16 febbraio 1943, la strage di Domenikon da parte dei militari italiani
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“Da martedì scorso la città di Domenikon non esiste più”.
La mattina del 16 febbraio 1943 la 24ª Divisione fanteria "Pinerolo", del Regio esercito italiano che occupa la Grecia, entra a Domenikon piccolo paesino della Tessaglia non lontano da Larissa.
I soldati cercano i responsabili di un attacco partigiano che, il giorno prima, ha colpito un convoglio italiano uccidendo nove camice nere.
Il villaggio viene circondato e, su ordine del generale Benelli, scatta immediatamente la rappresaglia. L’intero abitato viene dato alle fiamme, gli uomini fra i 14 e gli 80 anni tutti rastrellati.
Una quarantina di loro vengono subito fucilati e gettati in una fossa comune. Gli altri, circa un centinaio, caricati sui furgoni e trasportati verso Larissa. Lungo il tragitto dell’autocolonna, però, arriva l’ordine del comando: giustiziare tutti. E così nel cuore della notte 97 civili vengono fatti scendere in strada in prossimità di Damasi e fucilati sul posto. Tutti quanti. Anche il sacerdote.
Un eccidio in piena regola e in perfetto stile nazista. Il primo di una lunga serie cui seguiranno quelli di Tsaritsani, Farsala Domokos e Oxinia. Stragi giustificate dal principio della responsabilità collettiva secondo cui l’esercito occupante doveva annichilire la resistenza annientando interamente le comunità locali, commesse nei confronti di un popolo amico da sempre e che la folle retorica dell’impero trasformò in nemico. Veri crimini di guerra rimasti senza colpevoli e senza giustizia.
Che si abbia memoria anche di questo.