1914-1918, SI APRE L’ERA DEI MASSKILLER
di Fulvio Grimaldi
Nei prossimi giorni ci assorderanno con le celebrazioni della vittoria, il Piave mormorò, i nostri fanti, il generale Diaz, Trento e Trieste, “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Tra cimbali e fanfare, corse di bersaglieri, penne dritte degli Alpini, Vittorio Veneto, commossi elogi e severi moniti all’unità nazionale e all’amore per l’Europa “che ci ha dato 70 anni di pace” (Jugoslavia, spedizioni Nato e guerra ai poveri escluse) pronunciati dal capo dello Stato, siamo tutti chiamati a festeggiare la “vittoria”. Dal 2 novembre, giorno dei morti, al 4, giorno del “compimento del Risorgimento” con la ripresa delle “terre irridente” (Trento e Trieste, va pure bene, ma Bolzano, il Brennero e una popolazione straniera soggiogata che c’entravano?), patria, nazione, sovranità gonfieranno i petti e orneranno le labbra dei cerimonieri sui colli e dei loro chierichetti nelle redazioni. Subito dopo torneranno ad avere il sapore tossico che gli si attribuisce quando risultano concetti formulati dalla nota peste sovranista, populista, nazionalista, razzista e, perché no, va bene per ogni disturbatore, anche un bel po’ fascista.
Dalle crepe nell’edificio fatiscente delle Grande Guerra farà capolino qualche sparuto fiore. Qualcuno rapidamente ricorderà quell “Anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, o “La Grande Guerra” di Monicelli, controcanti ormai storici, nascosti ai giovani da strati di polvere. Accanto all’eroismo, al martirio, perlopiù involontari, di quelli sbranati nelle trincee (magari fucilati nella schiena dai propri ufficiali) e di quelli scampati, scolpiscono nella Storia l’infamia senza limiti dei comandi e dei profittatori imboscati nelle banche e nei consigli d’amministrazione. Colpi di cannone, strazi di moribondi e tintinnio di lire suonavano la canzone della patria.
Industriali e generali
L’Europa si sbranò per decidere chi dovesse essere più imperialista e più colonialista e quale classe dirigente dovesse avere la fetta più grossa nel cannibalismo planetario. Fece staccare il biglietto per questo cammino alla gloria e ai dobloni della sua borghesia a 14 milioni di morti ammazzati. L’Italia fece la sua parte, Agnelli, produttori di armi e innovatori tecnologici in testa. Per porsi al passo con un futuro capitalista di sconfinato arbitrio e altrettanto sconfinata ricchezza predata dal basso, vaticinato dalla borghesia e, come in ogni trasferimento di ricchezza e di consolidamento di potere, accompagnato dalle Chiese, i parvenu del nostro capitalismo, gli arrembanti delle magnifiche sorti e progressive, offrirono in pasto ai loro appetiti 600mila giovani vite. I cappellani militari benedivano, gli ufficiali sparavano a chi non attaccava con sufficiente vigore.
Braccia perlopiù sottratte all’agricoltura. Procedimento perseguito, tranne un breve intervallo autarchico, senza soluzione di continuità, fino alla robotizzazione automobilistica e petrolifera del territorio per imperituro merito sempre di quegli Agnelli, fino allo svuotamento delle nostre terre grazie a opportuni terremoti e puntuali dopo-terremoti. Patrioti, ma a Detroit. Ma che fa: arriveranno braccia africane a coltivare soia all’ombra dei rosoni romanici, ci saranno i Briatori a valorizzare le fondamenta etrusche facendone vetrina pavimentale nei resort.
Il grande massacro si è poi ripetuto una ventina d’anni dopo. Stavolta, produzioni e tecnologie più moderne: 50 milioni di morti, senza calcolare quelli per fame. In ogni caso un bello sfoltimento di spazi perché ci si potesse muovere agevolmente, senza dover sgomitare tra troppi plebei. I padroni sono per scelta e dna assassini seriali. Non hanno il cromosomo dell’empatia, hanno quello della voracità, come certi organismi fatti solo di tubo digerente. Odiano tutto quello che gli impedisce di ingurgitare. Se i nostri sono, come vuole la vulgata, discorsi dell’odio, hate speech, i loro sono fatti dell’odio, hate facts. E mai come oggi, passati dai macelli tra liberali e monarchici a quelli tra liberali e nazifascisti, a quelli di liberali post-nazifascisti contro tutti gli altri, ne stanno rinnovando la dimostrazione.
In coda a tutti costoro ci sono poi i marciatori della pace, i nonviolenti senza se e senza ma. Senza di loro i violenti e i profittatori di guerre mancherebbero di una base d’appoggio. Finchè marciano inneggiando alla pace e riprovando la guerra, evitando accuratamente di nominare un solo generale, un solo presidente, un solo ministro, rigettando ogni funesta tentazione di schierarsi, magari dalla parte delle vittime, collocando i carnefici nella dimensione dell’inconoscibile, applicando il dettame della nonviolenza anche a coloro che mani possenti spingono sott’acqua, il mondo procederà senza scosse. Verso la fine.
Così, anche tra Perugia e Assisi, anche stavolta, dopo sette anni di guerra senza quartiere condotta da mezzo mondo civile e dai suoi civilissimi mercenari, non si è sentito neanche sussurrare la parolina “Siria”. Ah no, un momento. Ne ha parlato “il manifesto”, il 31 ottobre, a proposito del patrimonio archeologico millenario del paese. Per attribuirne la rovina “all’indegno disinteresse del governo di Bashar el Assad”.
Da Palmira, dove era nato nel 1932 ed è morto il 18 agosto 2015, saluta l’autrice di quell’articolo Khaled al Asaad, archeologo, direttore degli scavi di Palmira per conto del governo di Assad, trucidato dai mercenari Isis per non aver voluto lasciare alla loro mercè le colonne millenarie della sua città.
Anni fa, in occasione di un anniversario della strage, mi ritrovai a fare una diretta tv dal cimitero che custodisce i resti dei 1.909 ammazzati dai costruttori e non manutentori della diga del Vajont. Come sottofondo musicale ci infilai la canzone del Piave. E nel commento accennai a qualcosa come: caduti della guerra dei costruttori e cementificatori, come quegli altri, quasi mezzo secolo prima, nella guerra degli industriali e generali. Un vero hate speech. E mi fu cancellata la rubrica al TG3. Che si chiamava “Vivere!”, col punto esclamativo.