementi essenziali della “comunità politica”, e cioè la “comunione di interessi” (unitamente al “consenso del diritto”) di una moltitudine di persone.

Infatti, l’accentramento delle più importanti competenze, e del maggior numero di esse, nelle Regioni, piuttosto che nello Stato, fa chiaramente intendere che quel consenso di diritto e quella comunione di interessi non riguarda più, unitariamente, tutto il Popolo italiano, ma gli abitanti delle 20 Regioni, nelle quali l’Italia è divisa (piuttosto che essere “costituita”, come sancisce l’articolo 114 della Costituzione).

Né va sottovalutato il fatto che questo disegno di legge cancella in pratica anche il “diritto fondamentale”, proclamato dall’articolo 49 della Costituzione, secondo il quale tutti i cittadini “hanno il diritto di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Se il grosso delle materie è nella competenza delle Regioni (che hanno poteri anche in campo comunitario e internazionale), quale “politica nazionale” potrà essere efficacemente perseguita nell’interesse comunitario di tutti?

Insomma, il “principio fondamentale”, proclamato dall’articolo 5 della Costituzione sulla “unità e indivisibilità della Repubblica” appare completamente disatteso e calpestato, a favore della “attribuzione” di “poteri e competenze” alle Regioni.

Per quanto riguarda gli aspetti economici8, è sufficiente ricordare, che, sempre ad opera dei governi che si sono succeduti all’assassinio di Aldo Moro, sul virtuoso “sistema economico solidaristico” di stampo keynesiano, che considerava “attori” dell’economia, non solo i singoli privati, ma anche l’intera Comunità dei cittadini, proprietaria di un immenso “demanio pubblico industriale”, che ci aveva consentito il famoso miracolo economico italiano degli anni sessanta, è calata la prepotenza del vigente “sistema economico predatorio neoliberista”, che ha compiuto una vera rivoluzione economica finanziaria, ponendo fuori gioco i piccoli imprenditori e favorendo un tipo di economia nella quale sono egemoni soltanto i grandi capitali, le multinazionali, le grandi banche e la finanza in genere, mentre i singoli lavoratori e l’insieme dei cittadini, una volta presenti sul mercato attraverso gli Enti pubblici economici e le Aziende pubbliche9, non riescono oggi ad arrivare a fine mese (mentre sei milioni di italiani vivono in povertà assoluta e sono costretti a una vita gracile e penosa).

Per riprenderci da questa rovina, dovremmo ricostituire la nostra “proprietà pubblica demaniale”, formata, non solo da porzioni di territorio, ma anche dai servizi pubblici essenziali, dalle fonti di energia, dalle industrie strategiche, che, ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione, dovrebbero essere in mano pubblica o di comunità di lavoratori o di utenti, e che purtroppo, insane scelte dei nostri governi hanno “liberalizzato”, “privatizzato” e “svenduto” a multinazionali o a potentati economici e finanziari.

Ma che il disegno Calderoli sia fuori da questi fini dovrebbe risultare chiaro dal discorso fin qui portato avanti. Esso come ho tentato di dimostrare, non attua affatto i “principi fondamentali” sanciti in Costituzione, peraltro ignorandone del tutto il correlato “modello interpretativo”. Insomma appare evidente che ci troviamo di fronte a un disegno di legge che costituisce il compimento tragico della distruttiva ideologia neoliberista e che, in pratica, ha un solo fine, “accentrare” nelle Regioni “economicamente più forti”, quelle poche fonti di ricchezza che ancora restano nelle mani delle Regioni economicamente più deboli. Lo dimostra, più di qualsiasi ragionamento, la stessa “sistematica”, e il correlato “caotico linguaggio” che questo disegno stesso costantemente utilizza.

  • MADDALENA, Costituzione economica: Privatizzazioni e proprietà pubblica demaniale, in Rivista Giuridica AmbienteDiritto.it. Editoriale – Fascicolo n. 3/2023.
  • Detti Enti e Aziende non dovevano fare profitti, ma solo coprire i costi, non potevano fallire, in quanto Enti di Stato, potevano invece offrire lavoro e a chi ne avesse bisogno, corrispondendo una equa retribuzione, come del resto prescrivono, in particolare, gli articoli 4 e 36 della

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